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a cura di Giovanna Amadasi & Andrea Lissoni
L'indagine degli artisti visivi intorno al cinema, al suo linguaggio e ai suoi dispositivi ha radici antiche, almeno quanto la storia del cinema. A partire dalla avanguardie storiche il mondo dell'arte e quello del cinema si sono sfiorati, scrutati a distanza, attaccati frontalmente o sposati felicemente, ma mai ignorati.
Bisogna prendere atto che proprio negli ultimissimi anni, se si esclude la parentesi emblematica degli anni sessanta, un numero di artisti sempre crescente si Ë rivolto al cinema e ai suoi linguaggi, tecniche, contenuti, secondo scelte diverse e a volte lontane tra loro, ma che se esaminate con uno sguardo d'insieme non si possono considerare casuali.
Una prima tipologia Ë costituita da artisti come Schnabel, Sherman, Clark, Longo e Salle, i quali grazie alla fama raggiunta hanno potuto misurarsi con la grande produzione cinematografica, quella dai budget miliardari e quindi rivolta per definizione a un circuito commerciale e non specialistico. Nonostante la disomogeneità dei risultati, questi artisti sono accomunati dal tentativo (più o meno coraggioso) di avventurarsi su un territorio lontanissimo, soprattutto tecnicamente, dal proprio ambito espressivo e professionale, anche se nei loro film si ritrovano oltre alla loro poetica, le loro ossessioni figurative: le rappresentazioni umanoidi di Cindy Sherman, gli adolescenti maledetti di Larry Clark, i colori acidi di David Salle, l'autocitazione di Julian Schnabel. In passato, soltanto pochi, come negli anni sessanta Andy Warhol e negli anni ottanta Rebecca Horn, avevano osato confrontarsi con l'enorme meccanismo produzione-distribuzione in tutta la sua complessità e ambivalenza.
Sembra che tali artisti, attraverso il fare cinema, vogliano oggi recuperare un terreno perduto, quello dell'evento e della spettacolarità, del rapporto col pubblico, un tempo affidato alla performance e all'happening, o anche semplicemente al vivace flusso di persone e di energie che si muoveva intorno al mondo dell'arte. Una tale scelta, soprattutto se osservata dal punto di vista della critica d'arte in senso stretto, più apparire come una sconfitta o come una rinuncia alla specificità del proprio linguaggio; ma vi si più invece scorgere una voluta scelta anti-elitaria, la volontà di un riavvicinamento reale e non solo proclamato alla cultura hiphop nel senso letterale del termine, scegliendo quindi non solo di citare, ma anche di assumere in toto un certo codice linguistico insieme ai suoi strumenti tecnici e di diffusione. Operazioni di questo tipo, che a volte possono avere una loro validità intrinseca, con film godibili e accessibili anche al grande pubblico, in cui le citazioni e i riferimenti non sono essenziali al funzionamento della struttura narrativa ma anzi la arricchiscono dal punto di vista delle immagini e dei contenuti, in altri casi rischiano di rimanere in una posizione ambigua, in cui non Ë ben chiaro dove stia il senso se non appunto in un complesso sistema di citazioni e rimandi non sorretto da adeguati strumenti tecnici e narrativi, non percepibile che da un ristrettissimo pubblico: rimanendo comunque dei prodotti specialisticamente ermetici e ristabilendo la distanza che si intendeva forse annullare.
Per molti altri artisti, la spinta a entrare in contatto con il linguaggio cinematografico nasce invece all'interno di un percorso di ricerca in cui il cinema diventa un oggetto di analisi quasi medico-anatomica: come se questo enorme apparato in grado di comprendere ogni forma espressiva e ogni possibile storia, di creare realtà attraverso la finzione e finzione attraverso la realtà, produttore di immaginario e di mitologia contemporanea, potesse essere compreso solo isolandone una parte dal tutto. Da Stan Douglas a Sharon Lockart, da Douglas Gordon a Pierre Huyge, da Johan Grimonprez a Sam Taylor Wood, da Ange Leccia a Damien Hirst, da Tracy Moffat a Cheryl Donegan, solo per citarne alcuni, non si contano gli artisti che si cimentano con la telecamera o direttamente con la pellicola per tentare di scoprire e decostruire le strutture del cinema, cercando un rapporto che non sia di controllo univoco ma di scambio reciproco. In questo panorama Ë impossibile ogni distinzione tipologica o di genere poichè ogni lavoro rappresenta un'esperienza a se: da ognuno di essi nasce una riflessione su uno o più aspetti specifici del cinema (l'inquadratura, il tempo, l'utilizzo della narrazione, il ruolo della scenografia, la manipolazione delle emozioni attraverso le immagini, le condizioni di visione, il doppiaggio, il remake, il voyeurismo intrinseco alla cinepresa) ma anche un opera a se stante, autonoma e con un proprio equilibrio interno.
Ultimamente anche il cinema sembra accorgersi che da questa multiformità possono nascere nuove energie e spunti vitali. Alcuni di questi lavori, infatti, come nel caso di quelli Matthew Barney o di Sharon Lockart, di Francisco Ruiz de Infante o di Eija-Liisa Ahtila, pur essendo nati come prodotti decisamente "artistici" riescono inaspettatamente a evadere dal circuito dell'arte e ad entrare in quelli cinematografici; circuiti in cui tali film o video vengono accolti con una sensibilità impensabile soltanto qualche anno fa. Si sta infatti progressivamente creando uno spazio libero tra il cinema d'essai in senso stretto e quello della grande distribuzione, lo spazio dei film a basso costo e dei corti e mediometraggi di ricerca, come emerge anche da grandi Festival come Venezia o il Sundance. In modo quasi complementare la maggior parte delle istituzioni museali americane ed europee dispone di un dipartimento stabile dedicato a film e video, con curatori e rassegne non più esclusivamente funzionali al programma espositivo; presso il Jeu de Paume, il Mnam-Centre Georges Pompidou a Parigi o l'ICA a Londra il cinema riceve un'attenzione di qualità che non trova nei circuiti distributivi tradizionali. Contemporaneamente sono sempre di più gli autori che rifiutano una definizione rigida e che si muovono liberamente in territori interdisciplinari.
Un fenomeno curioso, ma che sicuramente ha un significato in questo contesto, Ë la scelta di alcuni filmmakers "storici", come John Waters, Chantal Ackerman e Chris Marker, di realizzare vere e proprie installazioni, prodotte ed esposte in gallerie d'arte e musei. Ma se spesso i contenuti sono ricavati dalla propria produzione cinematografica c'è, nelle foto di John Waters così come nelle installazioni di Chantal Ackerman o di Chris Marker, una ricerca seria e motivata sul dispositivo utilizzato, con risultati che anche in questo caso, come in modo speculare accade per i film degli artisti, assumono una validità autonoma al di là del sistema di riferimento esterno e che rendono possibile goderne pur senza essere dei cinefili accaniti.
Con Facts&Fictions Film d'artista, nel pur ampio orizzonte tematico della narrazione, in parte ambiguo in quanto indissolubilmente legato alla forma cinema, si Ë tentato pertanto di rendere conto per quanto possibile di una scena vasta e multiforme, cercando di evitare ogni forma di confine di supporti, generi e destinatari. Cinema al cinema senza dimenticare la provenienza dei film ma senza troppo insistere al tempo stesso sulla loro "artisticità". E questo un po' il paradosso che se da un lato Ë una specificità dell'arte visiva fin dall'inizio del secolo - l'onnivora tendenza all'apertura, il fagocitamento e l'immediata chiusura - dall'altro ha prodotto alla fine degli anni sessanta quel definitivo divaricamento fra cinema e arti visive che si Ë poi identificato tout court con l'etichetta "cinema sperimentale". Un porto franco che si Ë successivamente allargato e rimesso in questione con una parentesi di un ventennio circa grazie all'approdo del video prima e alla sua parziale dipartita poi di nuovo verso le arti visive. E se i film corti di Christian Boltanski sono emblematicamente rappresentativi di quel primo ormai "storico" momento, il percorso di Stan Douglas, di Johan Grimonprez e di Eija-Liisa Ahtila lo sono più del secondo.
I film d'artista del presente, probabilmente molto meno utopici negli ideali di democraticit‡, irriverenti e anarchici di quelli della neoavanguardia (per voce dei protagonisti narrati come sempre fuori luogo, fuori tempo, fuori schermo e fuori orario), possono tuttavia contribuire a far ritrovare forse parte di quelle tensioni. Da qui anche la scelta di una programmazione in un cinema pubblico, di una successione serrata, un'opzione che se da un lato può apparire coercitiva, dall'altro aiuta a determinare una sorta di affogamento in quella condizione di continuum atemporale e di immersione totale tipica del festival cinematografico. Ne più scaturire una sorprendente dimensione di "spazio socializzante" (ormai rara nel mondo delle arti visive se non alle inaugurazioni di grandi esposizioni-evento), peraltro assai evocata negli ultimi tempi da buona parte degli autori di installazioni.
Abbandonando la questione della fruizione e riprendendo l'analisi del rapporto tra arte e cinema Ë da dire per completezza che al di là di qualche ottima rassegna a carattere storiografico in direzione del presente e di qualche occasionale stroncatura a singoli film, se la critica d'arte Ë intervenuta nello specifico del rapporto arte/cinema lo ha fatto affrontando un motivo preciso, forse più un fenomeno: individuato come "cinema esposto" (lett. Cinéma exposé), Ë di fatto una sorta di vague consistente in una relativa abbondanza di installazioni spaziali che molto hanno a che fare, per un motivo o per l'altro, con il cinema. Ugualmente si più dire per la critica cinematografica che ha in gran parte ignorato l'area del cinema d'artista o non "classificabile", spesso proprio a causa della diffusione in circuiti paralleli e non ufficiali, spesso rifacendosi ancora troppo alla nozione di quadro, al rapporto quadro/inquadratura, in una logica ancorata ad una visione in cui le arti visive corrispondono alla pittura tout-court. Nel modello del montaggio, della durata e della sua esasperazione, della composizione articolata nel tempo dello spazio, della narrazione e dunque secondo una logica forse più sculturale che pittorica esistono enormi potenzialità per riflessioni e studi senz'altro proficui sia per le arti visive e sia per il cinema. Sembra quindi di poter concludere in modo ottimistico, con l'osservazione che, mentre il cinema può offrire all'arte contenuti e spunti di riflessione sull'immagine in movimento, altrettanto l'arte può dare al cinema la possibilità di fermarsi e soffermarsi, osservandosi in profondità e conferendo alle proprie immagini un senso nuovo e diverso.
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