Gate 4 : Networking - Le citta' della gente


Promosso da Regione Toscana -TRA ART e dai Comuni di
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Town Meeting # 1 - Intervento di Francesca Cognetti, Paolo Fareri



Martedi' 25 febbraio 2003 si e' tenuto il primo incontro che si e' atricolato in due momenti: un polo a carattere espositivo e uno di pubblico dibattito.

- Town Meeting # 1, Firenze - Insurgent City, Milano - Comunita' in corso. Immagini e racconti da un'altra citta' ha messo a confronto due esperienze fondamentali di ricognizione e mappatura di due aree urbane come Milano e Firenze nel momento in cui le ricerche sono in corso e hanno gia' dato i primi importanti risultati che abbiamo avuto modo di vedere nell'esposizione presso il SESV.
La mostra raccoglie proiezioni, video, tavole, foto e altri materiali relativi a questa ricerca di mappatura.

- Presso la Sala degli Specchi dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze si e' svolta una tavola rotonda con la partecipazione di Giancarlo Paba e Lorenzo Tripodi del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del territorio dell'Universita' di Firenze insieme con Paolo Fareri e Francesca Cognetti del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano; Marco Scotini curatore del progetto Networking 2003 e Marco Brizzi curatore S.E.S.V.

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Vedere le differenze nelle strade

Milano, nuove forme di produzione della citta'
Intervento di Francesca Cognetti, Paolo Fareri


Abbiamo bisogno di vedere le differenze nelle strade, o negli altri, senza avvertirle ne' come minacce ne' come tentativi di seduzione bensi' come visioni necessarie. Esse ci servono per muoverci nella vita con equilibrio, sia in senso individuale che collettivo. (... ) Riconoscere il nostro posto in mezzo agli altri e prendere in considerazione cio' che si vede produce infatti come risultato il desiderio di operare.
R. Sennet, 1992

Spazi dell'innovazione a Milano
Se guardiamo oggi a come cambia la citta', con occhi disincantati e con occhiali che proteggano dalle rifrazioni dei grandi cantieri, possiamo scorgere processi che a noi paiono innovativi. Cercheremo in queste note di renderne parzialmente conto.
Di Milano si dice spesso che e' una citta' discreta, che non si e' mai lasciata prendere e non ha lasciato spazio a grandi disegni. Le sue qualita' vanno cercate fra le pieghe, negli interstizi. Le architetture sono quelle degli edifici residenziali piu' che delle grandi opere pubbliche. I piani, gli scenari, quando sono stati ambiziosi sono rimasti sulla carta. Si dice anche che Milano comunque se la cava, un po' napoletana come citta': nonostante l'assenza del 'grande disegno' ha comunque superato le sue crisi, e' stata in grado di gestire il passaggio complesso dalla condizione di citta' industriale a quella di metropoli di servizi alla produzione senza rilevanti contraccolpi.
Se guardiamo alla capacita' che Milano ha saputo esprimere di generare innovazione urbana, la capacita' cioe' di anticipare la messa a punto di soluzioni efficaci ai problemi della citta', lo scenario cambia. E, in modo abbastanza sorprendente, notiamo che a tale capacita' ne corrisponde un'altra, quella cioe' di tradurre nella realta' i progetti e le aspirazioni. Rileggendo la storia di Milano nel corso degli ultimi decenni da questo punto di vista, possiamo distinguere alcune principali fasi.
La prima e' quella della ricostruzione, dopo la guerra, che e' in realta' la costruzione di una nuova citta'. Gli anni della Milano 'capitale economica e morale', i due decenni cinquanta e sessanta, caratterizzati da una eccezionale performance realizzativa e da una costante ricerca dell'innovazione(Dente, Fareri, 1997).
Si apre poi un periodo di lunga crisi. Negli anni settanta il tema del governo delle trasformazioni viene interpretato soprattutto in termini di integrazione delle reti decisionali alla scala metropolitana, seguendo lo spostamento della crescita fuori dai confini della citta' centrale, costruendo un sistema di management della contrattazione fra pubblico e privato parallelo alle istituzioni e fondato sull'articolazione territoriale dei partiti politici. Negli anni ottanta i processi di deindustrializzazione riportano al centro dell'attenzione Milano. Sono gli anni del passaggio alla logica della 'pianificazione per progetti' (Dente, Morisi, Bobbio, Fareri, 1990) che produce una grande quantita' di proposte che si infrangono contro conflittualita' intrattabili proprio perche' non riescono a reinterpretare l'innovazione.
Diverse ipotesi possono essere avanzate sulle ragioni di questa crisi. Si puo' dire che Milano non e' riuscita a riprodurre la capacita' di generare innovazione nel momento in cui la complessita' delle reti decisionali e' cresciuta, soprattutto lungo la dimensione verticale. Verso il basso, con l'ingresso nei processi di attori sociali di quartiere. Verso l'alto, quando il comune non ha piu' potuto operare in autonomia, occupando come aveva fatto in passato spazi decisionali su temi di scala sovracomunale. In quel momento e' venuta meno la possibilita' di assegnare al tecnico (fosse esso un funzionario, un esperto o un consulente politicamente schierato) un ruolo centrale di generazione dell'innovazione e di sostegno alla sua legittimazione. Di fronte alla crescente complessita', il mancato riconoscimento del carattere di interazione sociale dei processi progettuali ha interrotto l'efficacia delle politiche istituzionali.
Dopo questa lunga parentesi, che e' al tempo stesso di incapacita' di affrontare il tema dell'innovazione e di incapacita' realizzativa, un nuovo scenario sembra aprirsi nel corso degli ultimi anni. Uno scenario per certi versi contraddittorio, esito dell'affiancamento di due stili di governo delle trasformazioni sostanzialmente diversi fra loro, in parte giustapposti, ai quali fanno riferimento attori sociali diversi, e che si manifestano in arene decisionali separate. Da un lato il Big Government, che ripropone con qualche aggiustamento la ricetta deregolativa reganiana e thatcheriana di qualche anno fa. Uno stile che si afferma nell'arena istituzionale e che coinvolge selettivamente attori economici e politici chiaramente identificabili. Uno stile che riacquista la capacita' di decidere pur mantenendo un profilo a dir poco basso sul piano della innovazione e della qualita' urbana, massimizzando la disponibilita' di alcune nuove risorse. Fra queste contano certamente in misura significativa gli esiti della riforma elettorale che, con il passaggio all'elezione diretta del sindaco e al sistema maggioritario, consentono in modo del tutto nuovo nello scenario italiano di decidere aggirando il conflitto. Genera, il Big Government, i grandi cantieri che sono nuovamente spuntati in citta', che aggiungono a Milano pezzi di grande poverta' progettuale, che radono al suolo storie e frammenti di identita' sostituendoli con quantita' di residenze, uffici, supermercati (Fareri, 2002).
Dall'altro la Little Governance, che propone in modo poco visibile nuove forme di produzione della citta'. Uno stile che trova spazio in arene fatte di attori prevalentemente locali, e che guadagna capacita' di fare a partire dalla ricerca di nuove forme di efficacia. Ed e' questo lo spazio in cui Milano come citta' ritrova la capacita' di innovare. Di questa capacita' vale la pena di evidenziare alcune dimensioni, cio' che al tempo stesso la rende possibile e ne determina il successo.
Si tratta innanzitutto di innovazioni che partono dal processo per giungere al prodotto. E' il modo di intendere il processo progettuale che cambia, fuori da una logica di centralita' del sapere esperto e del tecnico che se ne fa portatore. Percorsi che riconoscono la complessita' come una risorsa, che sanno fare interagire positivamente e laicamente forme diverse di conoscenza e gli attori in grado di mobilitarle; che mettono in discussione la sequenza analisi - disegno - decisione - attuazione, a volte intendendo l'azione di trasformazione come innesco del progetto, a volte rifiutando la necessita' di 'un progetto' come quadro di riferimento, a volte usando il progetto come strumento analitico; che superano atteggiamenti naturalistici nei confronti del 'locale', lavorando sulla sua costruzione. Da qui nascono processi di cambiamento che al tempo stesso costruiscono e trattano problemi pubblici, dimostrando un livello di efficacia che il Big Government e' riuscito solo a tentare di mimare, finendo per manifestare che quelle risorse stanno da un'altra parte.

Nuove pratiche per ripensare la citta'
Abbiamo cercato di ricostruire una geografia di Milano a partire da piccole o grandi aree di trasformazione, che si sono offerte alla nostra esplorazione come pezzi del cambiamento della citta' contemporanea dalla portata innovativa. Abbiamo riconosciuto innovazione nel momento in cui si sono affacciati sulla scena urbana nuovi soggetti protagonisti, nuove strategie messe in campo, nuove modalita' di relazione, nuove chiavi di lettura per avvicinare le pratiche.
Questi luoghi diversi per nascita, modalita' di auto riproduzione e provenienza ci sono sembrati significativi rispetto al trattamento dei problemi pubblici urbani: il disagio e l'emarginazione, i grandi progetti calati dall'alto, la dismissione delle aree, il verde trascurato, sono alcuni dei temi vissuti dai promotori come dimensioni progettuali dalle quali ripartire e lavorare collettivamente sulla trasformazione sociale e fisica della citta'.
La capacita' organizzativa e collettiva si sviluppa solitamente fuori dalle consuete forme della vita politica, strutturando interessi ed esigenze verso azioni civiche giocate direttamente alla scala locale e sul campo. Quello che si genera, ed ha la caparbieta' nonostante le continue difficolta' di rigenerarsi, e' la formazione di nuovi contesti di azione per i gruppi autorganizzati, che costruiscono occasioni di strutturazione attorno a nuove geografie e su 'istituzioni sociali' informali, deboli, provvisorie.
Le nuove strutture intermedie della vita sociale si aggregano per bisogno, per scelta, per affinita', sulla scorta di una spinta individuale; hanno appartenenze multiple e deboli; hanno formazioni e durate variabili. In questo si scostano dalle forme aggregative tradizionali delle comunita' locali come potevano essere parrocchie, sezioni di partito, bar di quartiere, per spingersi verso l'attivazione di nuove reti e nuovi legami, spesso a partire dal ridisegno di un luogo, di un intervento, di una politica.
In questa lettura, portata all'estremo, la citta' come struttura e sistema coerente scompare ed emergono delle microstrutture, germi di nuove forme di organizzazione sociale, non piu' strutturate in base a residenza, lavoro e posizione sociale, che si muovono a diverse scale (piu' interessi messi in campo, piu' soggetti, piu' orientamenti, piu' reti), ma in misura localizzata, a partire, cioe', da un territorio.
'Dobbiamo pensare ad un processo interattivo, a molti attori, in situazioni di compresenza: interagendo nelle quali gli attori si confrontano con condizioni di percezione e di azione, con conoscenze e valori che continuamente ridefiniscono e negoziano tra loro; e per questa via pervengono, eventualmente, alla determinazione di fare fronte insieme, ad agire insieme, nei confronti di cio' che fa problema della situazione di compresenza '. (Crosta, 2002)
L' 'ancoraggio' nella dimensione locale, la tensione tra nuove possibilita' ed elaborazione di culture locali e' generativa di strategie inedite che innescano processi di trasformazione rivelando un notevole potenziale di innovazione, associato in particolare all'efficacia nel trattamento dei problemi pubblici.
Per questo possiamo riguardare questi soggetti come coloro che implementano politiche pubbliche 'di fatto', che si affiancano, si contrappongono o spesso si sostituiscono a quelle istituzionali.

Pezzi di citta'
L'ex ospedale psichiatrico

Il Paolo Pini e' stato per quasi un secolo il manicomio di Milano.
Un lungo muro ne ricorda ancora la storia di reclusione e di esclusione. Come una traccia indelebile segna i confini del grande parco che contiene quella che era la casa di cura per malati mentali.
Le degenze lunghissime, l'alto grado di abbandono e isolamento, la perifericita' del contesto contribuirono alla formazione di una vera e propria citta' nella citta', con regole, abitanti e comportamenti propri.
La storia di questo luogo e' in via di ridefinizione oggi, tramite il lavoro di molti che ci stanno investendo energie e idee per far rivivere un luogo che ha perso parte della sua identita' e che, al contempo, se la porta dentro, nelle ombre dei vecchi alberi, tra le mura dei padiglioni fatiscenti, nelle stanze bianche, dai soffitti alti. Un'area con passato denso, ma che si restituisce ora alla citta', non solo come potenziale di spazi da utilizzare, ma come luogo pieno di storie e di significati da reinvestire in un'altra storia.
Oggi all'interno del parco, che e' diventato pubblico, ma ancora scarsamente usato, trovano sede le diverse attivita' dell'associazione e della cooperativa Olinda, che ha sviluppato il suo impegno su modalita' e tempi di riconversione dell'ex ospedale psichiatrico, cercando di colmare il vuoto, non solo fisico, lasciato dal deperimento dell'istituzione totale. Le attivita' hanno puntato sulla messa a punto di una serie di progetti di impresa sociale come concreti strumenti di trasformazione del manicomio in uno spazio aperto alla citta', che riesca, pur conservando parte della sua natura, ad assumere un senso pubblico e, in questo senso, di integrazione tra le diversita'. La Falegnameria, il bar e ristorante Jodok, le rassegne estive 'Da vicino nessuno e' normale', l'ostello contribuiscono a sostenere l'equilibrio precario e in continua definizione che regola l'interazione e l'incontro tra chi viene da fuori e chi sta dentro.

I quartieri di periferia
Dal 1992 il Comitato Molise Calvairate che opera in uno dei quartieri popolari piu' grandi di Milano si e' costituito in associazione di volontariato: una quarantina di volontari garantisce il susseguirsi regolare di tutte le attivita' e l'apertura giornaliera della sede. 'Il Doposcuola dei bambini e delle bambine che frequentano le elementari, inizia alla chetichella. Non abbiamo ben chiaro cosa fare, semplicemente ci rendiamo conto che i bambini di questi quartieri, che vivono in case piccole e sovraffollate, dopo la scuola avrebbero bisogno di luoghi dove giocare liberamente. Tutti sono incuriositi da quello che avviene nella nostra Sede, gli amici, i fratelli piu' grandi. C'e' interesse e la cosa si allarga.'
Anche al mattino, che e' il momento in cui le iniziative sono piu' rade, c'e' sempre qualcuno che tiene aperto. Questo favorisce l'ispessirsi di reti di relazioni fondate sui rapporti personali, sulla costruzione di fiducia costruita nel tempo. Un rapporto conquistato, quello con gli abitanti, da anni di lavoro, di serieta', di qualita' delle proposte.
' L'approccio integrato alla riqualificazione nell'esperienza del Comitato Inquilini Molise Calvairate', in Balducci, A., (a cura di), 2002.
'Della periferia amo la semplicita' e anche l'arroganza con cui le persone ti chiedono aiuto, perche' tante volte evidenziano una concezione piu' fraterna della societa' e ti stimolano a fare in modo che le comunita' si riconoscano capaci di dare risposte e si attivino anche a chiedere servizi pubblici necessari per dare risposte, per quanto devono. La periferia prende il colore delle persone che vi abitano e vive se si lavora per costruire una rete i cui nodi spaziano dai soggetti privati alla strutture pubbliche. (...)Il villaggio alla Barona non si presenta solo come supporto fisico sul quale si appoggiano, in maniera piu' o meno programmata, funzioni diverse ma un campo di azione che ospita attivita', micro-progetti, pratiche, attori, esperienze; un luogo che mentre si apre al quartiere e alle sue abitudini introduce elementi di discontinuita' che generano uno scarto innovativo tra cio' che gia' esiste ed e' acquisito e cio' che in futuro potrebbe utilmente svilupparsi e crescere in citta'.' Don Roberto
'Villaggio Barona: la sfida dei progetti di riqualificazione urbana. Ripartire dalla comunita' locale e dai servizi alla persona', in Balducci, A., (a cura di), 2002.

Il parco pubblico
' Noi siamo innovatori a Milano come tra i primi operatori che hanno costruito un sistema a parco.
Dai primi 35 ettari del Bosco siamo arrivati col secondo ampliamento ad 80 ettari e con il parco delle Cave abbiamo altri 111 ettari in tutto 191 ettari di aree coltivate, allestite a parco o in corso di allestimento. Vuol dire quasi 2 milioni di mq, vuol dire quasi il 20% del territorio comunale. Cioe' un'associazione si investe di costruire una grandissima superficie di area a verde e produrre con queste operazioni innovazione. In questo il rapporto con l'Amministrazione e' importante: il Bosco nasce come stimolo, spinta e polemica ma nasce con un 'idea che noi ci occupiamo di quest'area per un po' di anni e poi la restituiamo all'Amministrazione.
E' molto importante la presenza di idealita' da parte dell'associazione ad ascoltare tutto quello che viene dalla societa' e dalla gente che utilizza il parco; e dall'altra parte l'Amministrazione e' il luogo in cui tutto cio' si consolida attraverso una strutturazione ed e' una continua andata e ritorno: da un parte l'invenzione, dall'altra il consolidamento. In questo processo noi ci siamo ormai pero' assunti anche l'onere di consolidare e di diventare la struttura che fa queste cose, perche' qualsiasi dibattito sulle aree verdi se non si traduce in una serie di cose da fare e da costruire che si sperimentano non produce nulla. '
Sergio Pellizzoni, direttore Centro di Forestazione Urbana di Boscoincitta', in Milano, comunita' in corso. Incontri con la citta', aprile 2002.

Le aree dismesse
Siamo nella zona Musocco, in fondo a viale Certosa: una zona periferica, direttamente a ridosso dello svincolo di accesso alle autostrade, della ferrovia e di una serie di capannoni industriali; una zona caratterizzata da pochissime centralita', pochissimi elementi attrattivi e invece composta di spazi che sfuggono ad una rigida regimentazione degli usi. E' un territorio che invece in epoca trecentesca era una zona di cascine: di queste cascine ne sono sopravvissute pochissime e Torchiera e' una di queste. Dieci anni fa e' stata occupata ed a partire dalla prima occupazione sono stati avviati i lavori di ristrutturazione fisica che ha significato anche restituzione di senso a questo luogo. Il nodo centrale sta nel fatto che a guidare la costruzione, l'evoluzione e la realizzazione incrementale del progetto non era un'idea predefinita e calata dall'alto ma il contenuto e la forma di questa trasformazione e' scaturita realmente solo dall'incontro in quel luogo di differenze e di soggetti diversi, alcuni che forse in quel luogo interagivano per la prima volta, altri con delle esperienze precedenti: da questo incontro si e' sviluppata una potenza generativa che ha avuto come esito qualcosa di straordinario nel senso di non ordinario, di imprevisto.
La Banda degli ottoni, i giocolieri, i gruppi di teatro, l'arte di strada sono alcune delle esperienze che caratterizzano questa realta': ecco non si tratta di domande che preesistevano li', non si tratta di soggetti che erano semplicemente alla ricerca di uno spazio per poter praticare questo tipo di cose, si tratta invece di idee, di progetti e di prospettive che sono nate a partire da Torchiera, attraverso un incontro che si e' sviluppato a partire da questo spazio. Paolo Cottino, Cascina Autogestita Torchiera in Milano, comunita' in corso. Incontri con la citta', aprile 2002.

FARE. Agire sul territorio, essere protagonisti del cambiamento
L'avvio di questi interventi autorganizzati in citta', in particolare quelli di piu' lungo periodo, si costruisce su un primo stadio di aggregazione dei soggetti attorno ad azioni rivendicative. Le battaglie per il diritto alla casa condotte dal Comitato Inquilini di Molise Calvairate e dal collettivo di Metropolix, come quelle ecologiche di Italia Nostra e dell'associazione Diciannoverde davano visibilita' ai sentimenti di rivalsa rispetto alle forme tradizionali di intervento pubblico, attraverso manifestazioni e campagne d'opinione. A partire dalla denuncia di maltrattamenti puntualmente localizzati sul territorio si cercava di esprimere cosi' un valore politico delle rivendicazioni molto piu' esteso. Col tempo, la sola azione di sensibilizzazione delle carenze dell'azione istituzionale e' risultata insoddisfacente negli esiti prodotti, finendo per alimentare il desiderio di intraprendere azioni dimostrative volte ad agire direttamente sul campo. Gli attivisti hanno cosi' iniziato a immaginare iniziative in grado di tradurre la propria sensibilita' ai problemi della citta' in progetti che mettessero in tensione, misurandosi concretamente con la realizzazione di opere, le proprie idee, capacita', reti, invertendo concretamente le tendenze di maltrattamento da parte dell'operatore pubblico, colmando il vuoto o recuperando l'incapacita' istituzionali.
Le forme di azione civica volgono ora verso l'interesse a misurarsi personalmente nell'affrontare alcuni problemi della citta', attraverso spinte e strategie fortemente intenzionali, quasi ostinate, rispetto, non tanto al conseguimento di obiettivi specifici e di lunga durata quanto piuttosto, all'apertura di percorsi di trattamento di questioni che appaiono intrattabili.
Le condizioni di forte precarieta' legata alla disponibilita' delle risorse, all'irregolarita' delle situazioni, alla fluidita' delle relazioni informali non smorzano il potenziale di mobilitazione condotto dal desiderio di essere, attraverso le azioni in oggetto, protagonisti di un lento cambiamento.
'Le pratiche sociali insurgent sono il risultato di intenzionalita' collettive positive, progettuali, costruttive: esse trasformano l'antagonismo in protagonismo. Pratiche che stanno su un altro piano, su altri mille piani, indifferenti al mondo tradizionale della lotta politica e delle ideologie. Pratiche 'impolitiche', spesso cattive e bastarde, in qualche misura, e forse proprio per questo le sole efficacemente politiche.' (Paba, 2003).
Questa spinta, che ridefinisce il ruolo della societa' civile giocando l'attenzione sullo spostamento dell'azione da atteggiamenti rivendicativi orientati alla richiesta di un piu' intenso intervento istituzionale a forme di mobilitazione diretta, ha da una parte delle ricadute in termini di scelte sul territorio, di trasformazioni del tessuto urbano, di risposta a problemi intrattabili e dall'altra un impatto diretto sulla strutturazione dei soggetti e delle esperienze.
Sul fronte delle strategie messe in campo aiuta a mettere a punto modelli e modalita' di intervento alternativi a quelli istituzionali, tramite l'apertura di campi di sperimentazione attiva.
Il rilancio alla scala urbana delle strategie sperimentate localmente rafforza il senso politico di questi progetti, legittima le competenze accumulate, trasferisce possibilita' di trattamento altrove.
D'altra parte aiuta a consolidare assetti organizzativi inediti, verso la formazione di 'istituzioni emergenti'. Infatti 'la costruzione di un'istituzione, qualsiasi cosa possa significare, e' comunque un processo che implica la formazione di una struttura, o codice, o pattern regolato di comportamenti che acquista legittimita' e funziona in un contesto sociale specifico, fino a diventare elemento costitutivo della vita sociale. (...) Tale struttura puo' essere, in parte il risultato di un progetto deliberato, in parte l'esito non intenzionale dell'azione umana e dell'interazione sociale. Il piu' delle volte e' congiuntamente l'uno e l'altro, in combinazioni variabili a seconda delle contingenze'. (Lanzara, '97)

APPARTENERE PER FARE. Il ridisegno dei territori, le reti situate
Le reti che si attivano rispetto al trattamento di un problema hanno origine in diversi punti della citta' e trovano una capacita' connettiva e agente su un dato territorio. Questo significa che nelle esperienze guardate di fianco all'abitante del quartiere, al frequentatore della parrocchia, all'attivista locale abbiamo trovato mobilitati sullo stesso tema interessi e soggetti che si legano a un territorio non per una relazione di prossimita' territoriale. Le ragioni e i modi della mobilitazione sono diverse, a significare che nella citta' contemporanea le appartenenze multiple sono generative di altre configurazioni sociali e della costruzione di confini territoriali che si ridefiniscono attraverso dei sensi nuovi di identita'.
'In queste forme di azione collettiva e in questi spazi la nozione di felicita', come pura e semplice soddisfazione di desideri individuali puo' ridiventare ricerca di una felicita' collettiva, sociale e culturale che fa i conti con i dati di realta' che questa felicita' impediscono. In queste deboli forme sociali di resistenza, l'identita' non si afferma nell'essere ma, tramite il sopravvivere dell'azione collettiva, l'identita' si afferma nella relazione.' (Bonomi, A., 1996)
La ricerca di punti di riferimento, di risposte al disagio urbano, di reti di mutuo aiuto, di contesti di mobilitazione politica non avviene sempre per prossimita' fisica, quanto piuttosto per affinita', coincidenza, attivazione di reti amicali, interesse.
'Non si danno territori in comune, l'appartenenza ai quali possa essere considerata univoca; ne' d'altra parte si realizza la condizione limite che 'tutti appartengono dappertutto'. Piuttosto succede che ogni individuo, gruppo, popolazione abbia attivita', interessi, preoccupazioni distribuiti in piu' luoghi. (...) Possiamo percio' dire che in questo modo l'appartenenza viene scelta, e che si tratta di una scelta strategica, in quanto nell'interazione che la costruisce giocano anche fattori non intenzionali. Attraverso tale scelta, l'indeterminatezza della multipresenza/multiappartenenza viene risolta con un atto di assunzione di responsabilita' nei confronti dell'appartenenza che viene decisa (...). Soprattutto perche' e' una scelta di appartenere-per-fare. In questo quadro partecipare non si connota come 'essere fatti partecipare' (altrimenti detto: la partecipazione non rappresenta piu' una tecnica di formazione del consenso, ma una forma della cittadinanza)' (Crosta, 2002).
In questa ricerca e scelta di un campo in cui agire quello che si genera e' la costituzione di 'comunita' di sentimento' e la costruzione di spazi collettivi di riconoscimento e autorappresentazione, in ambienti urbani sottoposti invece a tensioni omologanti. La costruzione di queste reti nasce con un legame forte con il territorio in cui si agisce. Se la rete nasce come concetto despazializzato, in questo caso allude invece a legami che si producono localmente e stabiliscono relazioni di prossimita', fuori dalla prossimita' fisica, in termini di risorse, di culture, di strutture interorganizzative.
Termini come quotidianita', rapporto faccia a faccia, esperienza dei luoghi prendono nuove sfumature, che rafforzano l'idea di ambito e risorsa locale, ma in direzioni meno consuete. 'Se alcune di queste caratteristiche della vita locale fossero distribuite in maniera differente nell'organizzazione sociale dello spazio, tanto da rendere per esempio meno confinata la vita quotidiana, oppure se quelle esperienze 'reali' con ampio coinvolgimento sensoriale fossero distribuite e vissute in piu' luoghi, che cosi' acquisterebbero maggiormente le sembianze di 'casa', allora il luogo unico ed esclusivo apparirebbe come esito assai meno privilegiato del processo culturale'. (Hannerz, 2001)
Il tema dell'abitare un luogo, allora, acquista un senso nuovo, non solo legato a quello originario, quanto piuttosto al senso di un 'legame situato' per cui ci si prende cura di un territorio e mediante delle azioni lo si risignifica e ridisegna.
Si generano cosi' piu' livelli 'd'uso' e di permeabilita' dei processi che come cerchi dal centro e raggio variabile ridisegnano la citta' a partire da nuove coordinate, nuove reti e nuovi modi di abitare.

SOSTENERE CHI FA. Domanda sociale e ruolo dell'esperto
Le dinamiche dell'innovazione che abbiamo cercato tentativamente di descrivere pongono nuove domande e sollecitano al tempo stesso una ridefinizione del ruolo dell'esperto nei processi di rigenerazione urbana e la costruzione di diversi approcci di ricerca.
La relazione fra domanda sociale e ruolo dell'esperto si e' andata sostanzialmente modificando, nel corso degli ultimi decenni, seguendo quelli che potremmo definire i quattro principali cicli della partecipazione sociale ai processi e alle politiche di trasformazione urbana.
Il primo ciclo e' quello del 'conflitto sociale', e puo' essere fatto corrispondere in Italia al decennio degli anni settanta. Forme di partecipazione fortemente caratterizzate (Boffi, e al., 1972). Nascono dal basso e corrispondono all'uscita nella citta', e sui temi della citta', dei movimenti che fino ad allora erano rimasti dentro alle fabbriche. Chiaramente connotati sul piano ideologico, con una composizione sociale sostanzialmente omogenea e che ridefinisce il proletariato su base urbana, questi movimenti giocano sul conflitto nei confronti delle istituzioni e rivendicano modalita' alternative di produzione della citta'. Esprimono quindi una domanda 'di fare' (servizi, case per i meno abbienti, ecc.), chiedono alle istituzioni di fornire una risposta adeguata, e contano su referenti nell'arena politico amministrativa chiaramente identificabili (i partiti della sinistra, che proprio in questo decennio prima stanno all'opposizione e poi vanno al governo).
Verso l'esperto la posizione e' ambigua. L'atteggiamento e' in primo luogo quello del rifiuto della Big Science e di chi se ne fa portatore, mettendo in crisi la dipendenza sociale nei confronti della competenza tecnica che aveva caratterizzato in tutto il mondo occidentale il decennio precedente (AA.VV, 1963), e rivendicando la rilevanza della conoscenza ordinaria come fonte per il progetto urbano (Goodman, 1972). Al tempo stesso questi sono gli anni in cui gli esperti sono costretti ad una scelta di campo, e chi si orienta verso i movimenti definisce una nuova figura, quella dell'advocacy planner, che si mette al servizio della societa', non senza prima aver riconosciuto i peccati della disciplina ed assumendo quindi un ruolo chiaramente subalterno (Crosta, 1973).
E' probabilmente inutile soffermarsi sulle ragioni della crisi di questo ciclo, legate a processi politici e sociali che stanno in un campo molto piu' ampio di quello qui considerato. La sua chiusura e' accompagnata comunque, in un ribaltamento che avviene nel giro di pochi anni, dalla nascita di un secondo ciclo, che presenta caratteri sostanzialmente diversi.
Il secondo ciclo della partecipazione e' quello della cosiddetta 'sindrome NIMBY (Not In My Back Yard)'. Si tratta di movimenti urbani che nascono a partire dagli anni ottanta, in modo pervasivo nelle democrazie occidentali (e Milano costituisce un caso significativo), come reazione alla messa a punto di grandi progetti di trasformazione urbana da parte delle istituzioni. Scarsamente connotati ideologicamente, questi movimenti sono del tutto dipendenti dai progetti che li originano: nascono a muoiono insieme alla minaccia. Sono esplicitamente 'a base territoriale': la loro composizione attraversa la societa' locale. Rifiutano una qualsiasi logica progettuale. La domanda e' inequivocabilmente di 'non fare', e viene rivolta a chiunque, nell'arena politica, abbia voglia di sostenerla per aumentare la propria riconoscibilita' in una fase in cui anche pochi voti possono ribaltare coalizioni e sistemi di alleanze (Bobbio, 1996). Sono molto efficaci nella loro azione, questi movimenti, ed i risultati sono immediatamente visibili. Questo e' il periodo in cui, alla continua proposizione di grandi progetti che dovrebbero rilanciare Milano in Europa, e che in realta' sono spesso incapaci di affrontare i temi del governo della transizione verso nuove forme di citta', corrisponde una performance decisionale quasi nulla accompagnata da uno stato di crisi politica permanente (Fareri, 1991). Tende ad affermarsi, in questo terzo ciclo, un uso strumentale della conoscenza scientifica e dell'esperto. Entrambi vengono visti come una risorsa di parte, da giocare per vincere nel conflitto, sia da parte dei movimenti, sia da parte dei promotori dei progetti. Atteggiamento che porta al tempo stesso ad una grande produzione di studi, rapporti e contributi scientifici che tendono ad annullarsi l'uno contro l'altro, tutti in ogni caso falsificabili.
Il terzo ciclo della partecipazione nasce almeno in parte come contromisura, come tentativo da parte degli attori istituzionali di affrontare i problemi di decisionalita' e di efficacia generati dal periodo precedente, a partire dall'importante riconoscimento dell'inadeguatezza di ricette che vedono nella riduzione della complessita' la condizione per migliorare il governo delle trasformazioni urbane. Il coinvolgimento 'degli abitanti' diventa quindi condizione per internalizzare nelle politiche obiettivi e conoscenze di attori che erano ieri stati scambiati per 'deboli' e si riconoscono oggi su entrambi i versanti (della capacita' di raggiungere i propri obiettivi, della significativita' delle conoscenze) come 'forti', per generare progetti migliori e al tempo stesso 'condivisi', enfatizzando la rilevanza del consenso come importante condizione per aumentare la capacita' di decidere.
In questo nuovo ciclo la partecipazione viene quindi promossa dall'alto verso la societa', intesa come una modalita' di progettazione e di governo (da parte delle istituzioni) piu' che come uno strumento per giocare il conflitto (da parte dei movimenti). E la partecipazione viene offerta ad una societa' quasi sempre, e giustamente, sospettosa e per certi versi recalcitrante. Non basta quindi aprire le porte della decisione pubblica. Mentre i movimenti dal basso nascono per definizione dagli ambienti sensibili della comunita' locale, la partecipazione istituzionalizzata i soggetti sensibili deve andarli a cercare, e convincerli a partecipare. La necessita' di garantire, attraverso un sistema di regole, la fairness del gioco; l'obiettivo di trattare le conflittualita' costruendo posizioni condivise fra i partecipanti; l'orientamento progettuale attribuito all'interazione sociale: tutti questi elementi contribuiscono ad avviare un processo di sistematizzazione metodologica della partecipazione che al tempo stesso pone nuove domande all'esperto, ne ridefinisce il ruolo ed avvia un percorso di costruzione di nuove figure professionali (Fareri, 2000). Si sviluppa la figura dell'esperto come facilitatore, il cui compito e' di gestire il percorso partecipativo garantendone la correttezza e l'efficacia. Viene enfatizzato un ruolo di mediazione che tende ad attribuire all'esperto competenze di gestione del processo piu' che di proposizione di soluzioni: la necessita' di equidistanza fra le parti limita la possibilita' di esprimere posizione sui contenuti della decisione. La capacita' dell'esperto e' quella di mobilitare le conoscenze espresse dalla societa' e di orientarle verso la costruzione di posizioni condivise.
Se il primo ciclo appare definitivamente chiuso, lo scenario attuale e' caratterizzato dalla permanenza in varie forme dei due successivi. Ritroviamo forme di opposizione locale chiaramente Nimby oriented, mentre la partecipazione istituzionalizzata sta consolidando il suo mercato, sia sul versante politico sia su quello professionale.
Al tempo stesso, le forme innovative che abbiamo ritrovato e che qui presentiamo sembrano caratterizzarsi come un ulteriore, quarto ciclo, che si affianca ai precedenti e che presenta specificita' che lo fanno anch'esso diverso.
Torniamo ad una mobilitazione dal basso, ideologicamente connotata ma nell'ambito di una idea di 'politicita'' che e' del tutto diversa da quella dei movimenti degli anni settanta. Come allora, e diversamente dai cicli seguenti, queste forme di mobilitazione sono capaci di esprimere una forte progettualita', ma non chiedono ad altri (alle istituzioni) di fornire una risposta: fanno da sole. E mentre fanno denunciano l'assenza delle istituzioni ed a volte si pongono in una prospettiva antagonista. Non rifiutano il dominio della competenza tecnica, spesso esse stesse sono in grado di mobilitarla in varie forme; piuttosto, sanno far interagire positivamente - nel progetto e nelle pratiche - esperienza, competenza, relazioni. Esprimono una domanda nei confronti dell'esperto di fronte alla quale le figure dell'advocate e del facilitatore risultano comunque inadeguate. Sollecitano quindi una ulteriore ridefinizione del suo ruolo.
Una provvisoria definizione di questa nuova figura, ancora tutta da costruire sia sul piano delle funzioni sia sul piano delle competenze, e' quella di 'policy activist', in cui policy si contrappone a politics e activist segnala la profonda differenza rispetto al mediatore.
All'esperto si chiede di assumere un impegno diretto non tanto nella gestione di un processo di interazione, ma nella promozione di una ipotesi di trasformazione. Si chiede di strutturare un processo intervenendo sui contenuti, costruendo cornici di riferimento, interpretando i territori, innescando attraverso la proposizione di scenari forme di progettazione fondate sull'interazione sociale, traducendo pratiche informali nel linguaggio delle politiche, sostenendo il consolidamento delle dimensioni di management, avvicinando i promotori a risorse aggiuntive, favorendo la diffusione e la trasferibilita' delle esperienze, rafforzando legami e reti dal locale verso l'urbano e piu' in la'.
Una ridefinizione questa che trova origine anche a partire dal bilancio che forse oggi possiamo cominciare a trarre riguardo all'efficacia della partecipazione istituzionalizzata. Un modello che ha visto svilupparsi esperienze significative, alcune particolarmente innovative, che in molti casi e' riuscito a generare progetti e proposte di grande qualita', e soprattutto a riavvicinare la societa' ai problemi della citta' ed a sviluppare nuove forme di coinvolgimento ed azione. Al tempo stesso pero' evidenziando alcuni limiti, in particolare la difficolta' a tradurre le idee in trasformazioni reali. Un limite che sembra poter essere affrontato solo chiedendo all'esperto facilitatore di uscire dalla sua condizione di terzieta', di esplicitare la sua responsabilita' nei confronti dei prodotti che ha contribuito a costruire, di sostenerne e promuoverne l'avanzamento.

L'articolo e' frutto di un lavoro comune, i paragrafi possono comunque essere cosi' attribuiti: a cura di Francesca Cognetti, par. 2, 3, 4, 5; a cura di Paolo Fareri, par. 1,6.
Alcune delle riflessioni sopra riportate prendono avvio dal lavoro di ricerca: Forme di governance tra istituzioni e societa' nel caso milanese, coordinato da prof. A.Balducci, con i contributi di C.Calvaresi, F.Cognetti, P. Cottino, P. Fareri, G.Rabaiotti, Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano, 1999 - 2001.


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Intervento all'Isola, Milano