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Juliet Anno Numero 100 novembre 2000



Jai Hart/Aaron Zimmerman

Flavio Brognoli



Art magazine
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School of Visual Arts New York - Keith Haring: The SVA Years (1978-1980), Keith Haring in studio

Jai Hart

MFA Special Projects III, Jai Hart, Untitled, 1999

La School of Visual Arts, SVA è una delle Scuole d'Arte più prestigiose di New York, focolaio, da anni, di alcuni dei talenti artistici americani attualmente maggiormente riconosciuti (tra i quali Sara Sze, presente all'ultima Biennale di Venezia e all'attuale Biennale del Whitney Museum di New York; la pittrice Inka Essenigh, una delle più recenti reclute di Jeffrey Deitch; l'italiano Luca Buvoli, rappresentato da John Weber di New York). Ma altri sono ancora i pittori che, pur vivendo a New York, e appartenendo alla medesima generazione, provengono da background culturali diversi, e che qui sono stati accostati proprio perché sono riferibili al ricchissimo panorama che offre la Scuola. Aaron Zimmerman, classe 1975, nasce in Virginia e si trasferisce a New York nel 1997, dove tutt'ora vive e lavora. Le sue tele, dai colori sgargianti e dalla stesura corposa, nascono, come dice l'artista stesso, da una "Premonizione" avuta nel 1996: Cable TV will save my life (La televisione privata mi salverà la vita). E quasi un anno dopo, guardando un programma di cartoni animati, l'artista riscopriva vecchi amici con i quali era cresciuto durante la sua infanzia: gli Smurfs, He-Man, i Trasformers, e innumerevoli altri, prodotti che ormai fanno parte integrante della sub-cultura della società americana, e non solo di quella. Allo sguardo di un giovane adulto, però, personaggi così familiari un tempo assumono ora uno spessore diverso, diventano forme e colori pronte a essere filtrate e interpretate: dalla totalità dell'immagine vengono estrapolati dei particolari che, elaborati in Photoshop al computer, vengono poi riportati sulla tela. Campiture piatte e pennellate spesse, potenti contorni che delimitano i dettagli che compongono la tela assumono alle volte una connotazione quasi astratta. Ma ecco, a un più attento esame, si può distinguere un ginocchio o, forse, una lampadina, o uno scorcio di una vorace dentatura da lupo nella quale scintillano gli affilati a candidi canini. Jai Hart, nasce, invece, nel 1969, nel continente asiatico, a Seoul. All'età di due anni viene trovata a vagabondare sperduta per le strade della capitale coreana. Portata in un orfanotrofio, nel 1972 è adottata da una famiglia americana che la porta negli Stati Uniti dove inizia la sua nuova vita in una piccola cittadina dell'Idaho. Dopo aver viaggiato molto sia negli Stati Uniti sia all'estero con la famiglia adottiva, Jai si trasferisce in pianta stabile a New York nel 1998, anno nel quale si iscrive alla School of Visual Arts. Allora, mentre Zimmerman gioca con colori forti e demarcazioni rigorose, i lavori di Jai Hart si perdono in sfumature delicate dalle demarcazioni quasi impercettibili. I quadri sono dipinti su materiali translucidi e trasparenti, quali sete e chiffon. Dopo avere avvolto e fissato la stoffa sul telaio, l'artista posiziona il quadro su un piano orizzontale e vi fa colare grandi quantità di acrilico, pemettendo al colore di evadere dal telaio, invadendo così il piano di appoggio. Una volta asciugato, l'acrilico forma uno spesso strato dall'aspetto lucido e dalla consistenza gommosa che diventa macchia di colore puro, indipendente, che non necessita di supporto vivendo di un'autonomia propria. A questo punto inizia la seconda fase della lavorazione. Il resto del quadro viene dipinto con colori acrilici fortemente diluiti, tali da sembrare acquerelli. Le tonalità sono ora sfumate e delicate, nuvole di colori entro le quali fluttuano forme e figure riconoscibili: ora sono dei nasi, ora personaggi in bicicletta o sciatori immersi in una distesa di candida neve. Sovente il quadro viene dipinto sulla superficie frontale così come sul retro e sul muro sul quale è appeso, permettendo all'opera di venire letta a più livelli. Come dice l'artista, l'obiettivo è quello di creare un senso di profondità che supera la bidimensionalità dell'opera. L'affascinante combinazione di pittura "libera" lasciata all'intervento del caso, e l'intervento volontario da parte dell'artista trasformano queste opere in strutture aperte, leggibili nella loro più totale integrità: la tela non nasconde ma rivela, diventa una porta aperta su territori vergini ancora tutti da esplorare.
Gli estremi di questa della pittura, ora presente sulla scena newyorkese, rivela ancora una volta l'influenza, ancora forte ed evidente della Pop-Art, unitamente alla volontà di superarla con una pittura dai colori delicati e dalle forme sfumate, emblematicamente rappresentata dal colorismo russo del secolo scorso.