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Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 17 Numero 182 ottobre 2002



Jean Fautrier alla Fondazione Magnani Rocca

Renato Barilli

Embrioni di una vita senza forme



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Jean Fautrier, Nudo (1957)

Jean Fautrier, Gettata di fiori (1929)

Jean Fautrier, Frutto aperto (1946)

Jean Fautrier (1898-1964) può essere detto l'uno dei due grandi cavalli di razza che l'arte francese ha avuto nella seconda metà del secolo scorso. L'altro è stato il suo quasi coetaneo Jean Dubuffet (1901-1985). Ha contribuito a unirli una strana circostanza, che nel secondo ha toccato un culmine, inducendolo ad astenersi del tutto dal dipingere per l'intero periodo "tra le due guerre". Non così Fautrier, che non ha mai riunciato al mestiere di pittore, ma lo ha svolto però in modi del tutto controcorrente, molto simili a una rinuncia, come se si fosse trattato di un artista convenzionale, dedito a un figurativismo di basso profilo. Lo dimostrano i temi assunti, tra i più tipici e normali, per un pittore: la figura umana, magari con predilezione per il nudo femminile, la natura morta, frutti e fiori, qualche immagine animale. Il tutto redatto con una curiosa caratteristica cromatica, che stava poi a ben vedere in una specie di rinuncia al colorismo, come se l'intero universo dell'artista venisse concepito in bianco e nero, o precisamente in toni bigi, bituminosi, in ogni caso smorti e spenti. Si è parlato infatti di un suo periodo "nero". In realtà, lungo quella sua fase egli, pur maneggiando il pennello, sembrava volerlo sostituire con le mani, con le dita, procedendo a modellare direttamente le forme, quasi in bassorilievo. Vi si poteva cogliere però un tratto già decisamente significativo: sembrava cioè che l'artista praticasse un foro, un pertugio, in quelle sagome altrimenti così convenzionali, per immettere al loro interno un'energia selvaggia e primordiale. Fautrier insomma si comportava come un imbalsamatore un po' rozzo nella sua procedura, che imbottisce in eccesso le spoglie affidategli per il trattamento, col che si hanno anche due effetti quasi di segno opposto: gli aspetti esteriori delle figure risultano statici, inerti, ma al loro interno agisce una forza che tende a gonfiarli, a renderli informi.

IL GRANDE IMPASTATORE

Quando scoppia la seconda guerra mondiale, l'artista sente che è ormai giunto il tempo di imprimere a quel suo processo un salto di qualità. Circola in proposito un bell'aneddoto, che forse non è possibile confermare. Si dice cioè che negli anni dell'occupazione tedesca della Francia egli se ne stesse rintanato in una villa del Midi, dietro un muro contro la cui parte esterna venivano fucilati degli ostaggi dalle truppe tedesche di occupazione; e così i loro corpi abbandonati erano destinati a entrare in una fase di dissoluzione, a rientrare nella terra. Da qui gli sarebbe venuta l'intuizione di affrettare la sua marcia indietro di risalita verso gli stati primordiali della vita, quasi rubando il mestiere a Dio, al grande impastatore che con un po' di fango ha proceduto a plasmare tutte le creature, umane e animali, organiche e inorganiche. Fautrier sente di doversi rifare a quell'atto originario, ponendo sulla superficie dell'opera un grumo di "pasta", così densa da non poter essere manovrata dal pennello, ma piuttosto da una spatola. Né del resto quella superficie da dipingere può più essere collocata in verticale, magari su un cavalletto, perché un atto del genere allude al fenomeno ottico della "finestra aperta" che si affaccia, olimpica e indifferente, sullo spettacolo esteriore. Nel suo caso invece non si trattava tanto di vedere, con sguardo limpido e oggettivo, quanto piuttosto di fare, di modellare, come sul tavolo di un pasticcere o sul trespolo di un vasaio. Con la conseguenza che anche il verso secondo cui intervenire diventava indifferente, ovvero il grande pastaio poteva girare attorno al suo grumo centrale, affrontarlo da ogni punto, e invitare anche noi spettatori a fare altrettanto.
Nasce insomma il culto della pasta informe, anzi, come avrebbe specificato in quello stesso frangente il collega-rivale Dubuffet, la "haute pâte". Però, con una divaricazione di vie, perché Dubuffet pratica la dissociazione tra il contenuto materico delle sue immagini e il tracciato grafico, per cui il primo cresce a dismisura, facendosi "bruto", fino a simulare le asprezze del muro o del catrame da strada, entro cui un graffito tremulo e incerto tenta faticosamente di scavarsi una strada. Invece Fautrier crede nell'organicità della vita, e dunque quel suo impasto ha la tenerezza dei corpi afferrati allo stato nascente, anche se in lui si dà una tremenda ambiguità tra ciò che nasce e ciò che muore, come ci narra l'aneddoto degli ostaggi fucilati di là dal muro, e così in quella massa molliccia e bianchiccia si può intravedere anche il momento estremo di un processo di decomposizione.

LE MASSE E I CONTORNI

Vediamo ora che cosa avviene dell'altra componente dell'atto figurativo, del disegno, dell'indicazione specifica dell'oggetto cui l'artista intende riferirsi. Nella fase "scura" le sembianze naturalistiche, fatte e definite in partenza, venivano però congelate e in sostanza negate, o trattate proprio come spoglie, come corpi morti. Ora il processo di consunzione è giunto all'estremo, e dunque le sagome dei corpi sono davvero come degli otri vuoti, dei perimetri inerti. Forse, col tempo, con processi lenti di crescita, la massa primordiale riuscirà a riempire quei contorni esili, a dare loro una consistenza reale e tangibile. Sta di fatto che al momento le due tappe risultano separate e lontane: da un lato la consistenza immanente, incombente di quella materia viva, dall'altra le mosse lente, proprio come i ghiacciai che erano stati tra le fonti di ispirazione del "primo" Fautrier, o come la pasta che sta lievitando in una teglia (o il cadavere che passo passo rientra nella terra). Ma è pur lecito, intanto, precipitarsi in avanti, e abbozzare una stazione d'arrivo: se gli ansiti della pasta prenderanno via via più forza, forse riusciranno a riempire quei profili grafici, tracciati in punta di pennello. E' come se il grande creatore dell'universo ponesse davanti a sé i modelli degli individui che si propone costituire, tanto per non sbagliare la mira.
E proprio come il Creatore, anche il nostro artista intende procedere in modo completo, anche se la prassi seguita si rivela particolarmente adatta al corpo umano: le teste degli ostaggi, i corpi di donna, perché più morbidi di quelli maschili, e perché annunciati da quelle protuberanze ancor più rotondeggianti che sono i seni. Ma, assicurata una preminenza al soggetto umano, nulla vieta di ritrovare la piacevole molteplicità tematica del primo periodo, e così anche i frutti, i vegetali, gli alberi sono degni di un momento di attenzione, anche loro potranno venire creati secondo il medesimo procedimento. E infine, perché non misurarsi perfino con gli oggetti inorganici che escono dalle nostre fabbriche, affidati ai duri metalli? Basterà capovolgere la presunzione che aveva sorretto l'ideologia del "movimento moderno", che cioè la macchina fosse lo stampo sovrano destinato a rimodellare a propria immagine tutte le presenze su questa terra. Ora, nell'epoca dell'Informale, sarà invece una massa iniziale superorganica ad affermare il suo primato, e anche le superfici rigide degli oggetti ne dovranno risultare.

CAMPIONI DI INFORMALE

In questa occasione si poteva puntare a offrire una vasta retrospettiva dell'opera di Fautrier, analizzandola bene nelle sue molte varianti interne. Ma si è preferito tenerla entro una casistica essenziale e concentrata, di non più di trenta dipinti, per dotarla piuttosto di una scorta d'onore costituita da una decina di altri artisti caratteristici, come lui, degli anni di gloria dell'Informale in Europa. E dunque, ecco in primo luogo una campionatura (non più di tre opere, in questo come negli altri casi) dell'altro cavallo di razza, Jean Dubuffet. Poi, alcuni esempi degli altri due "naturalizzati" francesi, anche se di diverse origini: il russo Nicolas De Staël, già fatto oggetto di un'ampia retrospettiva alla fondazione Magnani Rocca, e il tedesco Wols. De Staël, a dire il vero, non è così "genetico" quanto Fautrier, interviene quando la creazione è già avvenuta, però la sa ridurre molto bene a strati densi e vischiosi, capaci di riassorbire in sé i tratti esteriori delle figure; quanto a Wols, se ama talvolta definire le proprie immagini col ricorso a un grafismo sciolto non manca mai, però, di riportarle a un nucleo, a una cellula iniziale, che oltretutto viene immersa a navigare in un liquido amniotico.
Pierre Soulages afferra e manovra la stessa spatola che è al centro delle operazioni di Fautrier, anche se preferisce distendere con essa una pasta ferma a un'eterna fase "scura", di fango primordiale.
C'è poi il miglior informale spagnolo, Antoni Tàpies, la cui carriera è da vedere tutta come un giocare a rimpiattino: prendere le presenze oggettuali, affondarle nella melma di sabbie mobili inghiottenti, capaci però di restituire talvolta le prede afferrate, di riportarle a galla, ma incenerite, ridotte a una consistenza silicea.
E c'è poi la squadra italiana, aperta da un quasi perfetto coetaneo di Fautrier, Lucio Fontana, che amava davvero compiere il gesto del vasaio, impastare certe sfere enormi e informi, da lui dette "nature", molto simili a degli sfatti corpi di dame, mai completamente rinchiuse in un perimetro esterno, il che sarebbe stato mortuario. Infatti Fontana non manca mai di bucare o di lacerare quegli involucri per insufflare al loro interno la vita, o per farne uscire l'energia che contengono.
Leoncillo quella pasta primaria, da lui ritrovata nella ceramica, l'ha sempre manipolata con le mani, aggiungendovi l'ardore del cromatismo più aggressivo.
Ennio Morlotti e Mattia Moreni si sono normalmente affidati al pennello, ma facendo in modo che esso servisse a elaborare in ogni caso uno spesso strato di "pasta" pittorica, animato da moti alterni di concentrazione, di raccoglimento su di sé, o di esplosione, di libera dilatazione nello spazio.
E infine Alberto Burri, chino anche lui su un banco ideale, a stendere brani di tessuto, larghi tratti di pelli, fossero queste le tele da sacco o le lamine leggere di metallo brunito o i fogli delle plastiche sintetiche, ma pronte a sopportare le sevizie delle bruciature e a provare, per quel contatto, reazioni assai simili a quelle provate dalle creature organiche.

Jean Fautrier nasce a Parigi nel 1898, in una famiglia facoltosa, ma il padre muore presto e la madre lo porta a vivere con sé a Londra. Allo scoppio della Grande guerra presta servizio nell'esercito francese, subendo un attacco coi gas che ha infausti effetti sui suoi polmoni, per cui cercherà sempre di vivere in ambienti sani, spesso in montagna, il che lo spingerà a lavorare, talora, come maestro di sci. Intanto, segue un curriculum in apparenza conformista, caratterizzato da temi figurativi tradizionali, risolti perlopiù con una tavolozza scura, svariante dal marrone (periodo "chocolat") al nero, che talvolta si stempera in tonalità grigie, o blu. Non gli mancano incontri ad alto livello, tra cui il collezionista Paul Guillaume e lo scrittore André Malraux, che nel 1928 gli commissiona le tavole per un Inferno dantesco. Alla fine degli anni Venti si può considerare un artista di successo, interrotto però dalla crisi economica del 1929. Fautrier ne approfitta per rimeditare temi e modalità della propria arte, orientandosi fra l'altro per l'abbandono della tela a favore di una carta spessa, quasi "assorbente". Scatta intanto anche l'amicizia con Jean Paulhan, e si avvicinano gli anni della seconda guerra mondiale che lo vedono alternare soggiorni a Parigi e altri in stazioni invernali delle Alpi. La sua pittura si "asciuga", e nasce la tipica dialettica tra un impasto centrale, sulle tinte chiare, e uno sfondo leggero, percorso da grafismi appena accennati. Tutto ciò dà luogo finalmente agli "Ostaggi", che René Drouin espone a Parigi, al termine della guerra.
Il nostro paese ha molti titoli di merito verso di lui: due galleristi, Guido Le Noci a Milano, Bruno Sargentini a Roma, lo introdussero nel nostro collezionismo, il critico maggiore di quegli anni, Giulio Carlo Argan, ne sposò la causa insistendo per fargli vincere il primo premio alla Biennale veneziana del 1960, ex aequo con Hans Harung. Palma Bucarelli nello stesso anno pubblicò l'unico catalogo tuttora esistente dell'opera dell'artista, elencandovi quasi settecento titoli. Un critico intuitivo e battagliero come Francesco Arcangeli fece di Fautrier una bandiera paragonandolo a Morandi. E anche uno dei nostri massimi poeti, Giuseppe Ungaretti, gli fu molto vicino.
R. B.

LA MOSTRA

Alla fondazione Magnani-Rocca di Corte di Mamiano a Traversetolo, presso Parma, è aperta fino al primo dicembre la mostra Jean Fautrier e l'Informale in Europa (telefono 0521-848327/848148; www.magnanirocca.it; apertura 10-18, chiuso il lunedì). Sono esposte una trentina di opere di Fautrier e altrettante dei protagonisti dell'Informale europeo: Fontana, Burri, Leoncillo, Moreni, Morlotti, Dubuffet, De Staël, Wols, Soulages, Tàpies. Le opere in mostra di Fautrier ricostruiscono un percorso che dal figurativo insistito dei decenni Venti-Trenta approda alla dissoluzione-ricostruzione di una forma-informe negli anni attorno alla seconda guerra mondiale, per arrivare a dipinti dei primi anni Sessanta. Il catalogo è pubblicato da Mazzotta.