Antonio Franchini è nato a Napoli nel 1958. Ha pubblicato Camerati. Quattro novelle sul diventare grandi (Leonardo 1991, Premio Massarosa, Premio Bagutta opera prima 1992), Quando scriviamo da giovani (Sottotraccia 1996), Quando vi ucciderete, maestro? (Marsilio 1996, Premio Bergamo, Premio Chiavari, finalista Premio Viareggio) e Acqua, sudore, ghiaccio (Marsilio 1998). Ha curato le antologie Italiana e Racconti erotici dell'800. Collabora con numerose riviste. Vive e lavora a Milano.


 

ANTONIO FRANCHINI
UN EROE DI UN ALTRO TEMPO


racconto su un personaggio
18 fermate

Gli anni Ottanta un po' dovunque, ma soprattutto in Italia e soprattutto a Milano, passarono come un periodo di benessere e superficialità, ma io lo seppi soltanto dopo, quando li vidi commemorati sui giornali, perché, come sempre succede in questi casi, non me ne accorsi mentre li vivevo.
Quell'effimero decennio non mi sfiorò con la sua ala fatua, perché io allora frequentavo Dario Lavezzi, e il suo spirito abissale mi preservava dal clima leggero del tempo.
Sentivo parlare di lui da anni. Il mio collega d'ufficio Nicola Vitali, quand'era stressato, diceva: "Adesso basta, pianto tutto, lascio a casa la famiglia, mi prendo una settimana di ferie e me ne vado a fare un giro in bicicletta sull'Appennino col Lavezzi...".
"Vengo anch'io!", dicevo le prime volte, ma in seguito mi accorsi che per lui quel desiderio era soprattutto un'ipotesi, una minaccia, un sogno, e non l'avrebbe mai realizzato.
Poi un giorno lo vidi incontrare e abbracciare una bellissima donna e quando gli chiesi chi fosse, rispose che era stata la fidanzata di un suo carissimo amico, un certo Dario Lavezzi.
Quando aveva l'impressione, come spesso succede a coloro che hanno appena smesso di essere o di sentirsi giovani, che la generazione dei ventenni fosse di un ributtante cinismo e priva di ogni ideale, ricordava che per loro non era stato così e come lui, ai suoi tempi, si fosse battuto per una fede politica, mentre il suo amico Dario Lavezzi a sedici anni avesse giù letto, ma letto veramente, Il Capitale e girasse con la pistola in tasca perché temeva agguati degli avversari politici sulla via di casa.
Quando gli sembrava che l'ultima generazione fosse di una vergognosa ignoranza, raccontava che il suo amico Dario Lavezzi a quattordici anni aveva cominciato la sua prima analisi, a quindici letto tutto Freud e a sedici giù meditava su Pascal e Montaigne.
Poggiai sul tavolo il libro che stavo leggendo e andai ad aprire la porta. Dario Lavezzi arrivò a casa mia un pomeriggio d'estate, senza nessun preavviso e accompagnato da Nicola Vitali, che aveva portato la famiglia al mare e si godeva il suo periodo di libere uscite.
"Che cosa stai leggendo?", mi chiese. Era un giallo di Dashiell Hammett. Dario Lavezzi sospirò con un'espressione grave: "Nei romanzi di Dashiell Hammett", disse, "le pistole abbaiano', in quelli di Chandler invece eruttano'". Con sorpresa, ammisi che non ci avevo mai fatto caso e però era vero.
Fu lo spunto per cui Lavezzi attaccò a parlare di armi da fuoco, diffondendosi con competenza sulle caratteristiche dei revolver americani degli anni Trenta. Lo ascoltai devo dire più con sorpresa che con interesse, ma Lavezzi conosceva alla perfezione sia l'opera di Chandler che quella di Hammett e cominciò a chiedermi pareri che accoglieva con gravi silenzi. Notai che Vitali, il quale forse, non avendone a disposizione tante, aveva sperato in una serata più allegra, accoglieva i silenzi e i monologhi balistici di Lavezzi con crescente fastidio, ma non ci fu verso di fargli cambiare argomento.

Le amicizie che furono grandi nel passato di solito non resistono alle prove di un secondo tempo e forse fu per questo che, la volta successiva, Lavezzi me lo vidi da solo.
Nell'ingresso di un appartamento desolato e buio avevo visto parcheggiata una bicicletta da corsa senza sellino.
"...così la vidi torreggiare su di me mentre mi stavo appena riscuotendo dalla narcosi. Aveva il camice verde e la maschera e lì copricapo verde dei chirurghi, i capelli biondi. Allora non avevo la barba canuta che adesso vedi, tutti i miei peli erano neri, prima di conoscere quella donna. Sono incanutito dopo".
"Mi dispiace...".
"Non so perché ti dico queste cose, la seconda volta che ci vediamo. Avrei potuto cominciare una conversazione banale, su cose indifferenti...", mi disse Lavezzi, "ma, non so perché, ti ho sentito amico".
Dal soffitto della cucina di casa Lavezzi pendeva una costruzione fatta di listelli di metallo, inconfondibile agli occhi miei e a quelli del miei coetanei: i pezzi delle costruzioni Meccano, che anche a me furono regalati, a un certo punto della mia infanzia, e adesso me li ricordo solo perché non fui mai capace di costruirci niente. Occorreva uno spirito d'astrazione ingegneristica che proprio non possedevo. Me lo ricordavo ancora, quel foglio d'istruzioni per me incomprensibili...
"Che cos'è questo?", chiesi a Lavezzi, che, come facevano tutti, avevo preso a chiamare per cognome.
"Questo è il dirigibile Hindenburg", rispose lui alzando lo sguardo e riportandolo malinconicamente a terra. "Ma io lo chiamo il volo della giovinezza'".
"Mi dispiace per quella donna, Lavezzi".
Lui fece un gesto sprezzante: "Piuttosto, se tu avessi... se tu conoscessi, ecco, qualche donna simpatica, io penso che potremmo organizzare qualche cosa insieme, che so, una cena, io sono un ottimo cuoco...".

Con la prima ragazza fu un disastro. Avevo preso Lavezzi alla lettera e mi ero presentato con Vittoria, che era un'appassionata di cucina.
Non andarono d'accordo su niente, su nessuna cottura, su nessuna preparazione, su nessun utensile. Vittoria cucinava come di solito cucinano le donne, cioè bene, ma più per istinto o per necessità che per applicazione e mania.
Dovetti riconoscere che parlare di mania, per Lavezzi, forse era riduttivo. Cominciò la serata descrivendo, pezzo per pezzo, tutte le pentole della sua batteria, che aveva comprato usata da Gualtiero Marchesi, e le caratteristiche, le stratificazioni che impreziosivano i fondi dei singoli rami, il loro peso e le relative resistenze al fuoco. Poi chiese a Vittoria come preparasse, per esempio, un uovo fritto, e lei aveva appena cominciato a dire che la zittì con indignazione. Dopodiché prese a descrivere il coniglio che avrebbe preparato con una terminologia tecnica da anatomista prima della dissezione di un cadavere. Quando, dopo essersi dilungato su come avrebbe espiantato cuore, polmoni e interiora, attaccò a spiegare in che modo avrebbe inciso il panno del "grasso perineale", per asportarlo senza intaccare la polpa, a noi era giù passata la fame.
Inoltrandoci in quella serata che mi parve lunghissima per i miei vani tentativi di risollevare l'atmosfera e di stanare Vittoria dal mutismo nel quale, come di solito fanno le donne in questi casi, per polemica s'era rinchiusa, il Lavezzi mise sul piatto dello stereo uno dei suoi pezzi favoriti di musica barocca.
Mentre sotto il lume fioco di un lampadario degli anni Cinquanta spolpavamo pezzi di coniglio che sembravano estratti dalle teglie metalliche della morgue, Vic uscì dal silenzio per chiedere che cambiassimo quella musica funebre che le faceva passare il poco appetito che aveva. Lavezzi le fece osservare che in quel famoso pezzo di musica barocca si poteva riscontrare come un'avvisaglia della dodecafonia e, chiesto il silenzio, la invitò ad apprezzare le dissonanze e i clangori di quella battaglia - poiché di battaglia si trattava - che giù non avevano più niente dell'armonia tradizionale.
Quando tutto fu finito, sulle scale, la mia amica Vittoria sibilò: "Non farmelo vedere mai più".
Con Nicoletta non andò meglio. Lei era una ragazza carina e superficiale, di quelle, dovetti scoprire in seguito, che a Lavezzi piacevano molto. Solo che in seguito dovetti scoprire anche che Lavezzi, eccitato nel voler ben figurare, con donne di quel tipo s'incaponiva a insistere sui suoi "pezzi forti". Eravamo in un bar e non ricordo a quale pretesto dovette agganciarsi, ma per fare ciò per cui la natura l'aveva costruito un appiglio prima o poi lo trovava sempre.
"Il 28 settembre del '44, tre torpedini segarono in due l'incrociatore Yokohama e la corazzata Vento dell'Est, alla fonda nella rada di Guadalcanal. L'ammiraglio Inoki, che dirigeva le operazioni sullo scacchiere del Pacifico nordoccidentale, si trovò costretto a richiamare altre due unità di stanza nel Mar del Coralli. Erano... aspetta, erano una la Kodankha, l'altra... e l'altra... no, non me la ricordo, ma per farlo dovette indebolirsi sul fronte meridionale...".
La ragazza disse: "Ma veramente?", guardandosi attorno nella speranza di adocchiare qualcuno che conosceva e l'avrebbe certamente avvistato, perché era una ragazza abituata a uscire spesso la sera e a frequentare locali. Chiunque avrebbe letto quel gesto per ciò che era, un fastidio troppo neghittoso per evolversi in un aperto rifiuto, chiunque ma non il Lavezzi, che lo interpretò come un invito a continuare in uno dei suoi temi favoriti, i dettagli delle manovre americane da Pearl Harbor al Mar dei Coralli.

"Ho avuto fidanzate che abitavano in posti strategici e differenti. Sulla natura dell'amore non ho imparato molto, ma lo stradario cittadino lo conosco bene", disse il Lavezzi in risposta a un complimento che gli facevo a proposito del suo abile districarsi nel dedalo dell'hinterland.
Benché fosse giù da tempo canuto, Lavezzi non aveva più di trentacinque anni quando lo conobbi, e la cosa che più mi colpiva di lui era che ogni suo racconto, ogni storia che lo riguardasse risaliva come minimo a dieci anni prima. Che cosa aveva fatto Lavezzi nell'ultimo decennio? Anzi, perché non gli era capitato era più niente?
Eravamo in macchina dalle parti del Gratosoglio, di notte, in mezzo a strade tutte uguali, ma Lavezzi svoltò sicuro in un controviale, "So benissimo dove siamo", disse imboccando una rotatoria, e mi indicava un mucchio di case, un falansterio luminoso galleggiante nella nebbia come un piroscafo pronto a salpare: "Vedi, in quel condominio abitava una ragazza con cui ebbi una storia... una decina d'anni fa... Peccato che era una lesbica...".
"Una lesbica, Lavezzi?".
"Fu frustrante. Siccome certe cose non le venivano spontanee, diventava meccanica e ripeteva le cose che facevo io".
"Sarebbe?".
"Per esempio, stavamo in macchina e io le mettevo una mano sulla gamba. Allora, prima che con quella mano facessi qualunque cosa, per esempio risalire verso l'alto, come sarebbe stato logico, mi ritrovavo anche la sua mano sul mio ginocchio. Allora cambiavo territorio e le mettevo una mano sul seno nello stesso momento in cui lei toccava il petto a me. Eh no, le dicevo, abbi pazienza, ho mosso prima io! Ma dopo un po' riprendeva tutto daccapo, come se io facessi dei movimenti contro uno specchio invece che su di lei, una cosa stressante".
"Una cosa terribile, Lavezzi".
"Sì, ma non pensiamoci più. Dimmi invece di quel giro di ragazze dell'aeroporto. Sarebbe una buona cosa se lo allargassimo...".
"Sì, mi hanno presentato un loro amico che si chiama Manici, un tipo eccezionale, uno il cui compito, pensa, è scortare i passeggeri in transito da una sala d'attesa all'altra. é una specie di guida di anime, perché poi questo compito lui lo esegue con assoluta astrazione, mentre legge... Cioè cammina e legge un libro, così legge tutto il giorno, di tutto, e ha una cultura vasta e formidabile...".
"Questo?".
"Manici".
"Ecco, quando parlavo di allargare il giro io non mi riferivo ai manici...".

Non che a tutte risultasse odioso. Alcune donne più problematiche o meno convenzionali apprezzavano del Lavezzi l'aforisma amaro e paradossale, le astruse avventure che gli erano capitate, e alcune addirittura sopportavano non proprio con entusiasmo ma con indulgenza la descrizione dell'armamento di una fortezza volante, l'umore dell'ammiraglio Yamamoto la mattina della battaglia di Midway o le sensazioni che lui provava quando la sua Laverda 1000 "scutrettolava" sulle curve delta Valtrebbia. Ma tutte, anche le meglio disposte - che spesso erano le più ingenue - finivano col domandare a me: "Ma perché il Lavezzi, prima mi invita uscire e poi quando io gli dico che non sono da sola, ma c'è tutto il gruppo o ci sei anche tu, mi richiama e mi dice che ha avuto un calo improvviso di pressione o ha avvistato tracce biancastre nelle orine'?".
Fuoricorso a medicina da una dozzina d'anni, una delle occupazioni più assidue di Lavezzi era prescrivere integratori, pillole, sciroppi e medicinali d'ogni genere prima di tutto a se stesso, per coltivare la propria ipocondria, e poi agli altri, a tutti coloro che commettevano l'errore dl toccare il tema malattie in sua presenza. Altrimenti l'opportunità se la procurava da sé, come la sera in cui raggelò un'allegra tavolata approfittando di una pausa della conversazione per annunciare con voce grave: "Pare che abbiano scoperto il sistema per inculare il cancro del pancreas!". Per la sua indole appassionata, Lavezzi interpretava la lotta contro la malattia come una questione personale.
Aveva orari imprevedibili: gli si poteva telefonare alle sei del pomeriggio per scoprire di averlo interrotto nel mezzo del sonno o mentre si stava preparando la cena o quando aveva appena finito il pranzo.
Ma se una ragazza mi diceva questo, che Lavezzi aveva disdetto un appuntamento che, esteso ad altri, gli toglieva da subito ogni speranza di "cucco", io allora lo difendevo, andavo cercando in mezzo alle sue stranezze la peculiarità che stornasse da lui un sospetto tanto infamante, quello di essere un uomo come tanti, come tutti noi, e non dovevo neanche addentrarmi troppo nelle sue ossessioni per trovare ciò di cui avevo bisogno.

Una volta, a Vienna, in visita al castello di Schšnbrunn, mentre la guida spiegava come Vienna avesse un tempo tre milioni di abitanti e oggi ne superasse a stento uno, un visitatore napoletano chiese: "Ma che cosa è successo a Vienna, che una volta aveva tre milioni di abitanti e adesso ce ne ha a stento uno? Un colera? Un terremoto?".
Ed evidentemente tocca agli uomini quel che succede ai popoli e alle città. Quale colera, quale terremoto scosse dalle fondamenta il successo e la fama di Lavezzi? Negli anni Settanta egli era stato concupito, desiderato, corteggiato e adesso era oggetto di compatimento per uno come me che in quegli stessi anni avevo condotto un'esistenza assai oscura e da un uomo carismatico, come il Lavezzi allora, la mia figura sarebbe stata considerata una semplice espressione biologica.
Me li ricordavo, quei diciottenni dalle folte barbe, come incedevano nei corridoi del liceo, come declamavano alle assemblee, come impegnavano, con un semplice gesto, le ragazze più belle della scuola... e adesso!
Adesso dovevo confortarlo quando mi diceva: "Effettivamente... io sono di colorito terreo, tendente al verde... Sarà stato l'effetto di una forma lieve di anemia mediterranea. No, non credo che il mio incarnato possa piacere molto a una donna, a meno che non abbia una predilezione per i coccodrilli".
"Ma no, non è questo", lo incoraggiavo. "é una questione d'atteggiamento. Forse sei troppo esplicito, forse non dovresti insistere troppo su certi temi, forse dovresti lasciare un po' andare le cose come vanno...".
"Sono arrivato alla mia età per essere come sono. Non voglio cambiare". C'era dunque premeditazione negli errori di Lavezzi, nei suoi eccessi? Certo, mi dicevo, deve essere così. Ha deciso di lasciarsi andare ai suoi impulsi, ai suoi sentimenti incontrollati, come se gli piacesse andarsene in giro con la bomba del suo cuore stretta in mano e la linguetta dell'esplosione giù strappata, per sperimentare che cosa succederà al primo urto, a un semplice innalzarsi della temperatura, uno sfioramento...

Per quanto fosse generalmente inviso al genere femminile, Lavezzi riscuoteva il consenso unanime del mondo maschile. Non facevo in tempo a portarlo fuori una sera con i miei amici che la volta successiva non mi sentissi dire: "E Lavezzi dove l'hai lasciato?".
Non potevi avere una malattia, una passione, una fisima per qualcosa, che quella stessa malattia, fisima o passione non fosse o non fosse stata da Lavezzi egualmente patita, nutrita, coltivata con la tua stessa maniacale dedizione e con maggiore profondità di analisi. Ti piacevano le auto? Lavezzi poteva passare una notte intera ad analizzare le prestazioni di un motore e sapeva a memoria il listino delle quotazioni di "Quattroruote". Le moto? Su questo tema sapeva essere, come tutti i veri motociclisti, allo stesso tempo tecnico e lirico. Il calcio? Raccontava fasi eroiche di partite degli anni Trenta. Gli aeroplani? Aveva pilotato alianti. Il whisky, i vini, i sigari, gli orologi? Sui vitigni competeva coi sommelier, gli bastava un'annusata per distinguere un Romeo y Julieta da un Montecristo, di cronometri possedeva una preziosa collezione.
Il raggio delle sue competenze coincideva con quello che scandiva la circonferenza dell'intero universo maschile e delle passioni in esso contenute. Se questa somma di esperienze si dovesse alla natura universale di Lavezzi o più modestamente al tempo libero concessogli dalla solitudine e dalla mancanza di un'occupazione fissa, nessuno di noi avrebbe potuto dirlo.

Alle lunghe depressioni, durante le quali non si faceva vedere, alternava momenti di effervescenza, che lo rendevano pernicioso perché allora lo afferrava un vitalismo insostenibile: argomentava, s'accalorava, beveva, e a ogni Jack Daniels si faceva più dialettico e pensoso.
Durante uno di quegli accessi, mi fece fare un memorabile tour notturno davanti a tutti i portoni delle donne che aveva amato, decantandomi di ognuna la bellezza e le aspirazioni. Quando lo accompagnai sotto al suo portone, era commosso. Disse che non potevamo lasciarci così, senza l'ultimo bicchiere. Erano le quattro del mattino, salii, mi sfidò a una gara di lancio del coltello. Uscimmo sul terrazzo, piazzò il bersaglio, una tavola di legno, contro il muro e sciorinò sono i miei occhi la collezione di coltelli bilanciati.
"Non sono capace, Lavezzi", dissi. "Fammi vedere tu".
Lui impugnò l'arma, la soppesava, poi la scagliò di forza. Nel silenzio della notte alta ebbi la sensazione di uno scoppio. La lama non s'infisse, ma si stampò con violenza, di piatto, contro il legno del bersaglio.
Lavezzi imprecò e fece un secondo, un terzo, un quarto tentativo. Ad ogni tiro ciccato si levava un fragore insostenibile, finché non s'accese qualche luce di finestra e allora rientrammo. Prima di sgattaiolare in casa come due ragazzini, notai appoggiata al muro una mazza di scopa con in punta un coltellaccio il cui manico era scomparso sotto i giri e rigiri dello spago che l'inastava come una baionetta.
"Che ci fai con questa picca, Lavezzi?", dissi io.
"Ci caccio i piccioni quando vengono a scagazzarmi sul terrazzo".
"Ma ne hai mai beccato uno?".
"Per ora no, ma prima o poi li buco, quei bastardi. Io so aspettare".

Se per qualche tempo non ci vedevamo, si annunciava con la sua voce profonda e con frasi del tipo "Sono tre giorni che ti cerco, come un sicario bulgaro", perciò gli volevo bene e mi dispiaceva vederlo in difficoltà.
Una volta un amico mi disse che aveva trascorso una memorabile serata con lui e con una ragazza alla quale entrambi puntavano. Mi raccontò che la ragazza sembrava più sensibile al suo corteggiamento che a quello del Lavezzi. Non mi sorprende, pensai io. E allora, continuò, vedendo che col procedere della serata Lavezzi sembrava progressivamente afflosciarsi e affogare in un bicchiere di bourbon dopo l'altro, lui aveva pensato bene di dargli una sveglia e di rimarcare meschinamente il suo vantaggio agli occhi della donna dicendo: "Ma Lavezzi, com'è che ti vedo un po' spento?".
A quel punto, Lavezzi si alzò. Terreo in volto, lo sguardo annacquato dall'alcol, assunse una posizione a gambe larghe, che nel karate è nota come kiba dachi, o del "cavaliere di ferro", e fissando gli occhi nel vuoto cominciò a tirarsi nello stomaco colpi terribili, che sopportava contraendo gli addominali.
Quel gesto inusitato mi venne riferito con sarcasmo, ma anche con la non nascosta intenzione di accrescere la sua leggenda e forse con malcelata ammirazione per le doti non comuni di Lavezzi. Anche il karate aveva praticato Lavezzi, negli anni Settanta. Con tono commosso mi aveva raccontato di quando, quindicenne, chiese al famoso maestro Pantaleone Montagna: "Ma io, maestro, devo essere più forte, più veloce o più tecnico?". E quello, con voce profonda, gli aveva risposto: "Tu, Lavezzi, devi essere e più veloce, e più forte, e più tecnico".

So che questo normalmente si fa per le fidanzate, e che le donne lo fanno con i ragazzi che hanno avuto, questo computo, questa conta, questo bilancio, ma io ogni tanto lo faccio con tutte le persone che ho conosciuto, che ho frequentato e che poi sono scomparse, e chi sa mai perché. Senza una ragione, semplicemente perché il caso ci ha portato altrove.
Lavezzi lo vidi l'ultima volta che scendeva da casa mia felice perché s'era offerto di accompagnare una ragazza che gli piaceva e che aveva accettato il suo invito. Era una ragazza alta, con i capelli raccolti a treccine da rasta. Io la conoscevo e sapevo quanto fosse inadatta a lui, ma non era giusto che raggelassi i suoi entusiasmi. Si precipitò per le scale, dimenticandosi da me la pipa, gli scovolini, i fiammiferi, tutto quell'armamentario che serviva alle sue apparenze riflessive e perplesse.
Lo chiamai al citofono e gli dissi: "Sali, hai dimenticato la pipa e tutti gli aggeggi". Lo sentii sghignazzare e sentii la voce di lei che gorgogliava ubriaca. "In una serata come questa non ne ho bisogno", urlò nella cornetta. Si avviava entusiasta al disastro e, come tutti i veri amici, in cuor mio gli augurai ogni insuccesso.
Il giorno dopo mi telefonò per comunicarmi quella che, secondo me, rimane la più grande verità su di lui: "Sai", mi disse, "quello che io mi sento di essere è una merce scaduta, un prodotto che non ha più mercato".
Per un po' mi sono appassionato ai pesci degli abissi, animali che praticamente pochissimi conoscono e quasi nessuno ha studiato. Tra essi si distingue un pesce chiamato lofio. Il lofio - lessi su un trattato - frequenta tali abissi che difficilmente, aggirandosi per il deserto buio di quelle profondità, riesce a trovare una compagna. Per lungo tempo pensai alla condizione del lofio come assai romantica e, avendo spesso definito il Lavezzi "individuo abissale", la rapportavo a quella del mio amico. Adesso, devo dire, non ne sono più così certo, e penso che Lavezzi tutto cercasse tranne che una compagna, visto come si accaniva solo là dove non poteva trovarla, e penso che questa inutile questua appartenga a molti di noi, e che tanto meglio stiamo finché non lo sappiamo.