Luca Doninelli (Leno 1956) vive e lavora a Milano. é autore di I due fratelli (Rizzoli 1990, Premio Berto), La revoca (Garzanti 1992, Premio Selezione Campiello), Le decorose memorie (Garzanti 1994, Premio Grinzane Cavour), La verità futile (Garzanti 1995) e Talk Show (Garzanti 1996). Ha curato le Conversazioni con Giovanni Testori (Guanda 1993). Traduttore, autore teatrale e collaboratore di numerose riviste, è critico teatrale del quotidiano "Avvenire"


 

LUCA DONINELLI
LA PAROLA CHE MANCA

racconto di un pittore
14 fermate

Le cose importanti accadono quando devono accadere. Il resto sono stupidaggini, che noi facciamo accadere per forza, e sempre nel momento in cui non hanno più senso, quando cioè i veri eventi si sono giù verificati. I veri eventi della mia storia si trovano tra le pieghe dei mille pensieri, dei mille sguardi e, di quando in quando, dei ricordi che ho trascritto, con qualche inevitabile imprecisione, nel mio diario. Ma sono imprecisioni del cuore, non delle parole, perché le parole - quelle devono essere precise, come i colori sulle mie tele.
Ero innamorato di una donna bellissima, di nome Francesca, alla quale sapevo di interessare molto, ma che, disgraziatamente, era moglie di un mio caro amico, un medico di nome Lorenzo. Una sera, dopo mesi durante i quali lei non perse una sola occasione per parlarmi del suo amore per Lorenzo e della loro felicità, Francesca venne da me e questa volta, così sembrerebbe, non fu più commesso l'errore che altre volte avevamo commesso. Lorenzo era lontano - "a salvare la vita di qualcuno", dissi tra me, senza tuttavia il sarcasmo che avrei voluto - e nulla fermò il nostro abbraccio, il nostro desiderio.
Ma non ci furono né abbraccio né desiderio. Ci volle un po' di tempo per capirlo, fu necessario che lo sfogo degli istinti si placasse: ma alla fine fu chiaro a tutti e due, prima a lei e poi anche a me. Ci guardammo negli occhi, allora, e io vidi in lei quello che c'era anche in me, benché mi facesse male: solo una grande, immensa perplessità. Lasciandomi andare col capo sul cuscino, avevo osato dirle: "Ti amo", e lei aveva risposto con un risolino. Adesso la perplessità correva liberamente tra noi, tanto che Francesca, pur con il cuore evidentemente oppresso, rise nuovamente, stavolta subito imitata da me.
Fu a questo punto che mi rivolse una domanda alla quale in quel momento non ero preparato a rispondere. In qualunque altro momento avrei risposto con sicurezza, incapace com'ero di guardare dentro me stesso. Non avrei avuto nemmeno l'impressione di mentire - del resto la menzogna si manifesta sovente come una sorta di innocenza prolungata oltre la decenza. Ma stavolta tutto questo era davvero impossibile.
"Ascolta", disse. "Io ho sempre avuto l'impressione che tu mi disprezzassi un po'. é così?".
Sorrisi per non dover rispondere, ma lei insistette.
"é così?".
"No", mentii, "non è così".
"Lo so che mi ami, ma non è questo che intendo dire".
Non le era mai capitato di parlarmi a questo modo. Con dolore, mi resi conto allora che tutti i segreti erano ormai stati svelati, anche se al tempo stesso io non volevo ancora rinunciare a tutti i segreti.
"Perché", le chiesi, "d'improvviso mi dici queste cose?".
"Vuoi dipingermi nuda, come sono adesso?", insistette, e io vidi tutto il suo pudore brillarle come una lacrima sulla punta delle ciglia.
Un filo di paura mi passò nella gola.
"Perché vuoi che ti dipinga nuda?".
Ma lei non mi ascoltava.
"Vuoi che mi metta in posa? Sono bella, sai?".
Avessi potuto prevedere questa frase, e metterle una mano sulla bocca! Lei stessa tradì l'emozione, e qualcosa mi disse che Francesca aveva pronunciato quelle parole per la prima volta.
Il gelo, la tristezza si erano come impadroniti dei nostri cuori. Tuttavia c'era anche, tra noi, dell'amore, e niente era successo in modo del tutto insensato. Non posso dire che ci amassimo nel senso comune della parola, però ci volevamo bene - questo sì, nel senso comune della parola. Non potendo vincere il gelo, dovevamo almeno cercare di soccorrerci, di darci vicendevolmente quel po' di calore di cui eravamo capaci. Cominciammo allora, per sua iniziativa, una conversazione tra il futile e il serio riguardante la nostra infanzia, i nostri genitori, la casa dove eravamo cresciuti e le immagini che avevano vivificato i nostri sogni di allora. Cosa speravamo di diventare, da grandi? Avevo sempre sognato di fare il pittore? No, volevo fare il muratore. E lei, che fin da bambina era stata accompagnata da una bellezza fuori dal comune? La bellezza è una prigione per una donna, raramente concede pensieri e propositi che non la tengano in considerazione. Voleva fare la dottoressa. Sì, ma per lei era diverso. Sarebbe stata non una dottoressa qualunque, ma una dottoressa bella. O una maestra bella. Una mamma bella.
D'un tratto, però, Francesca cambiò voce.
"Una volta cresciuta", disse, "mi resi conto che avrei voluto fare la scrittrice. Disgraziatamente", rise, "non ero brava in italiano, e provavo fastidio anche solo a tenere la penna in mano. C'era, però, un romanzo che avrei voluto scrivere - uno solo. Per questo avrei voluto essere una scrittrice. Era una storia vera, capitata nella mia famiglia, anzi: capitata, in un certo senso, a me personalmente... Ma forse non vale la pena di parlarne...".
"Ti prego...".
Francesca arrossì tutta, e io la baciai sulla fronte.


2.


"In fondo alla via dove abitavo", cominciò, "vivevano due gemelle. Si chiamavano Lucia e Giuliana - due nomi brillanti, semplici e allegri, un po' com'erano loro. Il loro papà era dottore, e aveva l'automobile più bella del paese. Avevano una decina d'anni più di me. Erano molto belle, e così uguali che solo conoscendole bene si potevano distinguere. Vestivano allo stesso modo, camminavano allo stesso modo - credo però che questa fosse una loro scelta precisa, perché erano due ragazze molto sveglie e indipendenti.
"Non avevano lo stesso carattere. Giuliana era più estroversa. La domenica c'era sempre un codazzo di ragazzi dietro di lei, e lei non lasciava mai nessuno senza una battuta scherzosa, anche se si vedeva benissimo che non concedeva molta confidenza. Io provavo per lei una grande ammirazione, Giuliana era l'ospite di riguardo delle mie fantasie.
"Avevo un posto particolare per andare a fantasticare, sai? Si trovava tra lo schienale di una poltrona e le tende di una porta-finestra. Era lì che mi ritiravo a pensare a Giuliana. Tra me, la amavo, e avrei voluto diventare come lei.
"Lucia era diversa: bella anche lei, ma col passare del tempo da allegra che era divenne molto riservata. Acquistò un modo di fare che metteva soggezione, e i ragazzi avevano quasi paura di lei. Dicevano che a scuola fosse bravissima, e a quindici anni aveva giù smesso di frequentare la chiesa. Fu a proposito di lei che sentii per la prima volta la parola "ateo" - anzi: "atea". Non puoi immaginare il fascino che queste due ragazze esercitavano su di me.
"Ora, mio padre aveva un fratello - lo zio Emilio - di molti anni più giovane di lui, a cui ero molto affezionata. Era il classico zio sfortunato, quello che non aveva mai voluto studiare, che aveva fatto tutti i mestieri senza riuscire in nulla: un po' lavativo era, questo sì, ma buono e generoso, almeno con me. Non c'era volta che non mi portasse un dolce, o una bambolina. A tavola - la domenica era sempre a pranzo da noi - diceva a volte che, appena fossi diventata grande, mi avrebbe sposata; e io vedevo che queste parole, che io consideravo dette per gioco, non piacevano né a mio padre né a mia madre.
"Lo zio Emilio abitava molto lontano da noi, e per venire a trovarci doveva percorrere in bicicletta certe stradine di campagna che, appena pioveva, si riempivano completamente di fango. Io sapevo bene verso quale ora sarebbe arrivato, perché per il mangiare era puntuale. Quando arrivava, stavo a spiarlo da dietro le tendine: scendeva dalla bicicletta, la legava alle sbarre della cancellata, poi da una tasca dietro tirava fuori una piccola spazzola bianca e si ripuliva con minuzia. Lui non sapeva che io lo guardavo, è lì che ho imparato a guardare tutto dissimulando. Forse l'essere bella mi ha aiutata, non credi? Molti pensano che una bella donna non guardi mai niente, ma non è così: tutti gli sguardi che gli uomini e le altre donne le puntano addosso le insegnano qualcosa.
"Una volta domandai a mia madre perché tutte le domeniche lo zio venisse a casa nostra. Avevo dieci anni. Mia madre disse che lo zio veniva da noi per chiedere del denaro a mio padre. Fu quella la prima volta in cui mi resi conto che i grandi avevano una specie di doppio fondo, che una parte di loro era tutta dedita a noi bambini ma un'altra parte aveva una vita propria, che non ci riguardava. Ero sicura, infatti, che la mamma mi aveva mentito. La domenica successiva, a tavola, davanti a tutti, chiesi perfidamente allo zio se era vero che veniva da noi per chiedere soldi a papà. Lo zio abbassò appena il capo e non disse niente. La mamma posò forchetta e coltello nel piatto con un tintinnìo che non ho più dimenticato. Papà domandò alla mamma.
"Sei stata tu a dirglielo?'.
"No', rispose la mamma.
"Papà si pulì la bocca e, alzatosi, andò di là senza dire più niente. Non so perché mia madre mi avesse detto quella bugia, non l'ho mai voluto sapere. Da qualche tempo i miei genitori non andavano più d'accordo, e non sarebbero mai più andati d'accordo, e dopo la morte di mio padre mia madre avrebbe continuato a non andare d'accordo con la sua ombra - tu sai come vanno queste cose, vero?
"Quello stesso giorno, lo zio mi chiese se volevo uscire a fare una passeggiata con lui. Era tornato allegro, come se a pranzo non fosse successo niente. Fu lui ad avvisare la mamma: dal modo in cui si parlavano sembrava che non avessero mai fatto altro che scherzare. Ma per me era tutto un mistero fitto fitto. Il pomeriggio era bellissimo, c'erano molti glicini e caprifogli e passiflore avvolti alle ringhiere, tutti ancora rilucenti per la pioggia passata. Quand'ero piccola avevo paura dei fiori, mi sembravano bocche di cani che latravano. Adesso invece provavo una contentezza diversa, di cui mi vergognavo, anche: come quando con i miei amici giocavamo ai fidanzati. Lo zio mi portò in fondo alla via, dove c'era la casa delle due gemelle, e con mia grande sorpresa me la indicò.
"Vedi quella casa?', mi disse. In quella casa vive la ragazza che sposerò'.
"E io subito: Lucia o Giuliana?'.
"Giuliana'.
"Oh', dissi, molto sicura di me, lei non vuol bene a nessuno, la conosco'.
"Ma la conosco anch'io', disse lui, in tutta calma. Lei è fidanzata con un altro, però vuole bene a me'.
"Come fai a saperlo?'.
"Lo so', fece, perché le ho dato l'anello, e lei l'ha accettato'.
"Come hai fatto a darglielo?'.
"La scorsa notte, tra le sbarre del cancello'.
"Questa storia mi affascinò moltissimo, e continuai a pensarci anche nei giorni che vennero. Le cose, però, non andarono nel modo sperato. Giuliana, al contrario di quello che credevo, aveva avuto diversi ragazzi, e con uno di loro, giù prima di quello attuale, c'erano state promesse di matrimonio fatte in presenza dei genitori. L'immagine della ragazza sdegnosa che mi ero fatta da sola non aveva dunque nessun fondamento. Col ragazzo che aveva adesso, le promesse erano state rinnovate: c'era anche una casa, giù comprata dal dottore, suo padre, e destinata agli sposi. Ma il dottore l'aveva detto chiaro: un altro colpo di testa non lo tollero.
"Mio zio Emilio era il primo vero amore di Giuliana, ma il matrimonio non ci fu. Lei, semplicemente, non se la sentì di rinunciare alla casa e ai buoni rapporti con la famiglia. Tu dirai: come potevano continuare ad essere buoni dopo quel ricatto? Ecco, vedi, io penso che nelle famiglie queste cose succedano, tutto qui. Ci sono i ricatti, è vero, ma è anche vero che in famiglia i ricatti cominciano da quando si nasce: fanno parte, in qualche modo, degli affetti familiari. Anzi: fanno parte proprio dell'amore. Ecco perché giudicare è così difficile.
"A questo punto la storia sembrerebbe finita, invece comincia proprio adesso. L'allegria e la simpatia di mio zio, infatti, non erano mai state indifferenti nemmeno all'altra sorella, Lucia. Come ti ho detto, Lucia era una ragazza molto bella, ma anche molto scostante, di quelle che mettono un po' di soggezione, che quando parlano non sbagliano una sillaba, e sono sempre taglienti, sempre acide, come se qualcosa fosse andato loro storto, mentre sono solo fatte così. S'innamorano piano piano, poi a un certo punto ecco la passione: una passione matematica, inesorabile. Questa Lucia era una vera Medea. Medea è un personaggio freddo, lo sai?
"Quando fu chiaro che sua sorella non poteva accampare nessuna pretesa su mio zio, Lucia si fece intraprendente a modo suo. Uscì qualche volta con lui, e una o due volte venne persino a casa nostra. Non rideva mai, salutava con molto distacco, e quando sedeva in poltrona non appoggiava la schiena, ma stava in punta - questa cosa mi colpiva molto -, non perché fosse pronta a scattare in piedi, ma perché per lei il relax non esisteva affatto. Era sempre tesa, Lucia. Lei e mio zio sedevano uno in fianco all'altra e non dicevano niente.
"Una volta chiesi allo zio se voleva bene a Lucia, ma lui disse solo che Lucia era una ragazza molto bella: questa fu la sua risposta. Io conoscevo bene mio zio, anche se ero una bambina, perché lui era un uomo semplice, con la spazzola in tasca, sempre profumato: sapevo che lui continuava ad amare Giuliana, e che usciva con Lucia solo perché Lucia le somigliava... Somigliava? Uguali, erano - di fuori, s'intende.
"Credo che a un certo punto mio zio si fosse anche stancato di lei, ma qui saltò fuori il carattere di questa ragazza. Lui non aveva argomenti contro di lei - diciamo pure che era molto più sprovveduto di lei. E lei voleva sposarlo: glielo vedevo negli occhi, io, quell'amore sordo che rende le donne più brutte, che impone certi abiti severi... Era dura, e il suo sguardo sembrava cattivo, però lei non era cattiva, era infelice. Ma era anche molto determinata, così mio zio non seppe dire di no e alla fine fu annunciato il matrimonio. Proprio allora, tra l'altro, mio zio trovò un buon lavoro - un ottimo lavoro, dissero i miei genitori, e mia madre aggiunse che era stata una fortuna, mentre fu una fortuna solo per Lucia, perché con questo impiego mio zio aveva un argomento in meno per non sposarsi.
"Io non volevo che mio zio Emilio si sposasse. I miei erano acidi e suscettibili, e lo stesso valeva per i genitori delle gemelle, e questa è tutta la mia opinione sulla famiglia. Io volevo bene solo a mio zio, che non arrivava mai a casa nostra senza qualche piccola sorpresa per me, e a Giuliana, perché volevo diventare uguale a lei. Erano le due sole persone allegre che conoscessi, e il mio nascondiglio era tutto per loro.
"Ora, successe questo, che purtroppo mio zio e Lucia si sposarono, mentre Giuliana alla fine non si sposò e decise di rimanere zitella. Ero sicura che lei e mio zio continuavano ad amarsi - dopo seppi che erano anche amanti, e che Lucia lo sapeva. Forse per questo motivo Lucia cercò disperatamente di avere un figlio...".


3.

A queste parole trasalii, d'un moto fu così violento che Francesca fu costretta a interrompersi per qualche istante. Lei comprese senza dubbio il motivo della mia emozione, ma non disse niente e continuò a raccontare.
"Ma il figlio non venne. Intanto, avevo ormai passato i tredici anni e cominciavo a capire molte cose, anche perché le difficoltà dei miei mi avevano reso più sveglia rispetto alla mia età. Nacque in me un po' di simpatia per Lucia: così bella, si vestiva sempre con colori scuri, era pallida e magra - adesso sì, era facile distinguere le sorelle - e non rideva mai, mai. Non credo però che la colpa fosse dei tradimenti dello zio, ma di qualcosa che c'era sempre stato dentro di lei. Ci sono persone dall'aspetto bello e nobile, ma come... come smangiate da qualcosa. Questo qualcosa dà loro un tratto di nobiltà particolare, ma sono in pochi ad apprezzarlo".

Francesca tacque e mi guardò dritto negli occhi, e subito capii di chi e di cosa stava parlando.
"In fondo", disse, "avrei potuto avere molti altri uomini. Ma a me piaceva lui".
"Me lo dici adesso che l'hai tradito?".
"Sì, te lo dico adesso".
Durante questo breve dialogo avevo abbassato lo sguardo. Ma come lei tacque, io rialzai gli occhi e li vidi ancora fissi su di me.
"Posso continuare?".
Non dissi nulla.
"Sì, Lucia aveva qualcosa di simile a Lorenzo. Vuoi sapere cosa ne fu di lei? Morì cinque anni dopo il matrimonio, di leucemia. Queste cose accaddero durante gli anni più strani della mia vita. I pensieri mi si attaccavano addosso come zecche e non mi lasciavano più. Era come se il mio nascondiglio dell'infanzia, tra la poltrona e la tenda della porta-finestra, si fosse dilatato: adesso non avevo più bisogno del mio angolo per riflettere, me ne andavo da sola per i campi - non che ne avessi voglia, ma non potevo farne a meno. Ero diventata bellissima, sai?, e credo anche che la malinconia mi rendesse ancora più bella: c'era una specie di segno nei miei occhi - ancora adesso riguardo le mie foto di allora: non ho mai più avuto quegli occhi lì. Eppure mi piacerebbe tanto ancora oggi fare quelle passeggiate da sola. Che noia starmene in paese, come facevano le mie compagne, a farmi corteggiare. A me questa cosa non piaceva, ecco tutto; avrebbe dovuto piacermi, e invece non mi piaceva, perché quando sentivo che un ragazzo mi guardava, io d'istinto pensavo a mio padre e mia madre, e subito dicevo tra me: no, no, no...
"Quando seppi che Lucia era malata, chissà perché cominciai a pensare al bambino che lei e mio zio non avevano avuto, e a immedesimarmi in lui. Un bambino piccolo la cui mamma è condannata a morte - è ridicolo, non trovi? Eppure durante l'adolescenza a chi non piacciono questi pensieri lugubri? Dicevo tra me: ecco, l'ha messo sul seggiolone, ora gli lega la bavaglietta dietro il collo e comincia a imboccarlo: ora lo stringe a sé, e lui ride allegro guardandola negli occhi, e su quelle guance paffute si scavano due piccole fosse, mentre lei pensa: non ti abbottonerò mai il grembiulino, non ti accompagnerò per il primo giorno di scuola...
"Queste erano le mie fantasie. E quando la zia - come avevo deciso di chiamarla nel momento in cui seppi che era malata - quando, dicevo, la zia morì, io continuai a immaginare quel bambino che non c'era, il suo smarrimento, la sua domanda continua: dov'è la mamma?, dov'è la mamma?, quel sentimento di lontananza del proprio corpo dal corpo della mamma...
"Non c'è luogo in cui un essere umano possa diventare cattivo come il capezzale di un moribondo o una camera ardente. Nel tentativo maldestro di essere veramente buoni, potendo mentire meno del solito, noi acquistiamo una crudeltà inimmaginabile. Ci furono ben due persone, quel giorno, che, senza nessuna intenzione offensiva, dissero allo zio che adesso finalmente poteva sposare colei che amava. Va detto che durante la malattia lo zio si era comportato con Lucia in modo stupefacente, con una dedizione che aveva commosso tutto il paese. Perciò le parole di quei due stupidi apparvero ancora più incomprensibili. Lui infatti non rispose nemmeno.
"Ma adesso ascoltami: lo zio non aveva mai smesso di amare Giuliana, e dopo tutto quei due stupidi si rivelarono buoni profeti. Dopo nemmeno un anno dalla morte di Lucia, ecco che lo zio coronava, come si dice, il suo sogno d'amore. Lui aveva sempre amato Giuliana. Anch'io l'avevo amata, un tempo. Ma poi avevo cominciato ad amare Lucia, che anche dopo morta continuava ad essere per me la zia', mentre Giuliana era per me solo Giuliana'. Eppure ti assicuro che con Lucia non ero mai entrata in confidenza, anche se penso che Lucia fosse così intelligente da notarmi sempre, sullo sfondo, da notare - voglio dire - i miei occhi che scappavano verso di lei, soprattutto quando stava per morire, ed era magra magra, e si guardava intorno con tanta inquietudine, come un uccello notturno. Le sistemavano i guanciali dietro la schiena in modo da tenerla seduta, e lei guardava...
"Giuliana, che non era sciocca nemmeno lei, si accorse subito, fin dalla prima volta in cui fu ospite in casa nostra, che io le ero ostile. Ma non era un'ostilità voluta. Me lo disse, anche: Perché non chiami zia anche me?'.
"Lei, però, vedeva del calcolo in questo mio modo di fare, come se volessi comunicarle che la consideravo un'usurpatrice, mentre non era vero. Il fatto è che in quegli anni tristi era cresciuto in me il bambino di Lucia, e adesso questo bambino aveva una nuova mamma, quasi uguale all'altra. La sofferenza altera i tratti di una persona, ma cosa diremmo se rivedessimo questa persona guarita di colpo? Di nuovo, in una frazione di secondo, il colorito di prima, l'energia di prima? Due cose potremmo dire: o c'è stato un miracolo, o c'è stata una sostituzione di persona. O è intervenuto Dio, o si tratta di un imbroglio. Sapessi che bisogno ho, io, di miracoli! Sapessi che sete! Lucia era atea, ma negli ultimi giorni della sua vita la vidi pregare, e lei - il gufo - vide che la vedevo. Feci anche alcune notti da lei, quando lo zio non ne poteva più. Aveva un libriccino con i bordi delle pagine argentati...
"Ma quel bambino avrebbe continuato a chiedersi: è lei o non è lei? Avrebbe sorriso, avrebbe allungato le manine, ma poi un piccolo particolare, che so, il modo di muovere la testa, un tic, il tocco della mano... Non si può vivere nel dubbio. Io andavo a messa la domenica, ma non avevo la fede per sopportare una domanda simile. Continuavo a pensare a quel bambino - tu dirai che ero completamente matta, ma non è così. Quel bambino era il tarlo che mi rodeva, che avrebbe continuato a rodermi per sempre. Quando mi confessavo, non osando raccontare la storia di questo bambino, dicevo un sacco di bugie - ma non erano vere bugie, erano solo altri modi di formulare la domanda. E il prete, invariabilmente: bisogna aver fede... Ma quale fede! Ci vuole un miracolo...
"Scusami. So che a te di queste cose non importa niente. Ma vedi, ognuno ha quella che si chiama la storia della propria vita, e io volevo raccontarti la mia. In fondo, adesso c'è una certa intimità fra noi. Se non avessi conosciuto quella povera ragazza - morì a ventinove anni, sai? - forse non avrei mai provato tanta attrazione per Lorenzo. Hai visto com'è bello? Solo io e te possiamo capire com'è bello. Le sue braccia...".
A queste parole trasalii nuovamente, perché non appena aveva accennato a Lorenzo anch'io avevo pensato alle sue braccia.
"E Lorenzo mi parlava di te, e tu eri lontano. Cominciò a parlarmi di te fin dal giorno in cui ci conoscemmo, perché ti voleva bene. Io ero nata - e lo sapevo - ero nata per essere amata da pittori e poeti, per essere ritratta in tutti i modi, con le parole e con i colori, con la pietra, con le note musicali. Perché io ero bella, e la mia bellezza mi ha sempre accompagnato ovunque, senza lasciarmi mai. Furono le parole di Lorenzo ad accendere in me il desiderio di conoscerti e poi, una volta che ci fummo conosciuti, di vederti sempre, tutti i giorni, al bar o per strada. Essere ammirata da te era meglio che fare l'amore con Lorenzo, e io questo lo seppi subito, fin da quando Lorenzo cominciò a parlarmi di te. Tu mi domanderai perché sia così, ma io non lo so...".
Su questa parola la interruppi.
"Un momento", dissi. "Se quello che dici è vero, perché all'inizio del vostro fidanzamento lo tradisti?".
"Chi ti ha detto questa cosa?", disse, meravigliata.
"é vero o no?".
Francesca abbassò il capo.
"Sì, è vero. Lo tradii con uno qualunque, di cui non ricordo nemmeno la faccia, e sai perché lo feci? Perché ero stanca di sentir parlare...".
"Parlare di che?".
"Di te".
Col dito sotto il suo mento, la costrinsi a guardarmi.
"Di me?".
"Sì, parlava e parlava, ma non voleva che ci conoscessimo. Io invece non ne potevo più dal desiderio di conoscerti. Era come se mia zia Lucia mi avesse detto: devi conoscere quella tal persona... Io a piedi!, sarei corsa da quella tal persona, si fosse trovata anche in capo al mondo... Poi io e Lorenzo ci rappacificammo, ma lui capì che doveva muovere un passo verso di te. Per questo venne a cercarti. Io ho sempre ottenuto tutto quello che volevo, la bellezza ha questi effetti. E pensare che non ti conoscevo nemmeno... Chissà", rise, "se, conoscendoti giù...".

Mentre ci rivestivamo, tutti e due un po' vergognosi, le dissi che la sua era una storia bellissima e che non credevo alla scusa dell'italiano scadente: se non aveva scritto quel romanzo doveva esserci un'altra ragione.
"Sì", disse, "una ragione esiste"
"Quale?".
"Non ho mai trovato la parola finale".
Per un istante la guardai negli occhi, con tutta l'ironia di cui fui capace, ma lei non si scompose.
"Bada, però", aggiunse. "Io so bene quello che significa per me tutta questa storia".
Mi guardò sorridendo, di tre quarti, come ai tempi in cui si divertiva a sedurmi.
"Anch'io sono il sostituto di qualcun altro, sai?".
"Di chi?".
Francesca allora distese le mani, come se aspettasse la pioggia dal cielo, e disse: "E' proprio questa la parola che manca".