13/11/2000

 
Lisa Parola 
 
 
Il museo nella testa

 
   
intervista ad Harald Szeeman di Lisa Parola 
 
   
Documenta 5: Haus-Rucker-Co, "Oase" Installation an der Außenwand des Fridericianums




Harald Szeemann




dettaglio dell'installazione nel Padiglione giapponese 48a Biennale Arte 1999 dal reportage di UnDo.




Tung-Lu Hung, 48a Biennale Arte 1999, dal reportage di UnDo.Net




Chieh-Jen Chen, 48a Biennale Arte 1999, dal reportage di UnDo.Net




la stanza di Oreste, 48a Biennale Arte 1999, dal reportage di UnDo.Net




Katherina Fritsch, 48a Biennale Arte 1999 dal reportage di UnDo.Net



 
Lo scorso 20 settembre 2000 Harald Szeeman è stato a Torino per inaugurare il progetto LabOratorio ideato dal gruppo a.titolo e promosso dall'Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte nell'ambito della XV edizione della rassegna Proposte. In una conferenza tenuta a Palazzo Cavour ha parlato del suo mondo di intendere l'arte e rappresentare il lavoro degli artisti.

Il museo è nella sua testa, l'arte per lui è un'ossessione. Harald Szeemann, direttore della sezione delle Arti Visive della Biennale d'Arte di Venezia del 1999 e riconfermato anche per l'edizione del 2001, unico direttore con incarico biennale, è una figura anomala nel sistema dell'arte. Curatore indipendente ha 44 anni di esperienza espositiva alle spalle e oltre cento mostre realizzate dal 1957 ad oggi. Grande ascoltatore, regista, poeta da sempre ha rifiutato di essere definito critico: "un termine che trovo molto stupido". Un mediatore invece, tra l'artista e lo spettatore per "fare mostre", dove in quel "fare" sono racchiusi il lavoro teorico e quello pratico. Realizzare mostre è "la mia vita, un gesto d'amore. Si mostra solo quello che si ama. E' un andare insieme con gli artisti. I miei progetti nascono da discussioni lunghissime, anni di lavoro". Ma cosa significa oggi progettare mostre? "Viviamo in una democrazia. Se fossi vissuto al tempo di Ludovico II o al tempo di Re Sole avrei fatto castelli, ma viviamo in una democrazia e allora faccio mostre". Nascono così progetti che hanno segnato la storia dell'arte degli ultimi trent'anni: "When Attitudes Become Form" (1969) "Documenta 5" (1972), "Le Macchine Celibi"(1975/1977), "Il Monte Verità" (1978/1980), "Verso l'Opera d'Arte Totale" (1983/1984). Tante visioni riunite in una grande utopia "concreta" che nel già nel 1973 prendeva forma con "L'agenzia per il lavoro spirituale", unico dipendente: Harald Szeemann che in tutti i suoi progetti continua ad insistere sull'importanza dell'autonomia di pensiero. Una posizione non facile la sua, l'anarchico dell'arte contemporanea, spesso accusato dalla critica di essere "manipolatore". "Chi fa mostre è un regista: questo è un fatto inevitabile ed è stupido non accettarlo. E' inutile nascondersi dietro ad una falsa oggettività". Un approccio soggettivo, "emotivo" per raggiungere ed aprire esperienze in grado di "cambiare il cervello della gente, aprire possibilità, convincere il pubblico che realmente c'è dell'altro oltre ai soldi, alla macchina, alla lavatrice ...
Lo scorso anno mi hanno chiesto di fare una mostra con un contratto nel quale io dovevo garantire che il cinquanta per cento dei visitatori quando usciva avrebbe dichiarato di essere cambiato. Ovviamente è una pazzia, l'arte ha tempi lunghi, lunghissimi, è sempre stato così..." . Tutte le sue mostre sono soprattutto un'avventura, un incontro tra l'opera, l'artista e il luogo. "Io parto sempre dallo spazio, da come questo viene investito con le opere" attraverso la riscoperta del "fragile", del dubbio. Un fatto privato, un "veicolo poetico" nel quale convivono arte, storia, memoria, scienza, mito spazio e utopia, nell'impossibilità di definire "cosa è arte, cosa non è ancora arte, cosa sarà arte". Un continuo tentativo di arricchire la nozione di arte, "che nessuno sa realmente cos'è". Nel caos apparente delle sue "creature" nascono possibilità, approcci, visioni: "per il pubblico deve essere sempre una sorpresa. Quando devo progettare una mostra visito i luoghi. Ci vado spesso senza dirlo a nessuno, chiedendomi cosa in quel luogo la gente non ha ancora visto, ma anche quali siano le forme della memoria collettiva". Un lavoro continuo e in continuo spostamento, ogni progetto firmato da Harald Szeemann insiste sull'autonomia d'azione e di pensiero e a chi gli domanda il ruolo del mercato e il suo rapporto con il sistema dell'arte risponde senza esitazione: "L'istituzione e il lavoro culturale devono anticipare il mercato, come è successo per i cinesi esposti nella scorsa edizione della Biennale". Perché le sue mostre hanno così grande successo? "Quando progetto penso che in quel luogo l'arte sia l'unica possibilità. Ogni mostra è un mondo possibile, un mondo nel quale la gente può camminare, muoversi". La sua arte nasce da un'ossessione, dalla concretizzazione di un'utopia, "l'idea di cambiare la testa della gente, fare mostre che rimangono nella testa". Ma quanto conta il pubblico nelle sue operazioni? "Esistono oggi tre tipi di pubblico delle mie mostre: quelli che le hanno viste, quelli che non le hanno viste e quelli che non le hanno viste ma ne parlano ancora. Mi basta un solo spettatore che intuisca e ne parli. La Biennale del '99 è stata la volontà di aprire altri luoghi della città e aprire ad altri artisti, aprire al pubblico nuove visioni". E per la prossima Biennale? "Tutte le arti -architettura, danza, teatro, cinema- riunite in un unico grande coro dell'umanità".
Lisa Parola

     

 
 

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