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9/05/99

 
Michele Trimarchi 
 
 
MUSEI: PUBBLICI, PRIVATI O NON PROFIT?

 
   
La prospettiva economica delle istituzioni culturali  
 
   

 
 
Le relazioni tra il settore pubblico e quello privato sono da anni al centro del dibattito economico cosi come dell’interesse e delle aspettative della società. Ciascuno di questi settori viene, correttamente, visto come il luogo privilegiato per un approccio alle scelte economiche caratterizzato da aspetti sui generis, il settore pubblico dalla visione più globale e ampia, dal possesso più esteso di informazioni rilevanti, dall’assenza di finalità di lucro; il settore privato dalle opportunità connesse con l’imprenditorialità, con l’obiettivo del profitto, con il paradigma del mercato.
Questo dibattito, che ha toccato nel corso del tempo quasi tutti i settori dell’attività economica, lambisce da qualche anno anche il settore culturale che appare sempre più stretto tra l’irrigidirsi del vincolo dei bilanci pubblici che finora l’hanno foraggiato e la presenza di sprechi e inefficienze (veri o presunti) nella gestione delle istituzioni culturali. Il tema è delicato, e non lo si affronta correttamente se lo si riduce a una sorta di contesa territoriale tra stato e mercato, in cui l’uno dovrebbe o potrebbe cedere spazi all’altro.
Lasciare il settore culturale (così come altri settori dell’economia) sotto il governo esclusivo del mercato o dello stato significherebbe in ogni caso asservirne le caratteristiche costitutive e la crescita a criteri e meccanismi troppo specifici e ristretti per un settore che invece appare imprescindibilmente vario ed eterogeneo, pluralista e sperimentale. Sarà utile, preliminarmente, fare il punto sugli aspetti economici rilevanti del settore culturale.



Ruolo, criteri e strategie del museo

Prima della rivoluzione industriale non esistevano i musei: si trattava tutt’al più di raccolte private destinate soltanto a stupire il visitatore. Ma anche in quelle, e risalendo lungo la storia addirittura fino al primo restauratore, quell’architetto egizio che i ramessidi incaricarono di restaurare le tombe della prima dinastia, c’era un elemento costitutivo che tuttora è uno dei pilastri della cultura, il richiamo all’identità, la possibilità di riconoscervi i tratti portanti di un popolo, di una civiltà, di un’epoca.
Dall’avvento del capitalismo manifatturiero in poi, il consumo di cultura ha significato affermare il successo della società nella lotta alla miseria e alla povertà; in questo senso, la valenza rituale e simbolica della cultura si è spostata dal piano religioso e politico a quello tipicamente borghese della società come somma di individui. Si trattava comunque sempre di luoghi sacri. È una valenza che il museo - così come gli altri luoghi della cultura - sta perdendo progressivamente mano a mano che svanisce la società manifatturiera e prende spazio l’economia immateriale.
In questo senso, si può capire perché concetti come l’efficienza economica, pur fondamentali nei settori dell’economia manifatturiera per misurare la performance delle imprese, non riescono ad assumere, nel settore culturale, la stessa valenza forte e centrale; sono stati fatti dei tentativi per misurare il prodotto, la produttività, l’efficienza dei musei, ma per quanti indicatori si possano inventare (numero di visitatori per consistenza del patrimonio, custodi per metro quadro, e così via), si deve accettare l’idea che il museo offra un prodotto non standardizzato a un pubblico di visitatori che esprime un apprezzamento soggettivo. E anche se confiniamo le valutazioni a gruppi di esperti e operatori tecnici del settore, il grado di soggettività potrebbe non accennare a diminuire.



Pubblico, privato o non-profit?

Non si può ignorare il fatto che questi tentativi di misurazione sono spesso posti al servizio di un altro, cruciale dilemma: quello della scelta tra settore pubblico e privato nella gestione della cultura. Ovviamente, facendo riferimento ai pur abbondanti luoghi comuni presenti in questa eterna disputa, non si fa molta strada. Associare il settore pubblico alla lentezza pachidermica dei carrozzoni burocratici, o viceversa ritenere che soltanto lo stato può garantire l’uguaglianza e la libertà, sono errori di pari gravità. Ciascuna istituzione, sia essa il mercato o lo stato (etichette che già presentano un grado pericolosamente alto di generalizzazione), comporta inevitabilmente costi e benefici, analizzarla criticamente non vuol dire attribuirle delle colpe primigenie o una pagella.
Allo stesso modo, se “statalizzazione” e “privatizzazione” finiscono per essere due termini che hanno ormai troppi significati per non chiedere ulteriori, indispensabili approfondimenti caso per caso, anche il settore “non-profit” è attualmente al centro di un forte interesse per il suo presunto altruismo, e per la possibilità che esso risollevi le sorti finanziarie della cultura grazie al suo marchio di fabbrica immacolato; anche qui vanno chiariti alcuni punti dirimenti: innanzitutto, non-profit significa assenza di profitto per i soci e non per l’istituzione; il che implica che i profitti possono essere certamente conseguiti, anche in misura notevole, ma non devono essere distribuiti (ma questo non impedisce distribuzioni “trasversali” sotto forma di fringe benefits o di reddito non monetario). In conseguenza di ciò, nessuno garantisce una sorta di disinteresse da parte dei manager di una non-profit, al contrario, si tratta di imprese vere e proprie che scelgono una forma organizzativa “libera” dall’obiettivo del profitto come risposta istituzionale a un possibile fallimento del mercato; non è un caso che le non-profit proliferino in settori come quello dell’assistenza alle persone, della sanità, dell’istruzione, e della cultura, in cui la misurazione fisica del prodotto e di tutti i parametri ad esso connessi risulta difficile se non impossibile.