Home English Version ArtForum



22/05/99

 
Gianfranco Mossetto 
 
 
IL RUOLO DEI PRIVATI NELLA CONSERVAZIONE

 
   
 
 
   

 
 
Quale è il punto di vista dell’economista sul museo, come e con quali problemi questo viene applicato operativamente in una situazione di progressiva privatizzazione?
A queste domande risponde l’economista Gianfranco Mossetto, che da quasi dieci anni si occupa di economia dei beni e delle attività culturali per conto di ICARE, il centro di ricerca che pubblica periodicamente un rapporto di analisi di gestioni museali, mercati artistici e strutture culturali.
In conseguenza a queste sue competenze ed esperienze è stato chiamato ad insegnare scienze delle finanze sperimentalmente e per la prima volta in Italia, economia dell’arte agli studenti della Facoltà di lettere dell’Università di Venezia.
Mossetto è stato anche, per ragioni puramente professionali e poco politiche come egli stesso tiene a precisare, Assessore alla cultura del Comune di Venezia, curando in questa veste una robusta, se non radicale, ristrutturazione delle strutture museali della città.

Il concetto di conservazione

Il concetto di conservazione che oggi adottiamo nasce circa 150 anni fa.
In precedenza, per molti secoli, conservare ha significato rifare utilizzando materiale recuperato dal passato.
Per esempio al Museo di Colonia c’è un crocefisso detto "Eriman Croice" datato intorno all’anno Mille, nel quale è stata inserita una testa di una statua dell’imperatrice Livia.
Questo è un esempio emblematico per dire che la conservazione della statua dell’Imperatrice Livia venne concepita come il prelevamento di un pezzo e l’inserimento in un contesto artistico diverso.
La volontà di riutilizzare era presente anche nell’architettura di quel periodo fino al Rinascimento. I materiali dell’antichità venivano usati per nuovi edifici: si riutilizzava quello che serviva distruggendo serenamente gli edifici.
In una seconda fase, circa dal ‘400 al ‘600, la conservazione diventa il rifacimento basato sul modello originale.
Un esempio sono le ridipinture di Siena nel palazzo della Regione. Una parte dell’affresco del Simone Martini è ridipinta duecento anni dopo, aggiungendo particolari, come il cambiamento nel paesaggio.
Soltanto gradatamente la fedeltà al modello originale diventa un elemento sempre più importante: ancora nell’800, il restauro si contestualizza ancora in termini contemporanei perché non c’è la preoccupazione di essere filologicamente fedeli al momento della creazione.

Il restauro filologico e la crescita del dominio della conservazione

L’ultima evoluzione del concetto di conservazione porta al restauro filologico.
Questo passaggio, nel periodo che va dalla seconda metà dell’’800 ad oggi, è contestuale con la crescita simultanea degli oggetti ritenuti degni di essere conservati.
Il fenomeno è consistente: non solo si conserva in modo più fedele, ma si conserva sempre di più.
Si introduce poi il concetto di cultura materiale all’interno del dominio della conservazione: esplode la quantità e la preoccupazione di conservare diventa ossessiva.
Questo porta ad una ipertrofia dell’attività di conservazione: se i musei sono il luogo deputato alla conservazione, il loro compito diventa insostenibile.

La conservazione è un compito pubblico?

Questo concetto di conservazione presuppone che tale compito spetti al settore pubblico.
Secondo questa concezione, il compito di conservare è in capo alla collettività e non può essere affidato ai privati.
Di questi non ci si può fidare perché sono considerati incapaci di apprezzare il valore dei beni, anzi addirittura tendono a disperderli, secondo le richieste di mercato.
Un notissimo grande maestro e storico dell’arte, Argan, aveva come uno dei suoi motti e credi fondamentali questa frase: "Il mercato disperde l’arte".
Il museo è un istituzione pubblica che ha la funzione universale della conservazione.
A questo proposito alcune considerazioni si impongono.
Curiosamente, in molte situazioni, il museo pubblico finisce per essere originato in buona misura da una collezione di base privata.
Del resto nei modi di produzione dei beni culturali fino all’800 (a Firenze, a Venezia, nel Nord-Europa, a Napoli) la committenza privata ha un ruolo fondamentale.
I privati hanno storicamente investito parte delle loro risorse in arte.
Nonostante questo, la diffidenza nei loro confronti è tale che oggi l’arte non può essere affidata ai privati e messa sul mercato.
Questo è lo stato dei fatti attuale ed è assolutamente legato a una ideologia, e non è fondato né storicamente né economicamente.

Rinnovare le politiche e mantenere il canone di conservazione

Qualcuno deve dunque conservare, ma non è economicamente possibile conservare tutto.
Anche moltiplicando i fondi destinati alla conservazione dal Ministero dei beni culturali, questo compito non sarebbe realizzabile.
Le scelte possibili sono allora due: far evolvere la struttura tipica di conservazione, cioè il museo, oppure modificare il canone di conservazione.
Non ritengo opportuno mettere in discussione l’attuale canone di conservazione perché espressione della nostra storia. Lo manterrei dunque costante nel breve periodo.
Rimane quindi possibile solo modificare gli strumenti e le politiche di conservazione, visto e considerato che ora sono inefficienti nel soddisfare il perseguimento di questo canone.
Per operare questa modifica, occorre trasformare il modo con cui sono gestite le politiche di conservazione, eliminando alcuni elementi di contorno che sono stati aggiunti ai principi del restauro filologico e che non sono affatto necessari per mantenere tale condizione.
L’elemento a cui mi riferisco è quello che assegna soltanto o principalmente dall’intervento pubblico il compito di finanziare la conservazione.
Occorre superare questo principio e permettere ai privati di prendere parte alle politiche di conservazione, aumentando, di conseguenza le risorse a disposizione a tale scopo.

I livelli di coinvolgimento dei privati nelle politiche di conservazione

Il problema è dunque di trovare delle modalità per coinvolgere i privati nelle politiche di conservazione.
Una prima via è coinvolgerli come consumatori diretti.
Il privato può gestire le proprie scelte di conservazione, come è già successo nella storia passata, andando direttamente sul mercato e comprando ciò che ritiene valido.
Questo può avvenire in modo più efficiente sussidiando la scelta diretta del consumatore, cioè incentivando e rendendo meno costoso il conservare, creando delle politiche fiscali che incentivino la conservazione.
Questa modalità è stata lungamente dibattuta in Italia nella prima parte degli anni Ottanta.
Tuttavia, non è mai stata fatta un’effettiva scelta di politica fiscale in questa direzione.
Gli incentivi alla conservazione sono limitatissimi e non ottengono gli effetti sperati perché non tengono conto dell’evolversi del mercato.
C’è stato qualche risultato nelle politiche di ristrutturazione immobiliare ma non per quanto riguarda i beni mobili.
Una seconda modalità, mai perseguita nel nostro paese, è fare entrare i privati nella gestione dei musei.
Questa possibilità è stata in parte affrontata dal Ministro Ronchey offrendo ai privati di gestire le caffetterie e i bookshop nei musei.
La proposta, che può sembrare per la sua ovvietà una risposta abbastanza semplice al problema, ha creato molti problemi di tipo burocratico.
La preoccupazione dei paladini della conservazione è stata tanto forte che soltanto innestare dei servizi all’interno di una struttura museale ha causato delle resistenze violentissime e, in larga parte, ideologiche.
Tuttavia, quello che non si è discusso veramente è l’attribuzione ai privati dei diritti decisionali.
Privatizzare qualche cosa, o pubblicizzare qualche cosa significa attribuire il diritto di decidere sull’oggetto e sulla funzione di quell’attività.
Quindi quando si parla di privatizzazione, si deve considerare il trasferimento dei diritti di decisione sulla conservazione dal soggetto pubblico al soggetto privato, regolamentando la loro attività come si regola qualsiasi mercato i cui risultati abbiano dei risvolti di pubblico interesse.

I privati e il loro ruolo decisionale

A Venezia è stata avviata una sperimentazione in questo senso, cominciando ad attribuire diritti ai privati.
Una prima modalità proposta è stata far partecipare i privati come sponsor delle nostre strutture museali.
Questo è un modello che offre pochissimo potere decisionale ai privati e, per quello che ci riguarda, non ha funzionato.
Non essendoci deducibilità fiscale delle sponsorizzazioni e delle donazioni, la generosità dei privati diventa molto limitata.
Abbiamo provato allora un’altra strada, cercando di capire quale fosse la reazione dei privati di fronte alla proposta di prendere in mano dei beni pubblici e co-gestirli.
Per Ca’Rezzonico abbiamo costruito una fondazione fatta di privati con il compito di gestire i programmi culturali.
La contropartita era costituita dalla possibilità di utilizzare Ca’Rezzonico per attività promozionali e sociali.
Il risultato in questo caso è stato interessante riguardo alla raccolta di fondi, ma, per ora, molto deludente riguardo alla capacità dei privati di programmare.
I privati, come gruppo, non si sono dimostrati in questo caso pronti ad esercitare il diritto di decisione.
Questo è molto interessante perché manifesta che il limite della privatizzazione della conservazione dei beni culturali non è nei suoi meccanismi economici, ma nella mancanza della cultura che consentirebbe a ciò di accadere.

Questo testo propone il testo di parte dell'intervento di G.M. al seminario Il museo imprenditore organizzato dal prof. Francesco Mauri nel 1997/98 all’interno del laboratorio tematico per il quinto anno del Corso di laurea in disegno industriale del Politecnico di Milano, Facoltà di architettura.