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4/06/99

 
Franco Bianchini 
 
 
LE POLITICHE CULTURALI URBANE IN EUROPA

 
   
Uno sguardo analitico sui musei 
 
   

 
 
Esistono in primo luogo una serie di differenze tra i diversi paesi europei che rendono qualsiasi tipo di comparazione difficile anche per ciò che concerne il tema museale. Si trovano differenze importanti persino nella definizione della parola “cultura”; è difficilissimo comparare per esempio i livelli di spesa sulla cultura tra un paese e l’altro perché per cultura si intendono cose diverse in paesi diversi.

È anche difficile comparare le strutture amministrative e istituzionali che vanno da un massimo di decentramento in paesi come la Germania, a un minimo di autonomie locali in paesi come il Portogallo, la Grecia o l’Irlanda. Allo stesso modo è difficile confrontare paesi come la Spagna e la Gran Bretagna per quel che riguarda le partnership tra pubblico e privato e il ruolo del settore privato e degli imprenditori. È curioso il fatto che la Gran Bretagna che negli ottanta, anni del thatcherismo, ha inventato forse l’idea della partnership pubblico-privato sia anche il paese in Europa in cui è più difficile fare delle partnership vere e proprie tra questi due settori, a causa della debolezza strutturale del settore privato nella maggior parte delle città inglesi al di fuori di Londra dove invece è fortissimo ma del tutto inserito nell`economia globale e poco attento alle questioni dello sviluppo locale. Nella stessa misura uno degli handicap dei paesi come l’Inghilterra è anche l’assenza di banche come per esempio le Cajas in Spagna o le Caixas in Catalogna, banche che in pratica sono “no profit” e che devono per statuto dedicare i loro profitti ad attività culturali, ricreative, di sport, ecc. Ad esempio, Barcellona ha tratto grande beneficio dalla presenza sul territorio di una banca come la Caixa di Barcellona che è uno dei partner più importanti per l’organizzazione di mostre e anche per lo sviluppo dei musei della città. Spesso l’idea della globalizzazione economica nasconde differenze notevoli tra il capitalismo nei diversi paesi europei, ed é importante capire le differenze tra le caratteristiche del settore privato e il suo rapporto col settore pubblico e col terzo settore in diversi contesti nazionali.

Allo stesso modo quando si costruisce una programmazione culturale è importante capire che il mercato per il consumo culturale non è determinato da stime grezze della popolazione di una città. Per esempio, sarebbe sbagliato fare la programmazione culturale a Liverpool nello stesso modo che a Bologna, anche se le due città hanno piú o meno lo stesso numero di abitanti (circa 400mila). La ragione è che la dimensione del mercato per il consumo culturale è determinata soprattutto dai livelli di istruzione che nel caso di Bologna sono molto più alti rispetto a quelli di Liverpool. Questo in parte spiega il fatto che le due città hanno un mercato diverso soprattutto per quel che riguarda il settore della cultura detta “alta” che a Bologna è assai piu` sviluppato che a Liverpool.

Nonostante tutto esistono delle tendenze comuni che vale la pena di sottolineare. Una prima similitudine è il fatto che le politiche culturali urbane cominciano ad emergere soprattutto dopo il 1968, per una serie di cause: la crescita del tempo libero disponibile, la riduzione dell’orario di lavoro , l’aumento delle giornate di ferie retribuite e anche una crescita di domanda di cultura più politicamente organizzata da parte di vari movimenti collettivi urbani (giovanili, studenteschi, femministi, ambientalisti, delle minoranze etniche ecc...). Ciò portò anche ad un ampliamento delle definizioni di cultura usate dai politici. Per esempio fino ai primi anni ’70 la definizione di cultura usata nelle politiche culturali urbane tendeva a limitarsi alle forme ‘pre-elettroniche’ di attivitá culturale. Era la cultura dei musei tradizionali, del teatro, della danza classica, dell’opera, e di solito non comprendeva forme culturali più contemporanee come per esempio il design, la moda, la televisione, il cinema e la musica elettronica.
Un altro fattore importante fu il decentramento dei poteri in paesi come la Francia (dopo l’81), la Spagna (dopo l’82) e l’Italia (a partire dalla creazione delle regioni nel ’70), che dette più opportunità ai poteri locali di sviluppare le loro politiche culturali.

Questa fase delle politiche culturali urbane aveva degli obiettivi che non erano propriamente legati allo sviluppo economico. In molte città erano obiettivi più di integrazione sociale e di ricerca di dialogo tra i poteri locali e i gruppi con cui il colloquio risultava ancora difficile, per esempio con i giovani disoccupati o anche con le minoranze etniche,.

Un altro obiettivo piuttosto comune era quello d’incoraggiare i cittadini a riscoprire le qualità organiche del centro città, e di ritornare ad un modello di cittá caratterizzato dalla sovrapposizione dei diversi tipi di uso dei suoli (a scopi abitativi, commerciali, amministrativi, di svago, culturali ecc...). In un certo senso le politiche culturali urbane di questo periodo erano una reazione contro l`approccio funzionalista alla pianificazione del territorio, prevalente soprattutto nei centri storici di città del Nord Europa negli anni ’50 e ’60. In quegli anni erano stati fatti dei disastri notevoli, con la costruzione di autostrade urbane vicinissime al centro che era stato in parecchi casi in un certo senso strangolato, oppure con la costruzione di parcheggi a più piani e la trasformazione di parecchie città tedesche, inglesi o anche olandesi in giungle di cemento. In molti casi, le politiche culturali urbane durante gli anni `70 e i/primi anni `80 furono coordinate con interventi urbanistici comprendenti la chiusura al traffico di parti del centro città e il miglioramento dei trasporti urbani (con la reintroduzione in parecchie città europee dei tram). Questi interventi, insieme a nuove iniziative di animazione culturale, rappresentavano in parte un tentativo delle elites politiche locali di far tornare il centro città ad essere il punto di incontro per persone di diversi quartieri e classi sociali, e con diverse preferenze culturali. Uno degli strumenti per la realizzazione di queste politiche era l’idea del festival, come l`Estate romana lanciata dall`assessore alla cultura del Comune di Roma, Renato Nicolini, nel 1977 e imitata da organizzatori di estati in moltissime altre cittá italiane. Un modello basato sull’idea francese di animation, che significa letteralmente “dare vita” a spazi (tra i/quali molte ex aree industriali dismesse, a causa dell’ inizio del processo di deindustrializzazione in molti paesi europei) che venivano visti come morti; ridare vita anche all’uso del tempo, specialmente per categorie sociali come i/giovani disoccupati e gli anziani che erano viste come emarginate proprio in quanto escluse dalla possibilitá di usare il loro tempo al fine di produrre ricchezza. Per esempio, per l`edizione dell’Estate romana del 1979 Nicolini aveva avuto l’idea della metropoli come “sistema di vita che sviluppa desideri”, l’idea quindi della programmazione culturale della città come modo per allargare gli orizzonti culturali dei cittadini e generare (lavorando soprattutto sulla cittá durante le ore notturne) un progetto di città diversa , piú equa, umana e vivibile, anche durante le ore diurne

Un’altra caratteristica di questo periodo è il decentramento delle attività culturali a livello di quartiere. Si tratta di una novità, perché nella fase precedente dello sviluppo delle politiche culturali urbane in Europa occidentale nel dopoguerra (dalla metà degli anni’ 40 alla fine degli anni ’60) la spesa culturale si era concentrata soprattutto nei centri città ed in istituzioni tradizionali come il museo, la sala concerti e il teatro civico. Erano state molto trascurate le zone esterne al centro, mentre in questo periodo c’è un forte investimento sia in biblioteche di quartiere che in centri polivalenti. Una delle caratteristiche di questa fase storica è anche la nascita del museo di quartiere, legata al movimento degli eco-musei, a partire dal primo eco-museo fondato nel territorio di Le Creusot e di Montceau-les-Mines in Francia nel 1972. Questi musei sono praticamente centri di documentazione della memoria collettiva del quartiere, in cui si raccolgono per esempio fotografie sullo sviluppo del quartiere stesso, testimonianze orali degli abitanti e spesso si fanno attività di consultazione e laboratorio per individuare i problemi del quartiere e possibili soluzioni.

Dalla seconda metá degli anni ’80 cambiano le priorità e quindi anche gli atteggiamenti e gli obiettivi. Si passa a ricercare risultati più di carattere economico per le politiche culturali urbane e le ragioni di questo cambiamento sono piuttosto chiare. Da un lato c’è una crisi fiscale dei vari governi europei (in parte causata dalla recessione della fine degli anni settanta-primi anni ottanta) con una pressione sulle risorse finanziarie delle autorità locali perché i governi devono tagliare la spesa pubblica e questo comprende anche una riduzione dei trasferimenti agli enti locali. In secondo luogo, c`é la necessità di rispondere alla ristrutturazione economica e ai traumi sociali da essa derivati, di affrontare la crisi di settori dell`industria come le acciaierie, i/cantieri navali e i/complessi petrochimici, nonché dei porti e delle altre strutture di distribuzione legate a questo tipo d`industria. Il rinnovamento urbano diventa quindi uno degli obiettivi delle politiche culturali urbane dalla seconda meta` degli anni ottanta ad oggi, anche nel senso del riuso di attrezzature ed aree industriali dismesse. I musei giocano un ruolo importante in queste nuove strategie. Basti pensare, per esempio, alla Tate Gallery del Nord dell’Inghilterra, un museo d`arte contemporanea creato nel 1988 nell`Albert Dock, una parte del vecchio porto di Liverpool che era rimasta in stato d`abbandono totale per molti anni. La Tate Gallery di Liverpool ha svolto una funzione essenziale nel processo di rigenerazione ambientale ed economica dell’Albert Dock, migliorandone l’immagine esterna ed attirando investimenti e turisti. L’Albert Dock oggi é una della maggiori attrazioni turistiche in Gran Bretagna, e comprende oltre alla Tate Gallery altri tre musei (uno dedicato ai Beatles, uno alla storia sociale della cittá, e uno alla storia del porto in particolare) oltre a uffici, negozi, studi televisivi e complessi residenziali.

Negli anni ‘80 e nei primi anni ‘90 era diffusa tra ipolicy-makers la convinzione che investendo e facendo crescere il settore del turismo, dei media, della cultura, dello sport, si potesse in qualche modo compensare la perdita di posti di lavoro in settori più tradizionali dell`economia locale, oltre che migliorare l’immagine esterna delle città e, quel che forse è più importante, internazionalizzarla, renderla più cosmopolita, facilitando in tal modo il compito di attirare sia investimenti che fondi CEE, sempre più importanti per finanziare progetti di rigenerazione urbana.

Ci sono vari esempi di amministrazioni di città che hanno attuato strategie tese a stabilire collegamenti tra le politiche culturali e sia lo sviluppo economico locale che il marketing urbano. Uno di questi esempi e` Francoforte, uno dei casi più interessanti per quanto riguarda imusei. Francoforte negli anni settanta aveva problemi d`immagine, anche se diversi da quelli di una città industriale in crisi. Eranoi problemi di una città economicamente forte, ma culturalmente piuttosto provinciale e sottosviluppata; la sfida era colmare la lacuna tra l`elevato status economico della citta` e il suo status culturale relativamemte basso. L`immagine della città era legata alle sue banche e altre istituzioni finanziarie, ai soldi in generale, ai sex shops e ai cinema a luci rosse (sulla cui densitá piuttosto elevata probabilmente influiva l’alto numeri di soldati presenti nelle basi NATO della regione), agli scontri tra polizia e studenti nel 1968 e nel corso degli anni ‘70, e al terrorismo di gruppi come la Baader-Meinhof.

L`amministrazione comunale di Francoforte durante gli anni ’80 ha orchestrato una strategia di rigenerazione urbana comprendente la creazione di un sistema inizialmente di tredici musei, un vero e proprio “quartiere dei musei”. I policy-makers di Francoforte hanno inoltre cercato di accreditare a livello nazionale e internazionale la cittá come centro il più importante centro museale in Germania. Hanno ottenuto un discreto successo, ma anche incontrato notevoli problemi, in parte derivanti dal fatto che il quartiere dei musei, che doveva essere anche un quartiere di artisti, è diventato talmente costoso dal punto di vista degli affitti che gli artisti non possono permettersi di trasferirsi li`, anzi, alcuni di quelli che gia` c’erano sono dovuti andare via.

Un’altra città dove l’amministrazione comunale ha fatto interventi mirati alla rigenerazione urbana legati ai musei è Bradford nello Yorkshire, nell’Inghilterra settentrionale. Si tratta di una città industriale in declino, legata all’industria tessile, con un’immagine d`inquinamento e disoccupazione, che risollevo` in parte il proprio orgoglio civico attraverso l’apertura nel 1983 di un Museo del cinema, della fotografia e della televisione, in un vecchio teatro in disuso nel centro città. Anche in questo caso venne lanciato un quartiere dedicato al turismo culturale nelle vicinanze del nuovo museo, E` importante notare come il museo fu visitato da una media annuale di 600.000 visitatori durante isuoi primi cinque anni di vita: un bel risultato per una citta` che fino al 1983 era pressoche` del tutto esclusa dai circuiti turistici.

Glasgow, in Scozia, è un altro caso in cui i/musei hanno avuto un ruolo importante per la rigenerazione di una città che negli anni ‘70 aveva un’immagine legata soprattutto alla criminalità, alla violenza tra bande e alla crisi massiccia dell’industria locale, soprattutto dei cantieri navali e del porto. Nel 1983 venne aperta una nuova struttura museale, la Burrell Collection, in un edificio nuovo in un parco piuttosto periferico, e vennero lanciati sia il primo festival della città (“Mayfest”) e una campagna promozionale dal titolo “ Glasgow’s miles better”, comprendente investimenti in pubblicita` anche nella metropolitana di Londra. Questo programma di politica culturale culmino` dopo vari anni di iniziative e interventi con la nomina di Glasgow nel 1990 a “Città europea della cultura”, utilizzata dall’amministrazione comunale come strumento per il marketing urbano, ovviamente anche in questo caso non senza conflitti interni e controversie. Per esempio una delle questioni più difficili è stata quella dell’immagine della citta` offerta da varie iniziative culturali iniziative all’interno del programma del 1990, e in particolar modo da una mostra (“Glasgow’s Glasgow”) che dava un’idea della storia della città, che, a detta di molti critici, passava sopra ad una serie di conflitti sociali, economici e politici.