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18/06/99

 
Gabriella Belli 
 
 
LE MACCHINE-MUSEO

 
   
Dello sconquasso della museografia 
 
   

 
 
Dal 1982 mi occupo di museografia nell’ambito dell’arte moderna e contemporanea. La mia formazione è di tipo umanistico.
Dopo gli studi classici mi sono laureata e specializzata in storia dell’arte e critica d’arte contemporanea.
Nel 1978 ho vinto un concorso nell’ambito del Servizio dei Beni Culturali della Provincia Autonoma di Trento dove ho operato nel settore della catalogazione del patrimonio storico-artistico e popolare del Trentino.
Nel 1982 inizio ad occuparmi di museografia contemporanea, un’avventura che oggi è alla sua tappa finale, ovvero la creazione pressoché dal nulla di un museo d’arte moderna e contemporanea in un territorio come il Trentino, periferico ed isolato dai percorsi consolidati dell’arte.
Appartengo alla generazione dei direttori di museo del secondo dopoguerra, cui è spettato il compito, entusiasmante pur se complesso, di avviare la trasformazione delle macchine-museo da una concezione meramente conservativa ad un indirizzo d’impresa e di alta valenza tecnologica.
Che le cose nel mondo museale internazionale stessero cambiando era nell’aria già ai tempi dei nostri studi universitari, ma fino alla metà degli anni ‘70 ciò non venne a coinvolgere che in minima parte la realtà italiana.
La museografia stentava ad essere considerata come una scienza e pochissimi furono gli strumenti metodologici ed operativi messi a nostra disposizione in questo specifico campo durante gli studi universitari.
L’esperienza che presento qui è dunque da considerare come un’esperienza fatta sul campo con pochi addentellati alle teorie scolastiche.
Non sono un tecnico di marketing, di management, di sviluppo, ma semplicemente uno storico dell’arte vissuto in un particolare frangente culturale e politico che ha dovuto fare fronte con le proprie intuizioni, conoscenze e forze, e anche con molta umiltà, ai grandi e ormai inderogabili cambiamenti del sistema museale italiano.


Modelli di museografia a confronto: museo tecnologico e museo monumentale

Il titolo del dibattito di oggi, “oltre il museo”, si presta a molte interpretazioni, alcune, letterali e letterarie, altre invece molto stimolanti che riguardano l’identificazione dei nuovi modelli museografici e museologici oggi adottati pressoché in tutto il mondo e da pochi anni finalmente affacciatisi anche in Italia.
Il titolo di questa conferenza significa senza possibilità di errore, che il concetto tradizionale di museo è ormai diventato obsoleto ed è disponibile ad un rinnovamento globale delle sue procedure operative, organizzative nonché dei suoi strumenti metodologici.
Dicevo prima che un nuovo modello di museografia avanza in Italia, un modello che l’America e in parte anche l’Europa ha già da tempo sperimentato: è il modello del museo tecnologico, una definizione che intende concentrare in questa parola tutta la carica di rinnovamento, di qualità e potenzialità che il museo oggi possiede, grazie alla grande apertura sul mondo del sapere e della conoscenza data dalla rivoluzione dei sistemi di comunicazione.
Questa affermazione richiede però qualche cautela. Se è vero infatti che il modello tecnologico sta avanzando rapidamente in tutto il mondo, sovvertendo la museografia tradizionale, è anche vero che la recente apertura a Bilbao del nuovo Guggenheim, ha riproposto un modello di museo-monumento che antepone all’aspetto tecnologico, quello simbolico - rappresentativo di consolidata tradizione.
In questo museo infatti, la tecnologia sembra scomparire per lasciare il posto alla più tradizionale fruizione dell’opera d’arte, inserita in uno spazio architettonico di straordinaria tensione tettonico-strutturale: un grande fiore esploso sulle rive di un fiume. Al suo interno il museo si articola in una serie di gallerie espositive che si dipartono da una grande hall centrale: non è previsto un percorso di visita fisso, cronologico o tematico che sia. L’azzeramento del concetto cronologico del display dà il ritmo continuo del tempo presente, ogni evento avviene e si riconduce ad un centro unitario, che è appunto il cuore del museo, la grande hall.
L’apertura di Bilbao fa molto riflettere, perché se da un lato è indubbio che stiamo andando verso un modello per così dire “freddo” di museo, dove prevale appunto l’aspetto tecnologico, che ha trasformato il tradizionale approccio all’opera d’arte, dall’altro lato ecco riapparire all’orizzonte un modello ancora altamente simbolico che rimette al centro nuovamente l’opera d’arte e il rapporto con il visitatore.
Questi due modelli non sono tra loro in contraddizione e la loro diversa efficacia va naturalmente messa in relazione alle caratteristiche culturali e artistiche del territorio e delle collezioni cui appartengono e di cui indubbiamente rappresentano la storia.


Il terzo modello: funzione simbolica e riqualificazione periferica

A mio parere la soluzione ottimale starà in un terzo modello, capace di unire questi due aspetti parimenti importanti della museografia: si può infatti pensare ad un museo tecnologicamente avanzato, che dia dunque accesso ad una rete in relazione stretta con il resto del mondo e nello stesso tempo capace di dare piena fruibilità ed enfasi simbolica all’opera d’arte attraverso l’antico ma insostituibile esercizio del vedere, dello scoprire, della meraviglia, del capolavoro.
Un museo che privilegi l’aspetto rappresentativo, simbolico, come può essere il caso del Guggenheim di Bilbao, non dobbiamo dimenticare inoltre che dovrà essere un museo dotato di collezioni d’arte di primo ordine, ai massimi livelli di qualità.
Va inoltre rilevato che la funzione simbolica del museo di Bilbao è anche collegata ad un ruolo altamente rappresentativo di una società che attraverso questa grande opera architettonica ha inteso riqualificare il proprio tessuto urbano, sociale ed economico. Il museo è diventato un grande progetto per la trasformazione della città in direzione di un turismo culturale, progetto nel quale sono state investite grandi risorse finanziare.
Identico ruolo ha svolto il nuovo museo d’arte moderna di San Francisco costruito da Mario Botta, l’architetto ticinese che, tra l’altro, è il progettista del nostro museo di Trento e Rovereto. A San Francisco fu infatti un team di finanziatori pubblici che sostennero tutti i costi di costruzione dell’edificio, sorto in un’area di loro proprietà, un’area dismessa e dequalificata, area che proprio grazie alla presenza del museo ha ritrovato una funzione commerciale e di servizio molto importante e con evidenti vantaggi economici.
Il museo tecnologico è invece un modello che può avere particolare significato là dove non esistano delle collezioni di capolavori e là dove prevalga quell’aspirazione per così dire “democratica” di servizio, rispetto all’idea simbolico-rappresentativa della ragione di stato.
Il modello tecnologico, che proprio grazie a questa sua specifica identità può aprirsi ad ambiti di interesse molto ampi e di indirizzo interdisciplinare, dà la possibilità a istituti periferici o decentrati d’essere in linea con il mondo e di caratterizzarsi come nodi specializzati di una più vasta rete attraverso la quale è possibile conoscere e partecipare in tempo reale alla produzione culturale o scientifica dei grandi centri.


L’identità museologica come elemento fondativo

È peraltro certo che qualunque siano i modelli ideali, nella progettazione di un nuovo museo la scelta dovrà essere sempre dettata dalle ragioni “d’identità” del territorio in cui dovrà nascere e vivere la nuova struttura.
Bisogna diffidare dell’idea di un nuovo museo, se questo museo nasce in un tessuto culturale che non ha avuto e non può esprimere attraverso questa istituzione delle vocazioni che fanno parte della ragione culturale, sociologica, politica del suo stesso territorio.
La questione dell’identità del museo è una questione centrale della museologia.
Chiunque sia chiamato ad operare nel campo della progettazione museografica, deve porsi domande e darsi precise risposte circa l’identità museologica.
Per museologia intendiamo tutto ciò che riguarda la storia dell’istituto, ovvero quella delle sue collezioni, delle sue relazioni culturali, del collezionismo del territorio dove esso opera. Tutto ciò inteso naturalmente nell’accezione più vasta e articolata: da qui nascerà, come una sorta di geminazione fisiologica, il progetto di qualunque museo voglia essere capace di corrispondere a delle reali esigenze culturali, sociali e di crescita civile della società che lo esprime e che in esso verrà ad essere rappresentata.
L’identità quindi è l’elemento fondativo di qualunque progetto o programma culturale.
Davanti ad un problema di progettazione legato per esempio ad un campo complesso come l’attivazione di un settore didattico o l’approntamento di un nuovo servizio all’interno di un museo la prima domanda che ci si dovrà porre è quella relativa all’identità. L’identità dovrà guidare le scelte. L’identità infatti contiene la risposta esatta a tutte le nostre domande.
Ma come è possibile riconoscere l’identità?
L’importante è guardare dall’interno la struttura ed esplorarne ogni sua parte, prima tra tutte, a mio parere, la sua storia e il suo patrimonio. Bisogna conoscere che cosa la struttura possieda, come sia riuscita ad entrarne in possesso, che cosa questa struttura si ponga come obiettivi di sviluppo e soprattutto quale sia la sua relazione con il territorio: la storia di come è nata, vissuta, quali siano stati i suoi sostenitori, i suoi finanziatori ecc. Questa storia farà capire da dove partire e soprattutto dove arrivare, quale dovrà essere la sua mission, quali gli strumenti per raggiungerla.
Il problema dell’identità museologica è molto spesso trascurato: questa è la ragione per cui non è difficile vedere in posti tra loro diversissimi strutture analoghe e che potrebbero stare indifferentemente in qualsiasi posto del mondo.
Ogni struttura per avere una sua ragione d’essere, deve vivere delle vocazioni del proprio territorio e deve esserne al tempo stesso sua rappresentazione. Ogni museo deve vivere della propria autonomia progettuale e scientifica ed essere volano di crescita del proprio territorio d’appartenenza e finestra sul resto del mondo, finestra dalla quale guardare ma attraverso la quale farsi guardare.
Proprio in virtù di questo, anche in un piccolo territorio può nascere una struttura capace al tempo stesso di rappresentare l’identità culturale del suo territorio d’appartenenza ed essere punto di riferimento di livello internazionale: tutto ciò può avvenire però ad una sola condizione, quella cioè che essa sappia interpretare al meglio la propria identità ovvero sappia segnare la propria differenza.
È impensabile che a Roma, Milano o Bologna possano nascere strutture, che abbiano identici interessi e identiche vocazioni.
Se è vero infatti che la storia dell’arte è un fatto universale, è altrettanto vero che ogni museo per esprimere la vocazione culturale e artistica del proprio territorio di appartenenza dovrà fare scelte specifiche nel campo dell’arte: non il tutto ma una parte del tutto. Questo discorso non è un discorso localistico: la nostra misura è internazionale e di confronto europeo, anche se la ragione d’essere di qualsiasi istituzione a qualsiasi latitudine è quella di radicarsi nel suo territorio d’origine.


Uso e consumo del museo: rete globale e partecipazione locale

Un secondo punto mi pare molto importante nel dibattito qui aperto: l’uso e il consumo del museo, ovvero vizi e virtù della relazione tra il museo e il suo pubblico
Questo tema si può intendere, in maniera limitata, visto cioè nell’ottica di una relazione localistica tra il museo e il pubblico, circoscritta al solo territorio di appartenenza, oppure in una dimensione ampia, globale, in relazione perciò con il resto del mondo, con quel villaggio globale appunto che la RETE oggi ci consente di considerare come nostro utente reale e virtuale. È peraltro mia opinione che, diversamente da quanto potrebbe sembrare, la RETE, capace apparentemente di risolvere qualunque problema di isolamento culturale, non possa sostituirsi ad alcune funzioni ed esperienze fondamentali della fruizione museale. Certamente in un museo tecnologico essa saprà mettere la struttura in comunicazione con il resto del mondo, soprattutto nel campo della ricerca, ma è mia ferma convinzione che essa non potrà in nessun modo offrire quelle emozioni intellettuali ed estetiche che scaturiscono dalla visita al museo. Non credo in sostanza che la RETE possa dare al pubblico quelle risposte esistenziali che l’esperienza dell’arte è tenuta a dare.
Sono molto scettica dunque sull’euforia generale che in questi anni ha salutato il potere della RETE: credo nella tecnologia che ha reso più facile il nostro lavoro mettendoci a disposizione un sapere ampio a dismisura, ma credo ancora nella prioritaria conoscenza ed esperienza del singolo, nelle sue capacità di riflessione critica, nelle sue attitudini al vedere, al comprendere. Credo che la macchina darà risposte standard a quesiti standard e quindi diffido per esempio di una ricerca scientifica completamente affidata alla tecnologia o di una visita guidata via INTERNET.
Se un museo a seguìto una vocazione specifica e non ha tradito la propria identità culturale, il rapporto partecipativo e diretto del pubblico sarà un’esperienza fondamentale e irrinunciabile per la crescita della struttura e per la crescita culturale dei singoli e della comunità. Un museo non partecipato è come un corpo senza vita: per questa ragione chiunque progetti iniziative nel campo della didattica o nel campo dell’attività espositiva, è importante che sappia attivare strategie positive di raccordo e di comunicazione con l’esterno, comunque capaci di far aderire quasi fisiologicamente la comunità ai progetti e alle nuove iniziative.