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15/07/99

 
Vanni Codeluppi 
 
 
Dalla città, al museo, a Disneyworld e ritorno

 
   
Per un modello del consumo culturale 
 
   

 
 
Il Pelourinho è il centro storico di Salvador, la capitale dello Stato brasiliano di Bahia. Sino agli anni Ottanta si trattava di una realtà sociale disastrata, abitata soltanto da malviventi e neri molto poveri. Era assolutamente sconsigliata a tutti i turisti bianchi. Ma i suoi caratteristici edifici di inizio secolo hanno spinto il governatore dello Stato di Bahia a cacciare in maniera violenta i legittimi abitanti del luogo per avviare un’opera di recupero architettonico. Oggi abbiamo una delle più importanti attrazioni turistiche del Sud America, ma anche una realtà in cui si è persa la precedente cultura sociale radicata nella propria storia.
Questo esempio estremo evidenzia ciò che in realtà sta succedendo oggi a tutte le principali città, ma anche a città di medie e piccole dimensioni, che si vanno progressivamente “museificando”. Vi si vive sempre di meno, vi nascono aree private e isole pedonali, vengono aggirate da tangenziali, strade a scorrimento veloce e treni ad alta velocità (quindi, in qualche modo, sono sempre più “escluse”), le vestigia del loro passato sono progressivamente restaurate, illuminate, esposte, valorizzate. Inoltre, come ha sottolineato l’antropologo Marc Augé, “Ogni città, ogni villaggio di creazione non recente rivendica la sua storia, la presenta all’automobilista di passaggio con una serie di pannelli che costituiscono una specie di biglietto da visita. Di fatto questa esplicitazione del contesto storico è assai recente e coincide con una riorganizzazione dello spazio (creazione di deviazioni periurbane, di grandi assi autostradali al di fuori degli agglomerati) che tende, inversamente, a cortocircuitare questo contesto evitando i monumenti che ne sono testimonianza”.
È in atto cioè, da parte della città, un gigantesco sforzo che ha l’obiettivo di compensare un altro processo in corso da tempo di apertura verso l’esterno, dunque di progressiva diffusione sul territorio. Il risultato di questo sforzo è che il centro storico viene, come si è detto, progressivamente “museificato”, quindi in qualche modo trasferisce alla città la “logica conservativa” del museo tradizionale.
Questa logica, non a caso, è nata insieme a quella della biblioteca con la cultura moderna del secolo XIX, cioè con lo svilupparsi della consapevolezza che era necessario cercare di accumulare e conservare ciò che il progresso socioeconomico tendeva inevitabilmente a distruggere. Prima di questo passaggio storico, soprattutto nel XVII secolo, musei e biblioteche erano un fatto privato, singole collezioni frutto di una scelta individuale. Poi, nell’Ottocento, è stata l’intera società, principalmente attraverso lo Stato, che ha sentito la necessità di farsi carico di creare dei luoghi collocati fuori dal tempo dove in qualche modo potessero essere “eternizzate” la storia e la cultura umana per evitare che venissero perse.


La “museificazione” dei luoghi di consumo

Oggi, come sappiamo, il processo economico procede sempre più velocemente e questa diventa pertanto una necessità sempre più sentita socialmente. Risiede essenzialmente in ciò la causa del processo di “museificazione” della città, della moltiplicazione dei luoghi che vengono “museificati”. Dentro la città, tra questi tipi di luoghi ci sono i luoghi di consumo, da intendere nel senso di luoghi di vendita di prodotti, anche se ormai queste distinzioni sono sempre meno possibili.
Resta il fatto che anche i luoghi di vendita, gli spazi in cui si tende sempre più a passare il proprio tempo libero, si stanno “museificando” perché sono all’interno di questa logica complessiva che attraversa la città e i suoi principali spazi. In questi luoghi, quindi, la merce viene anch’essa “museificata”, viene, cioè, sempre più connotata su di un piano estetico, su un piano spettacolare, su un piano comunicativo, a discapito di quello funzionale.
È il caso dei negozi denominati “Nike Town” e posseduti dalla Nike in diverse città statunitensi. Quello di New York, probabilmente il principale, è stato descritto in questo modo: “Il vestibolo crea una zona di decompressione che dà ai clienti il tempo di adeguarsi alla velocità dello shopping: questo è un luogo adatto all’esposizione, più che alla vendita. L’atrio crea, inoltre, un chiaro campo visivo che attira il consumatore ai livelli superiori del negozio. E, poiché la gente, entrando in un negozio, circola invariabilmente a destra, è qui che sono situati gli ascensori che portano gli acquirenti in alto e dentro al negozio. Più i clienti vengono sospinti nei meandri profondi del magazzino, più aumentano le probabilità che comprino. Nell’atrio troneggia un gigantesco orologio sportivo che esegue un conto alla rovescia di trenta minuti. Quando arriva al minuto 00.00, cala un sipario sulla finestra del Palladium che si affaccia sulla 57a strada, e un immenso telone discende per tutta la lunghezza dell’atrio. Nel negozio si abbassano le luci e sul telone viene proiettato un ispirato spot pubblicitario della Nike. Il trucco ingenuo è che il cliente rimarrà nel centro commerciale per la proiezione successiva, avendo così più tempo a disposizione per consumare [...] più tempo per lo spettacolo che gli mostra che cosa deve consumare. L’atmosfera di Nike Town New York City è un po’ quella di un museo con un ritmo più serrato. I commessi in uniforme se ne stanno al loro posto come educati e informati custodi, mentre i clienti studiano compunti le dimostrazioni del prodotto in una sorta di eccitato silenzio. C’è tutta una serie di oggetti prodigiosi sparsi per Nike Town New York City. Il cliente può usare il sistema digitale di misura NGAGE per eseguire un accurato scanning a raggi infrarossi dei propri piedi. E se uno decide di comprare un paio di scarpe, queste vengono trasportate dallo scantinato a un punto qualsiasi del negozio in uno dei ventisei tubi Lucite trasparenti. Ci sono vetrine ‘tocca e senti’ interattive per i tessuti Nike e i materiali per le suole, e moltissimi prodotti a portata di mano [...] i clienti acquistano con più probabilità vestiti che è possibile provare”.


La “disneyficazione” dei musei

Ma questo è soltanto un versante del discorso sulla città e sui punti di vendita che si stanno “museificando”. C’è anche un altro versante: il processo contrario, cioè la progressiva “disneyficazione” del museo. Lo studioso americano George MacDonald è stato il primo a parlare di questo processo, cioè l’assunzione di Disneyworld, il modello Disney del parco a tema, come modello di riferimento per il museo del futuro. Naturalmente, non tutti coloro che si occupano di musei sono concordi, ma questo, per i musei, è senz’altro oggi il modello che sta diventando più importante.
Jean Baudrillard, qualche anno fa, ha chiamato tutto ciò “effetto Beaubourg”. Erano i tempi in cui è nato con grande clamore il centro culturale Georges Pompidou, detto “Beaubourg”, e, sostanzialmente, l’effetto Beaubourg per Baudrillard consisteva in questo: interpretare il museo secondo un modello di “disneyficazione” (che, non dimentichiamolo, rappresenta anche un modello di consumo), un modello sicuramente rivoluzionario rispetto al museo come era stato in passato considerato. Gli esempi recenti (il newMetropolis di Amsterdam, il Guggenheim di Bilbao, il Getty Center di Los Angeles) sono esemplari di questo processo di “disneyficazione”, di introduzione cioè di una logica di consumo all’interno del museo.
Da un lato, dunque, abbiamo la città e i suoi spazi principali (a cominciare da quelli di consumo) che si avvicinano sempre più al museo, che in qualche modo assumono una logica comunicativa che è quella del museo tradizionale. Dall’altro, ecco il museo che si avvicina invece alla logica che ha sempre caratterizzato gli spazi pubblici, gli spazi del consumo, gli spazi di fruizione della città.


Un approccio sociosemiotico per l’analisi del museo

Proprio perché oggi molto spesso troviamo che le città, i musei e i luoghi di consumo sono sempre più sovrapposti, sempre più confluenti tra loro è possibile applicare anche al museo un approccio interpretativo che proviene da un’area che è quella degli studi sul consumo. Tale approccio è nato a sua volta da un approccio sviluppato nell’ambito semiotico e deriva dal lavoro di ricerca di Algirdas Julien Greimas, il semiotico più importante negli ultimi anni, ed il punto di riferimento principale per tutti coloro che si occupano di forme di comunicazione, di segni e di strutture testuali.
Per Greimas , qualsiasi forma testuale è organizzata secondo una determinata struttura. Il pensiero di questo autore è nato infatti all’interno dello strutturalismo francese e di tale tradizione culturale mantiene la fondamentale nozione di struttura. Qualsiasi testo, quindi, ha una struttura che deve essere rintracciata da chi si vuole porre in una posizione di analisi rispetto ad esso. Partendo dalla parte superiore, nel testo c’è una struttura superficiale, ci sono alcuni fatti esteriori più semplici che riguardano le strutture temporali, spaziali, i colori, gli stili argomentativi, le figure retoriche, ecc. Scendendo in profondità all’interno della struttura del testo, abbiamo un secondo livello di organizzazione, che è di tipo narrativo. Ci sono cioè dei ruoli, c’è un discorso costruito, c’è uno svolgimento temporale della narrazione, ecc. C’è poi una terza struttura, ancora più profonda, che è il livello dei valori, cioè quegli elementi fondamentali su cui si regge l’intera struttura del testo. Sono quei significati fondativi che alla fine dell’analisi è necessario soprattutto rintracciare.


Il “quadrato semiotico”

È da questo approccio che è partito Jean Marie Floch, uno degli allievi di Greimas. Floch, però, ha lavorato soprattutto sul livello più profondo, quello che contiene i valori fondamentali su cui si regge la nostra cultura: dei valori forti e condivisi da molte persone, degli archetipi universali.
Floch ha utilizzato l’approccio di Greimas per ragionare su quelli che sono i modelli di consumo più rilevanti. È partito dal cosiddetto “quadrato semiotico”, che solitamente i semiotici impiegano proprio per analizzare il livello dei valori. Solitamente, il quadrato semiotico si utilizza muovendo dai due angoli che si trovano in alto e funziona, come gli strutturalisti hanno sempre pensato, per categorie concettuali contrapposte. Per esempio: maschile versus femminile. Partendo da due categorie di questo tipo, si costruiscono le altre due per contrapposizione.


I modelli di consumo di Floch

Floch è dunque partito da una struttura di tipo logico, come fanno abitualmente i semiotici, e da questo tipo di struttura logica ha ricavato quattro modelli di consumo, che ha chiamati “valorizzazioni dei beni di consumo”.
Floch è partito, in particolare, da una contrapposizione tra il pratico e l’utopico (rispettivamente a sinistra e a destra). Da un lato, il consumatore avrebbe un orientamento di tipo pratico, concreto, razionale, efficientista e quindi con dei valori di tipo utilitario. Dall’altro, come contrapposizione, ci sarebbe il consumatore utopico, che ha valori esistenziali, quindi è soprattutto interessato alla sua identità, all’espressione del sé nella società, mentre l’altro è interessato al rapporto costi/benefici. Passando al lato inferiore del quadrato, a sinistra abbiamo il consumatore critico che ha valori non esistenziali e che è interessato in realtà a far emergere l’essenza del prodotto. Dall’altra parte, a destra, abbiamo il consumatore ludico, un soggetto cioè che non è utilitario e ama giocare con i beni di consumo.
Floch ha applicato questo approccio ad un ipermercato francese e tale applicazione è stata concretamente condotta attraverso interviste somministrate ad un campione di consumatori. Si è trattato del primo tentativo d’impiego di uno strumento di questo tipo ad uno spazio di vendita particolarmente ampio che deve soddisfare i bisogni di consumatori diversi.
Dalla ricerca, è emerso che il consumatore pratico vuole un prodotto di qualità sufficiente ed essendo abitudinario vuole trovare velocemente ciò che gli serve. È un funzionalista, interessato al fattore tempo, interessato ai parcheggi, al servizio in generale.
Il consumatore utopico immagina invece lo spazio come uno spazio di relazione, uno spazio conviviale in cui si trova bene. Vuole trovare uno spazio di questo tipo e quindi luoghi per sedersi, per discutere, per mangiare, ecc.
Il consumatore critico è un analista molto preciso, molto puntuale, che va in profondità all’interno del prodotto e del servizio che gli viene offerto e quindi non si interessa dei “lustrini” della convivialità, ma va a cercare l’essenza, va a valutare attentamente quello che ottiene.
Infine, il consumatore ludico è qualcuno che si vuole divertire e, quindi, anche le sue scelte merceologiche sono di questo tipo. Ama gironzolare e vivere l’ipermercato o qualunque altro spazio come uno spazio in cui giocare.


Modelli di consumo e prodotto culturale

Una studiosa statunitense, Jean Umiker Sebeok, ha applicato l’approccio di Floch ad un’esposizione tenutasi nel Children’s Musem di Indianapolis. Lo ha fatto secondo le medesime modalità, cioè prendendo il modello teorico di Floch e verificandolo attraverso delle interviste ai frequentatori dell’esposizione considerata.
Tra questi, il consumatore pratico è quello che vuole l’informazione utile e quindi la sua domanda chiave è: “Cosa posso fare con quello che mi viene offerto?”. È il modello dell’aula scolastica.
Dall’altra parte, invece, il consumatore vuole “rispecchiarsi”: è il modello della sala degli specchi. Porta a chiedersi “Che cosa può dire l’esposizione su di me, come posso essere protagonista ?
C’è poi il consumatore critico, quindi attento a quella che è l’organizzazione dello spazio: è il modello del museo. La domanda chiave è: “Che cosa si può pensare su questo ?
Infine, abbiamo l’esposizione come parco dei divertimenti, come stimolazione fisica. La domanda chiave è: “Che cosa posso sentire, che cosa posso provare io attraverso questo tipo di esperienza?”.
Dallo studio condotto sono emersi alcuni dati quantitativi, ma l’unico realmente interessante è che i consumatori pratici e critici frequentano in maniera significativa i musei, quindi sono coinvolti da questo tipo di realtà molto più degli altri due tipi di consumatori. Naturalmente, possono esistere anche altri modelli di consumo e di frequentazione dei musei. Un’opinione radicata presso i semiotici è che i tipi di valorizzazione possibili non possano essere che quattro. Poiché si parte da un modello logico, che è nella testa di ciascuno e funziona su quelle che sono le categorie culturali condivise nella società occidentale avanzata, questo è un modello assoluto, da tutti condiviso, quindi, in quanto tale, non prevede altri modelli possibili. In realtà, quelle presentate da Floch e Sebeok sono le principali, ma possono esistere anche altre tipologie di soggetti, che nascono dall’interazione che il fruitore di qualsiasi testo stabilisce con quest’ultimo. La stessa Sebeok l’ha implicitamente confermato, sostenendo che: “Il Significato di un’esposizione museale, di un’esposizione commerciale, e di un qualsiasi altro prodotto, non è nella cosa in se stessa, e tantomeno nell’occhio (o orecchio, mano, mente, cervello) del fruitore, ma nella danza interpretativa intricata e vivace che costui intreccia con il prodotto, o, piuttosto, con l’Altro che il prodotto le/gli rappresenta, solitamente nel contesto di Altri Significanti presenti [...] e che diventano partner nel corso dell’esperienza di consumo”.