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9/05/99

 
Michele Trimarchi 
 
 
I MUSEI TRA VINCOLI ISTITUZIONALI E RISTRETTEZZE FINANZIARIE

 
   
Flessibilità ed ibridazioni al centro di una possibile strategia di sviluppo 
 
   

 
 
Al di qua delle etichette (pubblico, privato, non-profit), bisognerebbe andare a guardare concretamente quali sono gli aspetti rilevanti nella struttura e nel funzionamento di ciascuna istituzione; qual è il processo decisionale? Quali sono i poteri contrattuali relativi dei diversi decisori? Quali gli obiettivi e i vincoli? Basta pensare che molti musei vengono gestiti dal direttore senza conoscere il bilancio, né la retribuzione dei propri dipendenti, e soprattutto senza poter modulare i carichi di lavoro, la destinazione di ciascun dipendente, e così di seguito. E se all’improvviso il settore venisse “privatizzato”, come è avvenuto in un campo analogo, quello degli enti lirici, siamo certi che il potere decisionale e negoziale aumenterebbe per ciò soltanto? La lirica dei prossimi anni verrà prodotta da fondazioni di diritto privato che non sono state libere neanche di adottare uno statuto liberamente scelto, in quanto la legge gli impone, per poter ancora ricevere un ancora indispensabile contributo statale, di adottare lo statuto riportato per esteso dalla legge stessa.
Va in ogni caso sottolineato che il dibattito sulla privatizzazione della cultura si è ridotto, nel nostro paese e in questi anni, a ben poca cosa, se si esclude la continua e agiografica celebrazione dei servizi accessori come scoperta di una fonte finanziaria che può risolvere i problemi dei musei. Intanto, nonostante il notevole risultato che va riconosciuto alla vendita dei servizi accessori, del mcrchandisig,e di tutto quel contorno di paraphernalia del consumo culturale che ormai appare normale e irrinunciabile, va detto che in primo luogo confronti veri e propri non sono possibili, dal momento che fino ad ora i musei non avevano attivato questi servizi; in una parola, non si può ancora dire se i risultati attuali sono l’inizio di un trend in ascesa, l’effetto di un nuovo mercato che andrà ad affìevolirsi nel tempo, o il segno di un andamento costante dei prossimi anni; inoltre, va osservato che il ricavo dalla vendita di questi servizi mostra da una parte un notevole margine di disponibilità a pagare da parte dei consumatori, margine che finora non era evidentemente sfruttato, ma evidenzia anche l’impossibilità di coprire interamente i costi di gestione con ricavi operativi.
Il sillogismo che stava alla base di questa illusione era il seguente: all’estero (leggi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) i musei sono in pareggio, quando non in attivo; all’estero vengono venduti panini e spillette in ampi ed eleganti coffee-bar e bookshop; ergo, apriamo alla vendita dei servizi accessori e andremo anche noi in attivo. L’anello mancante di questo ragionamento è stato la mancata osservazione di una fondamentale caratteristica istituzionale che differenzia il mondo anglosassone da quello italiano: intanto, la forte propensione al volontariato che rende normale per un cittadino effettuare delle donazioni anche alle istituzioni culturali della propria città; poi, il maggiore interesse per le (numerose) imprese con un bacino locale o regionale a costruirsi una reputazione anche attraverso contributi alle istituzioni culturali; soprattutto, la maggiore rarità e la conseguente centralità di istituzioni culturali anche di medie dimensioni, che in molte città sono una sorta di fiore all’occhiello di tessuti urbani del tutto privi di segni visibili della cultura, a fronte dell’inevitabile “schiacciamento” operato nel nostro paese da istituzioni di dimensioni e rilevanza internazionali nei confronti di una miriade di istituzioni medie e piccole che non riescono ad attrarre contributi volontari ne individuali ne societari.



Il museo, il suo pubblico, i suoi mecenati

Tutto ciò, tuttavia, non implica che in Italia si sia fatto tutto quello che è possibile per attrarre finanziamenti “freschi” nelle casse dei musei Al contrario, se c’è un campo in cui le istituzioni culturali italiane appaiono ancora indietro - anche rispetto alle imprese manifatturiere del nostro paese - è quello della comunicazione strategica e del rapporto con il mercato e il pubblico. Più che attraverso l’esenzione fiscale, che pure è indispensabile ma rappresenta una condizione necessaria ma non di per sé sufficiente, bisognerebbe cominciare a far sapere che un museo esiste, che contiene delle opere d’arte, che è proprio dietro l’angolo, che il suo biglietto d’ingresso costa quanto una pizza margherita, e che non è poi così tedioso aggirarsi per le sue sale.
Certo, l’impatto dell’attività formativa si verifica di norma su un orizzonte temporale medio-lungo; ma proprio questo dovrebbe indurre il settore pubblico e le istituzioni culturali a intraprendere da subito un azione estensiva e capillare di formazione del pubblico di domani, in modo da porre delle basi non effimere alla sopravvivenza finanziaria e culturale dei musei nei prossimi decenni.
D’altra parte, si deve anche tenere conto del fatto che la fonte dei finanziamenti alle istituzioni culturali poterebbe non rappresentare un elemento dirimente nell’indirizzare le scelte e le strategie dei gestori; si pensi ad alcune delle mostre di Palazzo Grassi, emblema dei musei privati italiani, che apparivano caratterizzate da una forte valenza didascalica ma risultavano in sostanza povere di valore culturale; o, viceversa, si pensi all’attività del Teatro Massimo di Palermo, che riceve notevoli iniezioni di contributi pubblici sia dallo stato che dalla regione Sicilia; pur essendo stato finora del tutto deresponsabilizzato sul piano finanziario, questo ente ha prodotto delle stagioni molto innovative cui critica e pubblico hanno unanimemente riconosciuto un elevatissimo valore culturale. I binomi pubblico-spreco e privato-efficienza vacillano più d’una volta, a ben guardare, e si capisce come molto dipenda dal management, dalle propensioni individuali dei singoli manager.
Il fatto che i manager esercitino una determinante influenza sulle scelte e sulle strategie istituzionali appare del tutto normale, in tutti gli ambiti. Si pensi, ad esempio, che nella maggior parte dei casi di “mecenatismo” aziendale, i casi cioè in qui le imprese private stabiliscono di erogare un contributo finanziario a istituzioni culturali, è la passione individuale dell’amministratore delegato a determinare la scelta stessa. Il che lega le sorti finanziarie dell’istituzione culturale a mutamenti soggettivi, rendendola paradossalmente ancor più precaria. Sul piano delle istituzioni culturali, d’altra parte, va detto che molti direttori artistici e curatori finiscono per ritenersi “proprietari” dell’istituzione stessa, finendo per trascurare l’esigenza di comunicazione e attrazione verso il pubblico; così i depositi dei musei restano chiusi (pur in presenza di aree del territorio in cui una collezione sia pure minore potrebbe suscitare l’interesse del pubblico, e attrarre una domanda potenziale altrimenti sommersa), gli allestimenti teatrali marciscono nei depositi, in una parola così si spreca non per eccesso di risorse finanziarie utilizzate, bensì per difetto di risorse culturali messe in movimento e immesse nel “mercato”.



Musei e cultura in un’epoca di trasformazioni

Il punto, in conclusione, non è quello di sostituire un’etichetta con un’altra. Al contrario, sarebbe opportuno riflettere sul bisogno di flessibilità che il settore culturale esprime con sempre maggior forza, per riuscire a sopravvivere in un momento storico in cui al restringersi dei bilanci pubblici non ha corrisposto, come pure si sperava, una crescita di interesse da parte dei possibili finanziatori privati. Flessibilità significa allentamento dei molteplici vincoli che oggi impediscono una effettiva libertà delle scelte strategiche, artistiche e produttive da parte delle istituzioni finanziarie, senza per questo eliderne la responsabilità. L’economia mostra con chiarezza di preferire le ibridazioni, le contaminazioni che superino la rigidità delle definizioni e che al contrario sappiano trarre le caratteristiche più efficaci dal settore pubblico, da quello privato, dal volontariato. È quanto sta avvenendo, ad esempio, nell’ampio settore della fornitura di servizi pubblici locali, in cui la necessità dì separare proprietà, gestione e controllo ha condotto all’identificazione ed all’elaborazione di nuove forme contrattuali che prevedono una partecipazione modulare e responsabile di enti di diversa natura e dal diverso peso finanziario. Questa è la strada che tendenzialmente il settore culturale deve riuscire a imboccare, liberandosi dall’incantesimo dell’asservimento concettuale a un solo settore dell’economia. Le grandi dimensioni, la forza e la potenza possono risultare dannose in un’epoca di grandi trasformazioni. Spesso sono l’agilità la snellezza e la flessibilità a premiare. Se non è piacevole definire “carrozzoni” i musei e i teatri del presente, potrebbe essere ancora più doloroso dover ricordare, domani, musei e teatri di un’epoca ormai passata come i dinosauri di un settore culturale ormai estinto.

Michele Trimarchi
Eccom - Centro Europeo per L’Organizzazione e il Management Culturale
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E-mail: eccom@tim.it

Questo testo propone l'intervento di M.T. al seminario Il museo imprenditore organizzato dal prof. Francesco Mauri nel 1997/98 all’interno del laboratorio tematico per il quinto anno del Corso di laurea in disegno industriale del Politecnico di Milano, Facoltà di architettura.