Attraversare le contingenze allargando le prospettive

18/11/2010
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Fare museo: un invito al pubblico


Provare a ripensare lo spazio di quello che è stato il setificio più antico d'Europa guardando al territorio che lo accoglie. Una sfida per le curatrici di a.titolo, da qualche mese alla direzione del Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee di Caraglio. Dall'arte pubblica al museo perchè "In Italia ci sono evidenti ritardi delle politiche culturali; troppo spesso si dimentica che il museo è un luogo pubblico e che la sua missione è quella di conservare e promuovere il patrimonio del pubblico" come affermano in questa intervista Lisa Parola e Francesca Comisso.



Costruzione collettiva del Château d'eau di Olivier Grossetête al Filatoio di Caraglio, sabato 9 ottobre 2010. Scatole di cartone assemblate con nastro adesivo. Foto di Francesca Cirilli





Costruzione collettiva del Château d'eau. Foto di Francesca Cirilli





Il Château d'eau di Olivier Grossetête, scatole di cartone assemblate con nastro adesivo. Foto di Francesca Cirilli





Vista della project room di Irina Novarese, Il terzo soggetto. A sinistra Inter-Subject, 2009, video, DVD, 7’40”; a destra Il terzo soggetto o: Chi era la signora Furno?, 2007-2009, album fotografici. Foto di Francesca Cirilli





Una delle sale di Grossetête, Sans gravité. A sinistra Pont suspendu, le pas-sage, 2007, balsa, spago, sabbia, palloni a elio; a destra L'esprit du temps, 2007, stampa fotografica digitale su alluminio. Foto di Francesca Cirilli





Vista della project room di Andras Calamandrei, You don’t have to be sure. Particolare di Untitled #3 dalla serie Lombroso, 2010, ricamo su tessuto. Foto di Francesca Cirilli





Cesare Viel, Solo ciò che accade, quando accade se accade, tappeto Amrapur in pura lana Himalayana filata e tessuta a mano. Prodotta dal CESAC dell'Associazione Marcovaldo nell'ambito della mostra. Foto di Francesca Cirilli





Vista della project room di Alessandro Quaranta, Con la coda dell’occhio. Videoinstallazione a due canali, HDV, 12’30”. Foto di Francesca Cirilli





Annalisa Cattani e Massimo Marchetti in dialogo con Lisa Parola e Francesca Comisso di a.titolo

Annalisa Cattani: a.titolo e' un collettivo che da anni cura e promuove progetti con istituzioni, pubbliche e private, a livello nazionale ed internazionale, producendo anche pubblicazioni di ricerca.
Oggi, in particolare, lo incontriamo per dare spazio ad una loro nuova attività: la direzione del CESAC, il Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee dell’Associazione Culturale Marcovaldo la quale presenta, al Filatoio di Caraglio, gli indirizzi progettuali di questa inedita direzione.
In occasione della sesta giornata del contemporaneo promossa dall’Amaci, l’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani di cui il CESAC fa parte, al Filatoio di Caraglio e' stato inaugurato il progetto dal titolo "Fare Museo" con due mostre personali e tre project room, anticipati da un workshop. Mi piacerebbe cominciare subito con una domanda: cosa significa “fare museo” piuttosto che “andare al museo”?


Lisa Parola: Il progetto, come diceva prima Annalisa, nasce dall'idea di invitare il pubblico non solo ad andare al museo, ma a "farlo": farlo attraverso le opere ma anche partecipando a workshop, incontri e riflessioni. Il nostro è un invito a trasformare lo spazio espositivo attraverso l’esperienza. Il grande pubblico spesso percepisce il museo, tanto piu' quando è destinato a ospitare arte contemporanea, come un luogo distante. Le nostre linee progettuali mirano a invertire questa direzione. Per Fare museo abbiamo lavorato con cinque artisti (Cesare Viel, Olivier Grossetete, Irina Novarese, Alessandro Quaranta e Andras Calamandrei) per provare a ripensare lo spazio del Filatoio e a guardare il territorio che lo accoglie.

Ad esempio, Grossetete ha realizzato, coinvolgendo 300 ragazzi delle scuole locali, una torre dell’acqua, un segno architettonico semplice ma molto diffuso nella pianura cuneese; un'opera temporanea realizzata con centinaia di cartoni e alta piu' di 11 metri. Ma Fare museo e' un titolo che abbiamo declinato anche in relazione al luogo espositivo: il Filatoio di Caraglio, il setificio piu' antico d’Europa. Un complesso architettonico seicentesco nel quale, fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, lavoravano circa 200 donne. L'ambiente era pieno di fumi, odori, calore. Se oggi appare un luogo aulico, un tempo e' stato uno spazio di lavoro, un lavoro pesante. Le tre opere di Cesare Viel (un’installazione sonora, un tappeto e un disegno di grandi dimensioni) sono state ideate a partire dalla storia e dalla funzione originaria del sito provando a misurarsi con questa memoria: il lavoro, la tessitura, l’acqua, il rumore. Le parole e le immagini dell’arte aleggiano in uno spazio vuoto dove un tempo si lavorava.

Per tornare alla vostra domanda, con Fare museo intendiamo aprire le porte di quel luogo creando una relazione continua tra il dentro e il fuori.
Abbiamo in mente progetti che si sviluppano nel territorio con l'intento di coinvolgere anche le comunita' locali. Ci piacerebbe realizzare mostre e laboratori che rimettano al centro il senso dell’opera dialogando con il territorio, la sua storia, la sua morfologia. Quando parliamo di "fare" museo intendiamo prevalentemente il coinvolgimento degli artisti visivi (questa e' la missione principale del CESAC), ma come sempre accade nella nostra attivita', l'arte sara' messa in relazione con la produzione culturale contemporanea.
Spero di aver risposto alla domanda, ma vorrei aggiungere che la direzione di a.titolo e' iniziata il giugno scorso. Il 27 giugno, nell’ambito della rassegna Giorno per giorno promossa dalla Fondazione CRT per l’Arte, abbiamo presentato due installazioni che rileggevano il Filatoio nella sua funzione originaria. Il tema del lavoro e della colonizzazione sono centrali in Poetic Justice: un'installazione di Tania Bruguera di proprieta' della Collezione La Gaia di Busca. Un corridoio buio lungo quasi 15 metri realizzato interamente con bustine di the. In questo percorso sono posizionati piccoli monitor, punti di luce che proiettano spezzoni di cinegiornali d'epoca coloniale. Accanto a questo lavoro abbiamo esposto le Perruques-architecture di Meschac Gaba, che il giorno dell’inaugurazione sono state indossate da un gruppo di giovani. A partire dal primo appuntamento sotto la nostra direzione abbiamo provato a far dialogare gli spazi del Filatoio con altre geografie e con temi d’attualita'.

Annalisa Cattani: Voi per anni siete state il punto di riferimento per la ricerca sull’Arte Pubblica in Italia. L’Arte Pubblica e' un tema spesso dibattuto e spesso mal definito: coincide col termine Arte Pubblica il site specific temporaneo, quello permanente, l’arredo urbano. Voi siete state tra le prime a declinare l’Arte Pubblica come audience specific o comunque come un'Arte Pubblica che si proponeva di creare dei nuovi committenti, di fare della popolazione la committenza.
L'Arte Pubblica normalmente è una forma d'arte che si occupa e agisce in spazi non deputati, in questo caso voi agite in uno spazio deputato ma come riuscite ad integrare questi due percorsi che avete fatto e come siete riuscite a trasformare un luogo deputato in un luogo dialettico?


Lisa Parola: In Italia ci sono evidenti ritardi delle politiche culturali; troppo spesso si dimentica che il museo e' un luogo pubblico e che la sua missione e' quella di conservare e promuovere il patrimonio "del pubblico". Nelle nostre linee progettuali e metodologiche e', ed e' stato centrale, tessere intrecci tra i luoghi e le persone che li abitano. Il nostro oggetto di lavoro e' l’opera e il senso dell’opera in relazione a una comunità, che può essere il pubblico di un museo o un gruppo di "nuovi committenti": un gruppo di insegnanti, di donne, di ragazzi, come è ad esempio accaduto a Torino per la prima applicazione in Italia del progetto d’arte pubblica ideato dall’artista francese Francois Hers. Gruppi di cittadini si fanno committenti di un'opera d'arte, spesso con una funzione all’interno del loro spazio di vita e di lavoro quotidiani.

Purtroppo, in questi anni, il termine Arte Pubblica e' stato utilizzato spesso in modo poco chiaro. In Germania, Francia, Gran Bretagna vengono utilizzate anche altre definizioni che ci convincono di piu': social art, community art. Quella italiana e' invece una definizione generica ma anche molto diffusa: non c’è piccolo Comune che non voglia la sua piccola opera d’arte pubblica nell'aiuola, nella via o nella piazza principale. Nella nostra pratica crediamo che sia pero' il processo l'elemento centrale del "fare", che si concretizza poi in un'opera d'arte. Nel nostro modo di intendere l’arte pubblica, il senso scaturisce dal modo in cui nasce e si sviluppa un’opera e non solo dove questa viene collocata.
In Fare Museo, una delle linee progettuali proposte da a.titolo è proprio quella di mettere insieme un gruppo di persone con il quale lavorare alla committenza di una mostra da realizzare in futuro. Il tema dell’esposizione non sarà dato dal direttore del museo o dal curatore, ma partirà da una domanda comune: cosa chiediamo all’arte contemporanea, che cosa si vuole affrontare della contemporaneita' attraverso le opere degli artisti?

Massimo Marchetti: Dalla vostra posizione, quindi come operatori ma anche come osservatorio sull'Arte Pubblica italiana, come è cambiata l’Arte Pubblica nel corso degli anni?
Voi agite dal '97, anno in cui vi siete costituite, quindi avete potuto osservare un arco di tempo piuttosto esteso. Si possono notare dei caratteri peculiari in questo lasso di tempo?


Francesca Comisso: Beh sicuramente si'. Nell’arco di oltre dieci anni sono cambiate moltissime cose, anche rispetto all’attenzione delle amministrazioni locali. Direi che e' cambiato poco l’atteggiamento del sistema dell’arte, che raramente si mostra permeabile a pratiche incentrate su processi che si misurano con ambiti diversi dal museo e dalla galleria e secondo logiche economiche diverse da quelle del mercato.
In Italia, intorno alla meta' degli anni '90, la situazione era abbastanza atipica rispetto ai paesi anglosassoni o al nord Europa, dove esistevano programmi specifici e, penso ad esempio alla vicina Francia, una forte tradizione di committenza pubblica. In Italia gli artisti che sentivano la necessita' di agire nella sfera pubblica lo facevano in maniera del tutto autonoma, interstiziale, quando non clandestina e abusiva. Questo ha comportato anche dei vantaggi, perche' molte delle esperienze che si sono prodotte rispondevano a un’estetica "anti-monumento" che privilegiava la dimensione dell'intervento temporaneo, dell’azione effimera e del processo, in grado di intercettare e misurarsi direttamente con chi attraversava o abitava la scena urbana, che si trattasse di passanti, comunita' o gruppi specifici di persone.

Nel frattempo l’Arte Pubblica e' diventata una sorta di cliche alla moda, con ricadute anche problematiche. Come diceva prima Lisa, oramai quasi chiunque vuole che un artista abbellisca la rotonda del paese. Ciò corrisponde a un processo che vede la cultura e l'arte diventare sempre piu' spesso strumenti di marketing urbano, utili nel promuovere le città in una logica competitiva.
L’aspetto positivo e' che questo puo' comportare una maggiore attenzione e, nei casi migliori, ascolto, e offrire anche l’opportunita' di sperimentare nuovi progetti, tenendo pero' sempre in conto gli elementi di pericolo, ovvero la produzione di consenso, la strumentalizzazione del pubblico o degli stessi artisti: tutte cose che sono state messe a fuoco, anche in Italia, nel corso di numerosi convegni e incontri, nei quali va però detto che si ritrovano quasi sempre gli stessi operatori. La maggiore consapevolezza intorno a questi temi, al come, dove e per chi si produce un’opera, rende meno accettabili le ingenuita'.

Massimo Marchetti: Tornando alla mostra; puoi descriverci gli interventi di Cesare Viel, Alessandro Quaranta, Andras Calamandrei e Irina Novarese...

Francesca Comisso: Come dicevamo, abbiamo chiesto a Cesare Viel un progetto context specific per il Filatoio. Da qui e' nata l'installazione sonora Echi di rumori scomparsi per la Sala delle Colonne, uno spazio vuoto e molto suggestivo, nel quale sono ancora visibili i segni del lavoro. In quel luogo le donne lavoravano i bachi da seta, tramite l'acqua riscaldata da caldaie: un'acqua che arrivava fino a 70 gradi. Per questo luogo Viel ha scritto un testo bellissimo, in cui le parole, affidate alla sua voce, sono come il riverbero di quei gesti. E' un flusso di pensieri che si sviluppa in un andamento a tratti ricorsivo, come un inciampo, un viluppo, e si scioglie come i rumori d’acqua, dove i gesti del passato si accordano al ritmo del pensiero di chi parla e di chi ascolta e si muove all’interno di quello spazio. Cesare ha realizzato anche un tappeto che e' esposto nella Sala dei Torcitoi. Il tappeto e' stato realizzato in India e riporta la frase "Solo cio' che accade, quando accade, se accade". La parola, come in tutto il lavoro di Cesare, e' la trama che unisce i diversi spazi del Filatoio in cui sono dislocate le sue opere.

Anche la doppia video proiezione di Alessandro Quaranta, allestita in una delle tre project room, e' un’opera prodotta dal CESAC. Si tratta di un progetto nel quale Quaranta ha coinvolto oltre venti abitanti della Valle di Stura, vicino a Caraglio, in un’azione collettiva che ha trasformato il paesaggio in una costellazione di bagliori luminosi. Piccoli punti di luce che si rispondono uno con l’altro come per effetto di un'eco, in grado di riverberare la suggestione, da cui e' nato il progetto, di pratiche del passato legate alla montagna.
Il lavoro di Irina Novarese riflette sul tema dell’identita' e della memoria. Il titolo e' Il terzo soggetto, ovvero quello che risulta dal rapporto tra il se' e l'altro: l’invenzione di una terza identita' che diviene il territorio di questo incontro. E' un’installazione che ci permette di indicare uno degli indirizzi della nostra programmazione, volto alla creazione di un archivio cartaceo a partire da una ricognizione delle collezioni presenti sul territorio (collezioni anche minime e immateriali) da affidare all’interpretazione di artisti.

Anche i ricami di Andras Calamandrei testimoniano la possibilita' di presentare progetti che affrontano tematiche centrali della nostra contemporaneita' con linguaggi che rimandano a questo luogo e alla suo passato produttivo. Su tessuti floreali per l'arredo, l’artista inserisce in modo mimetico frasi e immagini che rimandano al tema della paura e alla retorica del pericolo con cui viene declinata la percezione delle grandi metropoli contemporanee. Il titolo del lavoro e' "You don't have to be sure" ed e', di nuovo, un modo di affrontare la questione del rapporto con l'altro e con lo spazio pubblico, contrassegnato in questo caso da uno stato permanente di emergenza e allerta.
Infine Olivier Grossetete, un artista francese emergente di cui presentiamo la prima personale in Italia. Lisa parlava della sua performance all’inaugurazione, che ha visto l'innalzamento di una torre alta 11 metri da parte di centinaia di persone, tra cui molti bambini e ragazzi che nei giorni precedenti hanno lavorato per la sua costruzione. Le opere in mostra, installazioni e video, creano un percorso sospeso tra realta' e immaginazione che chiama in causa i meccanismi della percezione: un ponte sospeso, un viaggio in una barchetta di carta, un pozzo senza fondo, una luna trattenuta in un abbraccio e liberata nel cielo.


Il comunicato stampa della mostra "Fare Museo / Making Museum". Fino al 12 dicembre 2010 al CeSAC - Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee, via Cappuccini, 29 - Caraglio (CN)

Il web di a.titolo

Quest'intervista e' tratta da Voices, archivio sonoro di interviste in progress, un progetto del network UnDo.Net realizzato in collaborazione con Humus, programma radiofonico di approfondimento culturale condotto da Piero Santi su Radio Citta' del Capo. Ogni settimana alcuni dei protagonisti della scena artistica contemporanea sono intervistati da Annalisa Cattani e Massimo Marchetti.