Attraversare le contingenze allargando le prospettive

07/02/2011
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Hug dixit


Dubitare è un'attività interessante: il dubbio è sempre opportuno. E, visto che il senso può prendere diverse direzioni, poni la domanda giusta. Ma attenta perché dietro il linguaggio il mondo si dissolve nell'aria, c'è sempre altro all'ombra delle parole... "ce n'est pas ce que tu penses". E il gioco può proseguire planando tra cadaveri squisiti e motti di spirito: botta e risposta con capo e coda (di unicorno) tra due artiste svizzere...



Represent What, 2003




Fatales Statement / Dichiarazione fatale




Don’t take it as read /Non prenderlo come ovvietà




Ergo sum, plexiglass e alluminio




Dummes Zeug (Sciocchezze)




Dummes Zeug (Sciocchezze)




Substitut, lettere tridimensionali in legno usato




What's New Straycat?, veduta della mostra, 2011. Galerie Hubert Bächler, Zürich




Farewell to reason, light-box




What's New Straycat? (particolare)




What's New Straycat? (particolare)




Quante volte devo dirtelo!




What's New Straycat? (particolare)




Stell die richtige Frage!




Chimeron




Irène Hug




Chimere, unicorni e sciocchezze

Una conversazione avvenuta in tarda serata: Barbara Fässler intervista Irène Hug

Lontana anni luce dalle scritte scarne e ridotte degli artisti minimalisti e concettuali americani, Irène Hug ci bombarda, in spazi colmi di oggetti, di pitture e di fotografie multicolor, con messaggi che vanno direttamente al centro. Dotata di un umore sottile, l’artista Svizzera che vive da anni a Berlino, mette in dubbio le nostre certezze sulla possibilità di ipotizzare un mondo obiettivo (e di conseguenza di poterlo rappresentare) e ci invita ad indagare a fondo il vero significato delle cose e delle parole che si nasconde dietro alle apparenze. Soltanto attraverso il dubbio universale che spazza via la superficie del mondo, è possibile una comprensione più profonda e vera della realtà. Una volta messo in discussione tutto il nostro presunto sapere, potremo rinominare le cose e riappropriarci del mondo in un ciclo continuo perennemente in bilico fra il domandare e il rispondere.

Nelle opere di Irène Hug, il linguaggio diventa strumento principale del pensiero e il significato si evince dal suo uso. Le parole che riflettono sul linguaggio stesso, crescono nello spazio e ci bombardano, per farci capire che ogni parola e ogni costruzione di senso è opera dell’uomo e che dietro il linguaggio il mondo si dissolve nell’aria. Magicamente le ombre di una pianta d’ufficio formano delle parole che ci ributtano sul piano dell’illusione: “Don’t take it as read” (“Non prenderlo come ovvietà”). Ciò che rimane, al di là delle ombre, sono “Dummes Zeug” (“Sciocchezze”), “Fatales Statement” , (“Dichiarazione fatale”) oppure nel migliore dei casi, un “Substitut” : il linguaggio pensato come ciò che sostituisce l’oggetto che denota, oppure l’arte considerata come sostituto di un sostituto, piuttosto che come copia di una copia.


Barbara Fässler: Il mondo è una chimera, oppure un’invenzione dell’uomo?

Irène Hug: Non so se il mondo sia una chimera, ma quello che so di certo è che è un’invenzione dell’uomo. In quanto essere umano vedo il mondo dal mio punto di vista; tutto ciò che percepiamo e pensiamo si riduce sempre ed esclusivamente all’ottica umana. Il mondo lo posso vedere soltanto dalla mia prospettiva di essere umano; una tigre o una lumaca vedono probabilmente un altro mondo.

B.F.: Quindi il mondo non è un miraggio?

I.H.: Il termine miraggio ci invita a chiederci se una cosa è vera oppure è solo un’invenzione. Io tenderei, invece, a dire che tutto è un’invenzione.

B.F.: Per questo sotto il tuo unicorno c’è scritto “ergo sum” (dunque sono)?

I.H.: Nel momento in cui invento e creo l’unicorno, questo esiste davvero. In particolare questo specifico unicorno è di plexiglass e alluminio.

B.F.: Suppongo che il fatto che la tua scultura che forma la parola “Dummes Zeug” (“Sciocchezze”), sia proprio accanto al tavolo del tuo gallerista, non sia casuale. Cerchi di dare una fiancata al mercato dell’arte, alla scena artistica in generale, o addirittura ti riferisci alla tua arte?

I.H.: A questo proposito non posso fare una dichiarazione pubblica, che potrebbe rivelarsi fatale. Lascio che lo commenti il mio gallerista stesso, che ha dimostrato, con una piccola riflessione, di aver capito benissimo il messaggio.

B.F.: Si può dire che l’arte sia una rappresentazione o meglio un sostituto (“Substitut”) della realtà? Mi riferisco qui alla tua scultura che forma questa parola.

I.H.: Posso spiegare che cosa significa questo lavoro “Substitut” per me, ma prendere in considerazione l’arte in generale, è rischioso: è un campo troppo vasto. La scultura è costituita da lettere tridimensionali costruite con legno usato. La scrittura ha per me un valore oggettuale, anche quando è stampata. Non si riduce a essere superficie: è anche un oggetto. Cerco di evidenziare questo aspetto nelle mie opere, dando alle parole una dimensione spaziale e di conseguenza una presenza fisica. Il fatto di riutilizzare il legno conferisce alle lettere un’aria simile a quella di vecchi mobili. Questo effetto di mobilia stagionata si accentua ancora di più dal fatto che le lettere sono impilate come tavoli e sedie (come quando si fanno le pulizie, per capirci). Le parole sono in sé sostituti di ciò che descrivono. La parola “tavolo” non corrisponde esattamente a un tavolo fisico. Le lettere formano dei suoni che offrono un significato quando questi si sommano, come appunto “tavolo” oppure “Substitut”. Ma a differenza di “tavolo”, la parola “Substitut” si costituisce e si sostituisce da sola.

B.F.: Si può dire che la parola è un sostituto per un oggetto o un concetto che denota?

I.H.: Piccola digressione nella linguistica: una parola è costituita da lettere. Le lettere sono dei segni astratti che valgono come suoni. Se questi si mettono insieme nell’ordine giusto formano una parola e quindi un senso, ad esempio “tavolo”. Pertanto, la parola “tavolo” non equivale all’oggetto tavolo, ma, giustamente lo rimpiazza. Nel caso della scultura “Substitut”, il senso è che la parola è un sostituto del concetto di sostituto. Si crea quindi una sorta di “loop” del pensiero. Il concetto non equivale all’oggetto e l’immagine di un oggetto non equivale alla parola che lo denota. Dunque la domanda è: che cosa rappresenta cosa? Ecco un motivo ricorrente nel mio lavoro: Cosa rappresentano i segni?

B.F.: La scrittura rappresenta la realtà?

I.H.: Certo! La scrittura è reale; inoltre rappresenta l’idea di ciò che descrive.

B.F.: Un sostituto materiale o immateriale? Una copia oppure un’illusione? In una delle tue opere c’è scritto: “de omnibus dubitandum est”. Dobbiamo davvero dubitare di tutto? E se sì, che cosa rimane del mondo e di noi dopo lo scetticismo radicale? Nemmeno la ragione riesce quindi a salvarci? Come si legge nella tua light-box “Farewell to reason”...

I.H.: La mia riflessione non va così lontano, questa è la tua interpretazione, e va benissimo. Ti sposti nel contesto filosofico.
Nelle mie opere fotografiche, modifico con Photoshop gli slogan pubblicitari che trovo in giro sui muri. In una di queste scene di strada appare, non a caso, questa frase, che suggerisce di dubitare di tutto. Non so il latino e pertanto ho capito come primo impatto soltanto “Omnibus” (in Germania si usa per autobus, ndr.) e ciò mi ha fatto molto ridere. Chiaramente soltanto chi capisce il senso della frase, può intendere che si potrebbe riferire alla mia opera in quanto tale, visto che manipolo le frasi e presento di conseguenza dei messaggi falsificati. L’irritazione iniziale diventa allora uno spunto che ci porta a dubitare della veridicità in generale e che ci rivela, dopo un’osservazione accurata, il senso dell’opera. Di conseguenza non si deve seguire la freccia e abbandonare la ragione!

B.F.: Siamo quindi invitati a dubitare della possibilità di una rappresentazione veritiera o più in generale dell’obiettività della fotografia?

I.H.: Penso che lo facciamo già da tempo, per lo meno da quando esistono le nuove possibilità dell’era digitale. In un altro quadro si legge una frase che suggerisce quella direzione: “Cos’è la fotografia?” (“Was ist Photographie?”) scritto sopra un negozio per articoli di fotografia. Dubitare è un’attività interessante: è la condizione del pensare o dell’analizzare, una bella virtù occidentale, già dall’antichità e di nuovo dal Cinquecento. Il dubbio è sempre opportuno. Davanti ai miei lavori possiamo chiederci di che cosa dovremmo dubitare: del logo della ditta, degli slogan pubblicitari, della provenienza dei prodotti, della storia dell’impresa? Si può leggere il dubbio su vari livelli: filosofico, esistenziale, reale, oppure giustamente riguardo l’arte in quanto tale. Applicare il dubbio all’arte significa concretamente mettere in questione la verità e l’obiettività di una qualsiasi rappresentazione o espressione artistica.

B.F.: Cerchi di provocare, con le tue frasi esistenziali e sconvolgenti, oppure vorresti liberare lo spettatore dalla sua esistenza passiva e incitarlo a riflettere attivamente?

I.H.: Quando lo spettatore percepisce che c’è qualcosa di fastidioso che non si sposa con il resto dell’immagine - ad esempio una frase francese in una fotografia del Sudamerica - allora nasce un sospetto. Attraverso questo momento di irritazione aumenta l’attenzione e si cominciano a cercare altre stranezze. Come cani segugi si cercano indizi per risolvere l’enigma. Questo è proprio il momento che m’interessa: ad esempio cercare in Wikipedia chi era Roxelane. Cosa avrà pensato il parrucchiere turco? (sulla foto “Hidden Woman”)

B.F.: Che cosa ti aspetti dallo spettatore? Cerchi di esaminare la sua capacità di attenzione e di osservatore in un gioco simile al “cercate le uova di Pasqua”. Giustamente, come si legge in una fotografia “Attention, maintain tention” (“Attenzione, mantieni la tensione”), la tensione della curiosità e apertura di tutti i sensi come condizione di ogni pensiero e conoscenza. In un’altra opera leggiamo: “On n’a pas fini d’avoir tout vu.” (Non si ha finito di aver visto tutto”).

I.H.: Non mi aspetto nulla dallo spettatore. Sta a lui decidere come comportarsi, ma più osserva in modo preciso, più può scoprire e vivere, più si divertirà e più conoscerà. Più l’osservatore si coinvolge, più riceverà in cambio. Naturalmente spero che le varie relazioni di senso siano comprensibili per lo spettatore, tuttavia non esiste mai soltanto un punto di vista, ma ognuno legge i testi in modo personale. Impostare e mantenere lo spazio interpretativo più aperto possibile è parte integrante del mio operare.

B.F.: Si tratta quindi di suggerire una riflessione autonoma e personale allo spettatore?

I.H.: Certamente, la proposta è questa, ma non vuole essere in nessun modo un compito didattico. È piuttosto un gioco, con lo scopo di trovare tante varianti di lettura. Ciascuno interpreta il significato delle singole frasi o i loro rapporti secondo la sua storia personale, la sua cultura, religione o lingua.

B.F.: Come procedi? Da dove vengono le tue frasi? Sono citazioni di libri, strappi di conversazioni, deviazioni di proverbi o luoghi comuni? Oppure si tratta di creazioni tue?

I.H.: Le frasi provengono da una mia personale collezione di testi e toccano vari ambiti: linguaggio quotidiano, pubblicità, letteratura o filosofia. La pubblicità a volte è quasi filosofica, esistono degli slogan eccellenti. Dipende sempre in quale contesto si leggono i messaggi. Nei miei lavori la situazione nella quale si innesta una frase è importantissima per la comprensione del suo senso.

B.F.: Si creano quindi diversi livelli di senso rispetto al luogo?

I.H.: Sì, il senso può avere diverse direzioni, ma spesso si tratta del linguaggio stesso. In questo caso il significato è autoriflessivo. Da un lato utilizzo i messaggi diretti della pubblicità e dall’altro creo un gioco di relazione tra le frasi che si trovano vicine e che possono di conseguenza essere lette in rapporto tra loro. Un buon esempio è lo slogan “Progettiamo i vostri pensieri”, (“Wir planen Ihre Gedanken”): questa frase, che proviene da un annuncio relativo a un oggetto di design, può essere spaventosa. Chi sta parlando e a quali pensieri ci si riferisce? E' un “Big Brother” che dirige i nostri pensieri? Nel caso della pubblicità non prendiamo più sul serio il messaggio che veicola, ma è comunque impressionante come i maghi del marketing cerchino di dominare il meccanismo della manipolazione. Volevo sottolineare questo: più le frasi sono forti, più duro sarà l’impatto sull’osservatore.

B.F.: A contrario di Jenny Holzer o Barbara Kruger, che lavorano come te con slogan esistenziali e politici e che hanno sviluppato uno stile visivo inconfondibile, i tuoi messaggi prendono le più svariate forme materiali e visive: scultura, installazione, pittura, fotografia. Spesso si crea un legame tra il significato della parola e il senso del materiale, a volte contraddicendolo, a volte sposandolo. Un esempio è l’oggetto “Chimeron”, una derivazione tua della parola “chimera”, che significa miraggio, combinato con un animale di fantasia, il tutto ritagliato da un legno scuro e pesante. Questa scelta comporta un contrasto estremo tra l’immaterialità dell’immagine illusoria e la materialità del legno.

I.H.: Esistono tante differenze con Jenny Holzer o Barbara Kruger, perché le due artiste americane rivolgono la loro attenzione sul contenuto del messaggio, mentre la mia riflessione si riferisce anche al linguaggio stesso. Si creano così dei livelli di significato complessi, ai quali si aggiunge anche il materiale e la bi- o tridimensionalità dell’oggetto. Il materiale si percepisce sia a livello visivo che tattile e questo influenza fortemente come ci appare la scrittura e come la leggiamo. Nella mia opera, si è costituito così un gioco raffinato tra confezione e contenuto, tra apparenza e significato.

B.F.: Qual è il ruolo dell’estetica artistica? I tuoi oggetti sono sempre molto pittorici e belli.

I.H.: Il primo impatto con i lavori deve essere molto forte: oggetti grandi, tonalità sgargianti, colori combinati secondo un preciso progetto. Da pittrice conferisco una grande importanza all’apparenza visiva e all’esperienza ottica. Attraverso questo primo impulso visuale, si seduce l’osservatore e lo si invita a prendersi il tempo per guardare i lavori più a lungo e per leggere le frasi. Dapprima ci si imbatte nel lato estetico dell’opera, in un secondo momento si giunge al contenuto e al suo significato.

B.F.: Estetica e bella superficie come “droga d’iniziazione”…

I.H.: Sì, esatto, un’espressione forte. Nel nostro mondo sovraccarico, abbiamo bisogno di stratagemmi e strumenti per farci sentire.

B.F.: Nasci come grafica. Ora però utilizzi la tua abilità tecnica per sovvertire la logica della pubblicità, orientata unicamente alla vendita, e modifichi i messaggi trovati in un tuo commento esistenziale o filosofico. Come vedi il rapporto tra la forma di comunicazione diretta della pubblicità e quella indiretta e ambigua dell’arte che più che influenzare, cerca di spingere a pensare?

I.H.: Il lavoro dello spettatore consiste nell’orientarsi in questa giungla di significati. Di solito riconosciamo la pubblicità senza esitazione se ci troviamo in uno spazio pubblico. Non si riflette granché, poiché il testo rinvia direttamente a un prodotto o a un servizio. I miei testi, invece, parlano di valori universali del pensiero. A volte capita di incontrare un pensiero filosofico anche nella pubblicità, come ad esempio “The world is our invention” (“Il mondo è una nostra invenzione”), del quale parlavamo all’inizio. Nel contesto dell’arte si può recepire un testo pubblicitario in maniera diversa rispetto a quando si è in strada: cambiano le aspettative e la qualità dell’attenzione.

B.F.: Il testo diventa allora una sorta di Ready-made? Decontestualizzato dalla vita quotidiana e tramite spostamento nel contesto artistico dichiarato opera d’arte?

I.H.: Rispetto al funzionamento del meccanismo, questo pensiero è sicuramente giusto, ma non sono Ready-made puri, perché sono stati manipolati e cambiati.

B.F.: Sono una sorta di Ready-made “preparati”?

I.H.: Sì, così può funzionare.

B.F.: Da trent’anni vivi all’estero, prima ad Amsterdam, poi dalla caduta del muro a Berlino. In che modo la tua mobilità permanente e la tua esistenza precaria da artista influenzano i tuoi lavori?

I.H.: Nella mia vita ho sempre cercato la sfida, amo gli spazi urbani, nei quali c’è tantissimo da vedere, perché in strada succedono un sacco di cose. Penso che ciò che si ama, lo si trova, perché lo si cerca. Scegliamo noi da che cosa vogliamo essere influenzati.

B.F.: Ho fatto le “domande giuste”? (In una delle fotografie si legge: “Poni la domanda giusta”, “Stell die richtige Frage”, Ndr. )

I.H.: Poiché a nessuno a cui si spiega qualcosa, riesce a connettere questa cosa spiegata con ciò che è veramente chiaro, le spiegazione chiare non sono chiare.

B.F.: Allora potremmo ricominciare da capo a conversare di miraggi e chimere.

I.H.: Certo: “Ma non è ciò che pensi” (“Mais ce n’est pas ce que tu penses”.)


Barbara Fässler, 20 gennaio 2011

Editing Giovanna Canzi
Il testo sarà pubblicato in versione inglese e lettone nella rivista Studija di Riga, numero aprile-maggio



Irène Hug
What's New Straycat?
Mostra personale
dal 15 gennaio al 5 marzo 2011
Galerie Hubert Bächler
Marmorgasse 9, CH–8004 Zürich
www.galerie-hubert-baechler.ch
www.irenehug.com



Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.

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