Attraversare le contingenze allargando le prospettive

25/06/2009
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Marco Scotini

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Elvira Vannini/Matteo Lucchetti: Pensi che la direzione o la curatela di una Biennale possa permettere la costruzione di uno spazio per il dissenso e la sperimentazione di nuovi formati culturali, rispetto alla deriva mainstream del fenomeno di espansione delle Biennali stesse in ogni parte del mondo?
Nella tua opinione in che modo le Biennali cosiddette "post-coloniali" o periferiche, hanno alterato il format espositivo? Possono avere ambizioni geopolitiche? Quali scenari culturali tracciano?

Marco Scotini: Se è vero che le Biennali ormai diffuse ad ogni latitudine hanno rappresentato una alternativa alle forme tradizionali dell’esposizione o della curatela, non è altrettanto vero che, di per sé, possano più garantire una fuoriuscita dalla cultura mainstream, se con questa si intende quella dell’industria culturale. Ma neppure una fuoriuscita dalla società della sicurezza come è, sempre più, quella attuale.
Bisogna fare attenzione. I dispositivi culturali delle società del controllo come la nostra mirano a contenere le funzioni intellettuali e creative all’interno della cornice del capitale. Addirittura utilizzano e canalizzano i nuovi modi di espressione nei processi di valorizzazione capitalista e nel governo dei pubblici e della società.
Le imprese del mercato e le istituzioni dello Stato sono sempre pronti a monetizzare i desideri artistici e culturali del pubblico piegando le biennali a imprese destinate ad alimentare l’industria del turismo e quella del tempo libero o, addirittura per vendere stili di vita occidentale su scala globale.
Le città-museo da un lato (dove si conserva la cultura) e le città-esposizioni dall’altro (dove si promuove la cultura) ne sono un esempio. Tutto è tollerato e incentivato se non intacca il regime di proprietà come tale. E le forme con cui si continua a proporre l’arte nelle sue vesti neo-arcaiche - per dirla con Lazzarato - non minacciano certo le divisioni classiche del lavoro: l’autore/artista, il curatore, la proprietà intellettuale, l’opera, lo spettatore, il collezionista, il mercato battuto a suon di aste, l’ebbrezza delle fiere d’arte, etc, etc.
Con questo non voglio negare l’importanza di certe edizioni recenti di biennali o di documenta o mostre che hanno problematizzato formati espositivi, modelli documentativi o hanno immaginato modelli di spazi operativi, educativi, assembleari, alternativi agli spazi contemplativi in senso classico.
Voglio dire di più. Credo infatti che tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio fare i conti con l’emersione di pratiche complesse ed estese ad uno scenario post-coloniale da un lato, fare i conti con la moltiplicazione dei dispositivi di comunicazione dall’altro, abbia portato ad inaugurare nuovi approcci e radicali che la macchina del capitale non avrebbe a lungo tollerato.
Credo che ci troviamo in una classica contraddizione e schizofrenia da periodo di transizione. Intendo dire che in tutti gli ambiti le forze propulsive, emancipative, immaginative sono tali da richiedere un’altra distribuzione del sensibile a cui il capitale può rispondere solo con l’opposizione. Non voglio ora parlare del tipo di opposizione.
Voglio solo dire che la posta in gioco è alta e che ci troviamo di fronte una minaccia che non possiamo ignorare.

Elvira Vannini/Matteo Lucchetti: In una situazione, su scala internazionale, dove la produzione culturale è spesso sottoposta a pratiche di potere che agiscono attraverso l'istituzione, come può la pratica curatoriale mantenere il suo potenziale critico e trasformativo?

Marco Scotini: La pratica curatoriale può assolutamente mantenere il suo potenziale critico e trasformativo a patto che si accorga che lo spazio dell’arte è uno spazio sotto controllo e fortemente disciplinato.
E’ strano che mentre vengono esposte molte opere che denunciano o mettono in scena sistemi contemporanei di repressione e controllo, lo spazio dell’arte non venga messo in discussione e venga ancora considerato uno spazio del tempo liberato.
Sarebbe importante cominciare a capire quanto invece - senza neppure scomodare i poteri esogeni di cui ho parlato prima - lo spazio espositivo è un dispositivo d’assoggettamento, quanto definisce ciò che può essere visto, quanto censura, quanto regola il visibile nei suoi modi di condizionamento, quanto include o esclude, che tipo di discorsività mette in atto, quale divisione dei ruoli conserva, quali interazioni con lo spazio mette in scena, etc.  
Altrimenti ci si attiene a ciò che è acquisito, consolidato e chiamiamo ciò con il nome di realismo. In realtà non si tratta affatto di limitarsi alle realtà osservabili ma alla logica “poliziesca” che ordina di fare solo ciò che è consentito fare, distribuendo funzioni, tempi e spazi.

Elvira Vannini/Matteo Lucchetti: Relativamente alla tua esperienza diretta, come si intrecciano queste dinamiche di produzione culturale nel tuo lavoro?

Marco Scotini:  La mia esperienza ha incrociato e voluto incrociare i processi educativi come elementi privilegiati del sistema dell’arte. Non vedere le dinamiche curatoriali o espositive separate dai processi produttivi ma scoprire entrambi fondati su modelli educativi, permette di decostruire ogni volta gli ordini visivi come regimi ideologici.
Tutto ciò permette di mostrare come oppressori ed oppressi partecipano alla pedagogia della loro emancipazione o, meglio, della loro liberazione.   


Biografia
Marco Scotini è un critico d’arte e curatore indipendente con base a Milano. Collabora regolarmente con Flash Art ed altri magazine d’arte contemporanea; è inoltre direttore di No Order Magazine – Art in a post fordist society. Suoi testi ed interviste sono apparsi in Springerin, Domus, Moscow Art Magazine, Brumaria ed in numerosi cataloghi. È co-curatore del progetto “The Utopian Display”, serie di conferenze internazionali sui modelli espositivi contemporanei. Le sue ricerche curatori ali hanno a che fare con i temi dell’arte e politica, dell’arte, attivismo e società.
Fra le sue mostre recenti ricordiamo “Cities from Below”, Fondazione per l’arte Teseco, Pisa 2006-2007 e “Der Prozess. Collective memory and social history”, Prague Biennale 3, Praga 2007.
È inoltre curatore del progetto ongoing “Disobedience” (Kunstraum Kreuzberg/Bethanien, Berlino, 2005; Sala de Arte Publico Siqueiros, Città del Messico, 2005; Vanabbe Museum, Eindhoven, 2007; Badischer Kunstverein, Karlsruhe, 2008; Nottingham Contemporary, Nottingham, 2008, HDLU, Zagabria, 2008; Riga Art Space, Riga 2008, MNAC, Bucarest, 2009). Ha curato importanti personali in istituzioni pubbliche ed in gallerie private con Meschac Gaba, Gianni Motti, Anibal Lopez, Ciprian Muresan, Marc Bijl, Ion Grigorescu, Regina José Galindo, Oliver Ressler, Michel Verjux, David Ter-Oganyan, Iosif Kiraly e molti altri. Marco Scotini è anche direttore dell’archivio di Gianni Colombo a Milano, per il quale ha curato le mostre a Palazzo Reale a Milano, 2006, e per la Neue Galerie di Graz, 2008.


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