Attraversare le contingenze allargando le prospettive

04/10/2015
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Flettere l'unidirezionale

Il Forum dell’arte contemporanea italiana, che si è svolto recentemente a Prato, offre a Emilio Fantin l'occasione per riflettere sull'asservimento concettuale nei confronti di una certa visione del mondo e sull'aridità imposta dall'approccio strumentale...



























































Il Forum dell’arte contemporanea italiana ha visto raccogliersi a Prato un folto ed eterogeneo gruppo di persone, soprattutto di addetti ai lavori, per discutere di varie questioni inerenti all’arte.
Tutto ha funzionato bene e questo ci rivela il grande sforzo logistico che è stato fatto. Grazie all’organizzazione del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, diretto da Fabio Cavallucci, all’equipe che l’ha coadiuvato, alle istituzioni che hanno appoggiato l’iniziativa e al lavoro di tanti, tra cui molti volontari, si è offerto ai presenti una straordinaria possibilità: quella di ritrovarsi, confrontarsi, rivedersi, scambiare opinioni, vivere assieme per tre giorni.

Come partecipante al forum ne ho tratto alcune impressioni. Queste riflessioni potrebbero facilmente essere estese a un ambito più generale, perché riguardano l’approccio concettuale, i modelli e un possibile orizzonte a cui guardare per argomentare sull’arte e sulla cultura.
La volontà di risolvere i problemi che affliggono istituzioni, strutture, infrastrutture, di mediare i rapporti tra pubblico e privato, di dare maggiore efficacia al sistema formativo e altro ancora, si scontra con una intricata rete burocratica, con la continua riduzione di fondi, con una visione politica a volte miope rispetto alla funzione che l’arte dovrebbe avere. Ciononostante nel forum si è inteso affrontare moltissime problematiche e cercare anche di dare delle prime indicazioni per risolverle.
Tutti gli invitati hanno avuto la possibilità di intervenire se non altro per pochi minuti. La griglia concettuale che sottendeva al modello di lavoro comune, si esplicava attraverso un processo di sintesi che, partendo da tavoli condivisi portava i coordinatori dei tavoli stessi, attraverso una serie di passaggi, all’atto finale, in cui era loro chiesto di elencare delle proposte.
Questo è un modo di procedere adottato nei processi decisionali aziendali o anche in ambito di ricerca accademica. Si parte da una griglia data, alla cui tempistica bisogna adattare il proprio intervento, ricorrendo a una sintesi estrema, in modo da non cadere in inutili ripetizioni o orpelli concettuali. Nasce dall’esigenza di essere pragmatici per sconfiggere la mancanza di potere decisionale e di scelta che spesso emerge da infinite e laboriose sedute discorsive.
Il prezzo da pagare è quello di assumere codici automatici di controllo a scapito della libertà dei nostri pensieri e di mantenere un sistema di riferimento concettuale che li cristallizza in forme morte.
L’impulso che sta alla base di questo tipo di griglia può essere descritto con una parola: finalizzazione.
Volontariamente e coscientemente si costruiscono procedure decisionali, di sintesi, che però non danno adito al fluire organico di processi vitali. Si esclude la ricchezza di sfumature, coloriture, sapori che caratterizza l’ambito della “conversazione” e igienicamente si sterilizza il campo da intrusioni casuali e imprevisti. Si limita la possibilità d’interpretazione e di ricostruzione del detto da parte dell’ascoltatore, costretto a eludere immagini metaforiche o poetiche che lo attraversino, e gestire la propria attenzione con le stesse modalità sintetiche.

Fortunatamente in alcuni tavoli ci si è ribellati e si è proceduto con un respiro più ampio e profondo. Ma questo non cancella l’attitudine alla riduzione, a schematismi razionali, a una certa aridità immaginativa imposta da un approccio strumentale.

L’impellenza di determinare un obiettivo, di elaborare un modello che necessariamente produca qualcosa o crei l’illusione di produrre qualcosa, “produce” invece una serie di automatismi che portano all’applicazione del modello stesso senza interrogarsi su di esso, dandolo per scontato.

Il contenitore che ne deriva, all’interno del quale dovremmo essere asetticamente protetti da pericolose influenze, riflette l’asservimento concettuale che abbiamo nei confronti di alcuni paradigmi che sorreggono la nostra visione del mondo. Parlo per esempio del principio di causa e effetto (da cui l’ossessione della finalizzazione), della distinzione tra soggetto e oggetto e della conseguente idea di oggettivazione della realtà.
Questo è tanto più paradossale se si pensa che, nel frattempo, già da quasi un secolo, la fisica ha elaborato dei modelli concettuali diversi, in cui il principio di causa – effetto non è più paradigmatico, dove le nozioni di misurazione e osservazione degli elementi non possono non tenere conto del soggetto (l’osservatore), provocando l’impossibilità di accertare la loro presunta oggettività.
Non è vero che non esiste più l’avanguardia, essa fiorisce nei laboratori di ricerca dei fisici.
Se qualcuno intende obiettare che il microcosmo è una realtà a sé stante dove le particelle subatomiche hanno comportamenti autonomi e indipendenti, si può controbattere che gli studi astrofisici lavorano proprio sulla ricomposizione del nesso tra microcosmo e macrocosmo, così come i nessi cosmologici sono stati fondamentali per diverse culture fin dall’epoca precristiana.

L’atteggiamento riduzionistico che tende quindi alla finalizzazione per sintesi e che porta all’individuazione di problematiche di singoli cluster, cioè di singoli aspetti, può essere affrontato in altri modi. Tanto più nell’ambiente artistico, che è privilegiato perché non presuppone confini disciplinari e dovrebbe permettere ai suoi frequentatori di spaziare tra ragione, intuizione e sensibilità.
Non si potrebbe curare neanche un’unghia di un piede se non si avesse la possibilità di mettere in relazione quell’unghia con il resto del corpo e se non vi fosse una concezione dell’intero organismo umano. E’ inutile affrontare qualunque problematica se non si ha una visione complessiva.
Prendiamo per esempio il tema della formazione: prima di risolvere singoli aspetti, bisogna capire cosa s’intenda con questa parola. Come dice il mio amico Anteo Radovan, è una parola che deriva dal lessico militaresco. Oggi più che mai, formazione vuol dire informazione, educazione al ruolo, conformità alle disposizioni, strumento economico, sviluppo di facoltà tecniche e tecnologiche.
La sensibilità e l’amore per la cultura in Italia si stanno deteriorando e questo lo vede anche un cieco. Dobbiamo cambiare impostazione. Azzerare i luoghi comuni e avere un atteggiamento spregiudicato nel proporre altri modelli.
Ci sono modelli di sperimentazione sulla formazione in tutti i Paesi del mondo, molti dei quali si rifanno al principio di “unlearning”, cioè del disimparare quello che ci è stato insegnato. Per contro c’è una forte necessità di approfondire l’aspetto pedagogico, il rapporto con la natura, la biodiversità e la ecodiversità, i rapporti umani e i processi che governano gli organismi viventi, le connessioni tra materia e spirito, i flussi geopolitici e le nuove istanze politico-sociali.

Sul piano dell’elaborazione di processi di apprendimento è importante guardare a esperienze che insistano più sulla maieutica che sull’informazione. Pensiamo per esempio alle lezioni di Roland Barthes al College de France ( 1 ) in cui egli non segue un ordine consequenziale, ma dà adito a uno spazio aperto all’interpretazione. Barthes procede attraverso un pensiero rizomatico che si contrappone a quello gerarchico e lineare, che segue rigide categorie dualistiche. Egli estrae alcune parole da romanzi di grandi autori e dà vita a una trattazione in cui nessi, evocazioni, analogie, vengono interpretate e ricomposte all’interno di un contesto sempre labile e fluido. L’approccio maieutico richiede all’ascoltatore uno sforzo d’interpretazione e ricostruzione dei dati in modo da fare emergere le proprie qualità immaginative, analitiche, intuitive. E’ una modalità che nasce dalla riflessione sul costituirsi delle forme di vita in comune, sul rapporto tra potere, forma e libertà. Una visione idioritmica, dove alla cadenza ripetitiva, ritmo (Cronos), che regola gerarchicamente la vita attraverso il tempo, si intende sostituire rhuthmos, la connessione e la sincronicità (Kairos) tra ritmi e tempi individuali.

Per il tema del rapporto tra pubblico e privato e per tutto quello che concerne l’aspetto economico riguardante l’arte e la cultura è molto interessante guardare alla teoria della triarticolazione ( 2 ) di Rudolf Steiner, dove si afferma l’indipendenza della sfera culturale da quella economica e giuridica. La cultura produce valori immateriali necessari allo sviluppo e all’evoluzione del genere umano. I processi messi in campo per generare idee, immaginari e orizzonti, devono essere indipendenti e non legarsi a nessuna strategia economica.
Anche per i processi esiste una questione estetica. Per non essere falso un processo dovrà essere libero da vincoli e bello. Così come in un dipinto, un processo prende forma attraverso un dialogo di volumi, simmetrie o asimmetrie, una composizione che gioca tra sfumature e cromatismi.
La responsabilità dell’affermazione di questi valori deve essere a carico di ognuno di noi. Se non vi sono organismi pubblici che si attivano, è possibile dare vita a centri privati che raccolgano i contributi che ognuno di noi vorrà versare per la cultura. Una gestione “autonoma” attraverso associazioni gestite da cittadini.

Interessante per me è stato l’intervento di Stefano Velotti, soprattutto quando ha parlato di controllo e non controllo, su cui riverbera la mia analisi su contenitore e contenuto. Il grande contenitore dei significati è il linguaggio, che è la manifestazione del pensiero. “Comune a tutti è pensare” diceva Eraclito, bellissimo e inquietante frammento a due facce, pensandolo come estrema forma di libertà oppure come strumento di controllo. Le parole possono essere armi di asservimento a una particolare ideologia, strategia politica o commerciale.
Riprendo il concetto di triarticolazione sulla necessità di una separazione tra sfere di competenza economica, giuridica e culturale, che vivono di leggi proprie, non trasferibili. E’ facile vedere che i significati di parole che provengono dalla sfera economica sono portatori di necessità diverse da quelle che vigono nella sfera artistico-culturale e vengono da noi assunti in un modo mimetico.
René Girard intendeva con mimetismo ( 3 ) il fare qualcosa per emulazione, l’assumere concetti e compiere azioni in modo automatico, senza sentirsene responsabili.
Eccone alcuni esempi: Capitalizzare (idee). Produrre (opere d’arte). Investire (su opere d’arte). Lavoro (al posto di opera d’arte). Strategia (un modo di porsi che include anche la creazione, il momento fondante dell’opera).

Vi sono pensatori, scuole di pensiero, artisti, filosofi e scienziati che hanno ragionato e ragionano su modelli concettuali, su visioni del modo, su immaginari possibili proiettati non più sullo sfondo cristallizzato di un pensiero minerale, clusterizzato e sintetizzato. Un pensiero unidirezionale che segna la separazione tra oggetto e soggetto e identifica quest’ultimo come unico punto di osservazione per una visione prospettica predeterminata. Si possono invece creare spazi interpretativi per eludere consequenzialità e cronologia, dando spazio alle intuizioni e alla capacità immaginativa.
Cosa dire per esempio del pensiero barocco di Leibniz, raffinato cultore della logica e della matematica, tanto da sviluppare il calcolo infinitesimale? Deleuze ne parla, riferendosi alla “piega” ( 4 ), perfetta espressione dell’estetica barocca, attraverso il concetto di serie infinita. Gli infiniti punti dell’inclusione della piega sono toccati da infinite tangenti: dalla monodirezionalità di una linea retta, i cui punti sono riconducibili a un‘unica direzione e quindi a un unico punto di vista, si passa al numero infinito di tangenti che “con-corrono” alla curva, e quindi a infiniti punti di vista. Non è forse il fatto che il punto di osservazione prospettico diventi multiplo che permette di superare l’idea conflittuale sulla natura dell’elettrone? Non è questa disposizione mentale che risolve la contrapposizione tra materia e energia, per elaborare un’idea di complementarità?

Rivisitare il pensiero prospettivista, indagando le sue origini da Leibniz a Nietzsche, fecondarlo con l’apertura di orizzonte che la fisica e certa filosofia contemporanea hanno portato, affermare la dicotomia materia-spirito attraverso il consolidamento della loro reciproca dipendenza, cogliere un’idea di bellezza nella metamorfosi, nella proiezione mitica della serie infinitesimale, nella coesistenza di soggetti multipli come suo dato sensibile, questo spero sarà al centro dell'attenzione non solo degli artisti ma anche di tutti coloro che hanno a cuore, anche nelle questioni più tecniche, l’arte e la cultura come organismo vitale (e vivente). Questa è una delle suggestioni possibili, ma se ognuno portasse un proprio contributo su come pensare e desiderare un possibile scenario, forse si potrebbe organizzare il prossimo incontro come un grande gruppo di studio.

Note:
1) Roland Barthes - How to Live Together: Novelistic Simulations of Some Everyday Spaces, Columbia University Press. Dec. 2012
2) Rudolf Steiner- I punti essenziali della questione sociale, Editrice Antroposofica. 1999
3) René Girard - Vedo satana cadere come una folgore, Adelphi. 2001. Girad si riferiva all’azione inconsapevole, priva di responsabilità individuale, che un cittadino perpetrava con la lapidazione del paria, nelle società precristiane
4) Gilles Deleuze. La piega. Leibniz e il Barocco. Lezione Del Novembre 1986 (Corso su Leibniz, Vincennes-St denis)

Emilio Fantin crea spazi di partecipazione dove l’aspetto formativo si coniuga con quello artistico. Nei suoi lavori spesso mette in rapporto l’arte con altri campi del sapere; per esempio l’agricoltura, il mondo dei sogni, la logica matematica. Collabora con istituzioni, università e fondazioni internazionali. Dal 2003 è docente al Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, dove tiene il laboratorio "Architettura e Arte negli spazi pubblici”.

Forum dell'arte contemporanea italiana
Prato 25, 26 e 27 settembre 2015
Oltre 40 tavoli di discussione coordinati da altrettanti operatori del settore per analizzare il "sistema arte in Italia" e capire le ragioni che non lo rendono competitivo su scala internazionale, arrivando a immaginare soluzioni, proposte costruttive e formulare strategie condivise.

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