NARROW SPACES, REDUCED HOPES, OR ELSE: WAYS OF RUNNING IN PLACE

Emanuela De Cecco

SPAZI STRETTI, SPERANZE RIDOTTE, MODI DI STARE OVVERO CORRERE SUL POSTO


Premessa della premessa: è solo una questione di limiti?
Sfogliando un saggio di antropologia mi ritrovo, curiosamente, in un capitolo in cui l'autore analizza questioni di linguaggio, affinità e differenze tra diverse etnie, e mi imbatto nella traduzione di alcuni termini della lingua Burundi e scopro che da quelle parti la parola "aha-ntu" si usa sia per indicare uno "spazio" che per indicare un "luogo". Nella lingua italiana verifico che per "luogo" si intende "una porzione di spazio idealmente o materialmente limitata", per "spazio" un'"entità illimitata e indefinita nella quale sono situati i corpi".
Non credevo proprio che la differenza letterale, e pulita da implicazioni alte, fosse legata principalmente a una questione di delimitazione. Che è un po' come se parlando di luoghi avessi sempre bisogno del complemento di specificazione, parlando di spazi no e la cosa ti fa sentire lì per lì un pochino più leggera. Se è solo una questione di limiti avrà pure un senso il fatto che nella nostra civiltà la delimitazione, in qualche modo la specificazione dello spazio abbia un rilievo così grande: sembra implicitamente alludere alla questione della proprietà e della privatezza, e se vogliamo c'è anche un rimando strano alla percezione di un pudore. Dall'avere tutto lo spazio di cui abbiamo bisogno, ci ritroviamo in un attimo a sentirci fuori luogo, a disagio. A me succede spesso, almeno. Allora se a un primo livello si può ridurre il senso del passaggio dalla nozione di spazio (perlappunto infinito) a quella di luogo (che ne è una porzione), tanto vale riprendere la questione dall'inizio, partire dagli spazi (pensando alle grandi pianure, agli orizzonti, ai cieli, a quello che ci passa per la testa, o nella testa ci è stato ficcato) e arrivare in un secondo momento a specificare i luoghi, e dunque a delimitare e a recuperare fino in fondo la coscienza dei limiti.

premessa: mancanza di spazi 1
Uno degli episodi del film Strane storie, di Sandro Baldoni, si incentra sulla vicenda di un uomo che sta soffocando poiché è in ritardo sul pagamento della bolletta dell'aria e da prassi, il Comune ha sospeso i rifornimenti.
Il film è girato a Milano e gli uffici in cui vanno regolati i conti - sarà un caso - li ho riconosciuti in un agglomerato di palazzi supermoderni dietro casa mia. La dimensione del racconto da surreale si fa vicina, superato il primo livello comico e orwelliano affiora un senso di soffocamento familiare. Il film, senza dubbio, regala una grossa idea: pagare per respirare potrebbe essere la prossima fontiera dello smantellamento dello stato sociale.
Nel frattempo una complessa serie di questioni che ruotano attorno al concetto di "spazio", che sia pensato in metri cubi (aria) o in metri quadri (spazio da agire, da vivere, da abitare), pubblico (quale spazio per quale pubblico?) privato (sì ma di chi e quali sono i confini?) si sta configurando come uno dei nodi più urgenti di questa fine millennio. Se vi capita di andare a New York (il biglietto costa ormai meno che un'andata ritorno con Alitalia per Catania) fate un giro dentro il nuovo emporio Sony sulla Madison. È una visita che vale da sola la lettura di quindici saggi sull'argomento: il passaggio al chiuso da cui si accede per entrare nello spazio degli acquisti si autointroduce con uno striscione su cui è scritto: "Public space: Sony Plaza/ Public arcade". E di colpo tutta la teoria letta diventa un fatto: dove finisce il territorio d'autorità della multinazionale? Si fermerà almeno nello spazio che divide il mio orecchio dal walkman, il mio occhio dalle videocamere (tutte puntate, in fase dimostrativa, dall'interno all'esterno, a spiare i passanti)? Su tutto questo non pesa però la mia volontà, libera, di entrare, comprare, ecc? Spazi, luoghi e limiti dell'ambiente e modalità dell'individuo di relazionarsi con essi stanno diventando complicati.
America, direte voi. Ma come confidare in un rapporto naturale (più buono, cioè) con il territorio urbano qui da noi? Vivo in una città (Milano) in cui un sindaco, un giorno, novello Haussmann, ha fatto risistemare il piazzale di fronte alla Stazione Centrale di modo che la visibilità contro lo sporco, brutto e cattivo sia a 360 gradi, definitiva, senza via di scampo. Eppure i ragazzi correndo con lo skateboard lo spazio lo reinventano. Eppure, ancora a proposito di reinvenzioni, dalla finestra di casa mia seguo dall'alto le vicende di una cascina abbandonata, una come altre che esistono in questa città, in cui lo spazio c'è eppure manca l'aria, una cascina in cui vive un gruppo di persone di cui non so niente ma di cui non posso che condividere la logica attiva del riuso. Soluzioni abitative e ancora una volta correlate con lo spazio, che hanno (credo) non molto a che fare con le regole locali, ma queste regole, a furia di rispetto ci stanno portando alla paralisi.
Virginia Woolf scriveva della necessità di "una stanza tutta per sé" come condizione prima per lo sviluppo della creatività (e della possibilità di espressione).
Ce ne sarà ancora qualcuna da qualche parte? Certo che sì. Sono gli spazi che mi interessano più di tutti.

Mancanza di spazi 2
Veniamo all'arte e alla condizione di una generazione intera che gli spazi fa fatica a occuparli, a prenderli, a gestirli e a trasformarli in "luoghi", una generazione, la nostra, di figli degli anni Sessanta, troppo vecchi per i paninari e La Pantera, troppo giovani per il '77 e per gli yuppies, 30 anni giusto in mezzo senza avere in memoria guerre nè rivoluzioni.
Sarà anche un problema di carattere ma non c'è dubbio che alternando la scusa dell'età (e la bonaria tolleranza che suscitano immaturità, ingenuità, entusiasmo etc.) con quella dell'emergenza (poco tempo + poco spazio = giovani artisti senza troppe pretese ad esempio) i monumenti (quelli in carne e ossa) della recente storia dell'arte fanno cordone mica male e piantano bandierine di conquista sull'intero territorio nazionale. Una favola di Italo Calvino racconta di un uomo troppo gentile che, rimasto chiuso in una grotta, continuava a chiedere permesso per uscire e morì sfinito poiché dall'altra parte non c'era, nè sarebbe mai arrivato, nessuno a dirgli avanti.

Prendere spazi
E invece a volte prendere spazio non è facile, è molto meglio quando te lo offrono. Poter occupare spazio in questo caso è un privilegio che tende a sottilmente delle trappole. Poterlo occupare essendoci ma senza farsi vedere, mimetizzandosi per poter osservare le reazioni di chi guarda è una buona idea (Stefania Calegati). Lo spazio, sempre quello, si intreccia inesorabilmente con la quarta dimensione... non riesco a non considerare quanto possa essere impietoso il fatto che in tutto per occupare il mio spazio ho a disposizione ventitre giorni, ovvero la bellezza di 552 ore (che sembrano tante, detta così), e questa corsa col tempo non riguarda in nessun modo chi legge, che vuole una ragione, a volte basta una, per dare un senso all'occupazione di tempo che richiede invece la lettura.
E insomma sono/siamo qui insieme in quanto artisti/critici attenti alla riflessione sullo spazio o forse il luogo, ma che spazio, che luogo? Specie di spazi di George Perec suona così bene in questo discorso. Fino a ora non l'ho letto ma Le cose (sempre suo) parla di accumulo di oggetti, di vite caratterizzate dalla compagnia silenziosa e un po' ossessiva delle merci.
Che per quanto si cerca di contenere resta lì a ricordarci che esiste (Premiata Ditta). Io intanto vorrei dire che amo il vuoto, lo spazio sì, ma preferibilmente vuoto.
Forse per adesso mi conviene concentrarmi sul gioco di parole e la "specie" introduce alle singolarità, alle diversità di percorsi, posizioni, punti di vista qui raccolti. Possibilità dunque di delimitare lo spazio e trasformarlo in luogo, porzione limitata in cui la configurazione verso la quale ci stiamo concentrando deriva da un incontro tra uno spazio e un soggetto che in esso assume un punto di vista e ne trae dunque una visione fortemente personale. E il viaggio, anziché produrre visioni in movimento fa esistere immagini statiche, fotogrammi di un film (luogo) mentale dell'artista in cui il paesaggio, quello esterno è una sorta di accessorio (Luisa Lambri, Luca Pancrazzi, Alessandra Tesi).

Storie di spazi
La storia dei criteri con i quali è stato rappresentato lo spazio nell'arte ha radici antiche, basti pensare alla prospettiva che per le opere del passato costituiva una delle chiavi di accesso concettualmente più efficaci per la comprensione dell'opera e del mondo che essa sottintendeva. Oggi è tutt'altro che semplice riaffrontare una questione come questa. La rappresentazione dello spazio non ha più questa funzione, ma in ogni caso può essere un pretesto utile, un indizio così come lo definisce Carlo Ginzburg, per registrare alcuni passaggi consolidati nell'arte degli anni Novanta. Parliamo dell'Italia, già le ore sono 496, non posso sbandare, ma perlomeno posso dire che qui sono raccolti alcuni dei percorsi che, per ragioni anagrafiche e generazionali ma non solo, hanno preso le distanze di fatto dall'enfasi della pittura neoespressionista del decennio precedente, e hanno riannodato le fila con la dimensione quotidiana, con la possibilità di raccontare nell'arte una condizione individuale in cui si sovrappongono esperienze vissute, memorie, incontri, relazioni in atto, legami con culture altre e la cultura materiale (Luca Vitone) (che qualcuno pensa ancora che sia arte minore ma che in realtà costituisce una base senza la quale del nostro paese, mi sembra, alla fine si può capire proprio poco).
Il soggetto nell'arte italiana ha spesso fatto i conti con compiti troppo aulici, storie di ispirazioni solitarie, geni e genius loci che col tempo hanno perso di vita che nel frattempo il luogo non era più lo stesso... uscire dallo studio non è un dato fortemente ricorrente in una tradizione che non a caso ha avuto i suoi esiti più riconoscibili e più apprezzati nelle elaborazioni indoor.
Sospendiamo un attimo il filo della storia. Concentriamoci su una campionatura di artisti tra i venti e i trent'anni che costituisce la trama sotterranea ma non troppo del discorso e, concediamoci un respiro di sollievo: forse la possibilità di dialogare con l'esterno in maniera disincantata e di non sentirsi votati solo ed esclusivamente a portare il testimone di una tradizione alta è davvero per tutti loro un dato nuovo e da prendere sul serio.

Spazi di storie: dove sei?
- Quando chiamo qualcuno che possiede un telefono cellulare, se ho confidenza la domanda che mi esce spontanea prima di ogni altra è: "Dove sei?".
- Un amico lontano con cui scambio parole scritte tra le maglie della rete ha il computer portatile. Da casa sua a new york si sposta spesso per lavoro ma l'indirizzo come è noto non cambia. Lui però da dove scrive me lo racconta sempre.
- Il telefono nuovo che ho al lavoro sul display indica sempre il numero di provenienza della chiamata che ricevo. La Telecom fa progressi ma sono ancora indecisa se pensare che si tratta di un passo in avanti o piuttosto di una sofisticata ulteriore forma di controllo.
Questo per dire che dove sei, da dove scrivi, la trasparenza della telefonata sono questioni che da un lato spezzano la magia tutta contemporanea del pensare l'interlocutore corpo immateriale fluttuante nello spazio, dall'altro consentono di pensarne una possibile configurazione fisica o quantomeno relativa alla condizione (momentanea) dell'interlocutore (Deborah Ligorio, Sara Rossi). Farsi un'idea in questo senso a volte consente di immaginare una risposta, un'altra e così via.
Più in generale l'uso di metafore spaziali nella descrizione dei corpi che diventano paesaggi, soggetti che diventano mappe, di identità di cui non si riescono a definire con certezza i confini, è spia di un mutamento di rilievo. Come dire che del referente concreto non se ne vuole fare a meno, che esiste sicuramente un ragionamento da fare sulla scala ma che la mappa resta pur sempre un'astrazione che se non prende corpo, non parla di un corpo, non esiste.

Spazi delimitati come dire ancora confini, luoghi?
Parlando di rappresentazione e ragionando su alcune modalità messe in atto nel configurare un rapporto col reale, non c'è dubbio che attribuire importanza alla scala (dal corpo al paesaggio, è principalmente una questione di dimensioni ma si possono applicare all'uno e all'altro criteri molto simili) vuoldire riportare al centro la questione dei confini.
Interno vs. esterno, vale a dire ragionare sul rapporto tra pubblico e privato, dentro e fuori, mostrabile (visibile) e osceno: sono solo alcuni dei passaggi che alludono a un luogo possibile e assumono un senso ogni volta differente e che spesso somma e moltiplica le contraddizioni piuttosto che sbloccarle.
Come dire che non esiste una dimensione senza l'altra che non è più possibile pensare il proprio studio come un luogo-rifugio separato dall'esterno (Cesare Viel), che non ha più senso parlare di sè (nè tanto meno fare arte) in una dimensione isolata e privata perchè possiamo esistere solo in relazione con, fosse una foglia, un contesto, una persona non importa ma qualcosa (Enzo Umbaca, Wurmkos). Negli anni Settanta si diceva che il politico e il personale coincidevano, negli anni Ottanta questo filo si è per la stragrande maggioranza interrotto, adesso stiamo capendo che il personale fine a se stesso non aiuta, e che anzi forse è solo e sempre e comunque la somma dei due aspetti l'idea che consente di costruire una dimensione possibile. Che è poi la possibilità di continuare a partire da sè per dire di sè e degli altri, di rivalutare la materialità del soggetto per quanto malconcio sia, anzì più malconcio e in crisi meglio (forse) è.
Pubblico è privato, e viceversa.
Emanuela De Cecco