DOCUMENTA11/work in progress  [ Laura Barreca ]





Cinque Piattaforme e più di cento artisti. Cinque spazi espositivi da visitare fino al quindici settembre nei cento giorni di apertura della mostra.
Documenta11 ha riaperto l'appuntamento quinquennale con l'arte contemporanea con i tempi e i modi di un evento mediatico di proporzioni globali, dove l'arte, la politica e la moltitudine di contraddizioni della società contemporanea si intrecciano in una visione dilatata e volutamente istituzionale. Questa complessità geografica di temi e di suggestioni riflette la natura multiculturale della collettiva di curatori (Carlos Basualdo, Susanne Ghez, Sarat Maharaj, Ute Meta Bauer, Octavio Zaya, Mark Nash) che hanno affiancato Okwui Enwezor nel suo mandato per Documenta. Di differenti nazionalità e di diversa formazione, il sestetto di curatori ha costituito il forum per l'elaborazione dei contenuti, contribuendo, ognuno con la propria specializzazione, alla definizione del percorso narrativo ideale e culturale della mostra. La comune aspirazione alla multidisciplinarietà - di forme, linguaggi e strumenti espressivi - e la necessità di mettere in luce fatti e situazioni di ordinaria precarietà e marginalità all'interno del contesto internazionale si comprendono anche solo scorrendo lo sguardo nella lista dei nomi degli artisti provenienti da ogni parte del globo. Allo stesso modo alcuni degli argomenti più rilevanti della mostra, quali la povertà dei popoli del mondo, i genocidi, i disastri industriali, la repressione politica nei territori che vivono senza alcuna forma di democrazia sono stati approfonditi durante una serie di workshop internazionali tenutisi in quattro città del mondo - Vienna, New Delhi, S. Lucia e Lagos-. Svolte nel corso di questi ultimi due anni, le quattro transoceaniche Plattforms sono nate dall'esigenza di anticipare l'esposizione di Kassel (Plattform5) stabilendo quelli che sarebbero stati i punti cardine della mostra, da cui l'impasto ibrido tra arte e informazione, l'uso sempre maggiore di nuovi mezzi espressivi, la natura spiccatamente politica unita alla presenza di artisti fortemente impegnati nel sociale, quanto basta per fare di una mostra un evento totale dove l'arte non è più un territorio distinto dalla realtà, ma all'opposto, finisce per confondersi e diventare tutt'uno con essa perdendo quell'aura autoreferenziale che ha sempre fatto delle arti visive un genere sublime e sempre poco propenso alle interazioni con la cronaca del quotidiano. Condizione imprescindibile, sia nelle fattezze generali della mostra sia in molte delle opere degli artisti, è il forte impegno civile attraverso cui avviene la registrazione del presente in tutta la sua naturale crudezza, sconfinando sempre più spesso al limite dell'attività documentaristica, siano le condizioni inumane dei minatori del Sud Africa dei video di Steve McQueen (Western Deep) siano le pareti istoriate dalla chilometrica sequenza fotografica di Allan Sekula (Fish Story), vera iconografia del lavoro a bordo delle chiatte che dalla Norvegia giungono fino alle coste delle Filippine, ambedue i lavori esposti negli spazi dell'ex fabbrica di birra Binding, appena fuori il centro della cittadina tedesca.
Il programma di incontri e di attività che animerà la città di Kassel in questi mesi di apertura costituisce la Plattform5, conclusiva ma aperta ed in costante aggiornamento. Così concepita la grande manifestazione non si esaurisce nella semplice esposizione delle opere, ma registra le variazioni e le evoluzioni del sistema dell'arte in tempo reale. E' questa velocità di connessione, ma soprattutto la chiarezza degli allestimenti, la "concentrazione concettuale" cui è sottoposta e a cui il visitatore si sottopone entrando all'interno delle strutture labirintiche dei grandi spazi espositivi a rendere questa undicesima edizione un'occasione imperdibile e di grande coinvolgimento emotivo oltre che visivo.
Muovendosi per i grandi spazi degli edifici che ospitano le varie sezioni della mostra (dal Museo Friedericianum, cuore di tutta l'esposizione, passando per la Halle, la grande struttura semicircolare costruita nel 1992 per accogliere una sezione di Documenta9 alle spalle dell'Orangerie, proseguendo verso la periferia di Kassel dove si trova l'ex fabbrica di birra Binding fino a Kulturbanhof, stazione ferroviaria tutt'ora in funzione) l'impressione è quella di essere "bombardati" da una sequenza infinita di immagini, che vanno dai singoli scatti fotografici alle inquadrature dei tanti video, alle installazioni di ogni genere e forma, ragion per cui l'idea di vedere l'esposizione in tutta la sua interezza risulta subito un'impresa titanica, se ad aiutare il visitatore non intervenisse la guida breve della mostra che nel suo formato tascabile regala l'illusione di poter portare a casa almeno un pezzetto di questa pletora di artisti e opere riuniti a Kassel.
Il mosaico internazionale di artisti - fin troppo noti ha detto qualcuno- riporta come una cartina torna-sole gli sviluppi e le tendenze in atto all'interno del panorama artistico contemporaneo. Ma non solo. Tornano nomi di artisti datati come Constant, co-fondatore del gruppo CoBrA, cui è dedicata un'intera sala al primo piano di Kulturbanhof, la stazione dei treni ancora in funzione, con l'esposizione degli utopici progetti di "New Babylon" la città pensata come una macchinosa struttura flessibile di vetro e metallo in grado di far fronte al costante aumento numerico della popolazione mondiale. Ed erano gli anni Sessanta. Ma l'impegno per la riprogettazione urbanistica viene anche riproposto in chiave di denuncia sociale, dal lavoro di Carlos Garaicoa, architetto cubano che suggerisce una "pausa temporale" all'inarrestabile disfacimento edilizio dell'Havana con le riproduzioni di palazzine liberty, oggi ridotte a ruderi cadenti, in un impietoso confronto fotografico del prima e del dopo. Va poi menzionato il gruppo di architetti Asymptote, autori di una gigantesca scultura rotante sulla cui superficie sono proiettati i profili di due metropoli contemporanee: sospesa a mezz'aria questa sorta di installazione virtuale si moltiplica in infinite ripetizioni all'interno di una stanza completamente rivestita di specchi.
Il binomio arte/architettura istituzionalizzato a Documenta dà una indicazione chiara e registra peraltro una tendenza già in atto da circa un ventennio che ha visto queste due discipline - tradizionalmente separate- convergere sempre più frequentemente in uno stesso ambito teorico. E così non deve sorprendere la presenza italiana di Multiplicity, collettiva di architetti, fotografi, geografi, filmmakers il cui lavoro dal titolo A Journey Through a Solid Sea è l'indagine di un fatto di cronaca avvenuto nel 1996, quando a largo delle coste tra la Sicilia e l'isola di Malta affondava un battello con a bordo 283 clandestini tra pakistani, indiani e cingalesi; la vicenda taciuta sia dagli organi di stampa sia dalle stesse autorità competenti era stata poi riportata alla luce grazie all'interesse di poche persone, tra cui un giornalista del quotidiano la Repubblica, la cui opera ha permesso la riapertura del caso che ad oggi comunque non ha ancora individuato i responsabili. Per Documenta Multiplicity ha raccontato questa storia in tutta l'evidenza del fatto di cronaca riscontrato attraverso una serie di video- testimonianze - raccolte in una stessa stanza- le cui voci si accavallano le une con le altre finendo per diventare incomprensibili. Con lo stesso rigore viene presentato il video di venti minuti in cui una sonda scandaglia il fondo marino nel luogo del disastro, la cui visione lascia spazio solo ad un fortissimo senso di inquietudine e angoscia.
Tra gli altri lavori presenti a Kulturbanhof Secrets in the Open Sea dell'Atlas Group affronta con la spiazzante semplicità di otto pannelli con i colori del mare un fatto di cronaca, raccontando in questo modo gli orrori e le atrocità avvenute durante gli anni della guerra civile in Libano (1975-1991)
La parte di Documenta sicuramente più interessante, anche in termini di quantità di opere in mostra, è lo spazio della ex fabbrica di birra Binding, monumentale complesso di archeologia industriale che viene per la prima volta utilizzato come sede espositiva. Esternamente conservata nella sua architettura originaria, la superficie interna è stata invece sezionata in un percorso tutt'altro che didattico, ma razionale e comprensibile, e grazie soprattutto alla capienza espositiva qui è possibile trovare le installazioni più spettacolari per allestimento e per dimensioni: come la carrozza appesa al soffitto e i manichini acefali e gaudenti di Yinka Shonibare; l'installazione totale dell'artista africano Georges Adéagbo: un'intera stanza istoriata con giornali, libri, riviste, dipinti, sculture e oggetti di qualunque genere, la cui struttura narrativa si coglie nella moltitudine degli "strati di informazione".
Dalla periferia al centro, la visita ideale a Documenta si conclude nel parco barocco dell'Orangerie che accoglie, disseminate tra gli alberi secolari e i prati verdissimi le installazioni sonore dell'americana Renée Green, esili strutture ottagonali aperte dove ascoltare, in armonia con il silenzio della natura, le parole appena sussurrate direttamente dall'artista. Il tono è sicuramente più ludico nell'ambiente domestico ricreato da John Bock, e nella proiezione di un combattimento splatter tra strane creature informi in una combinazione teatrale tra video e performance che lo stesso artista riproporrà durante il periodo di apertura della mostra.
Tre giorni in visita a Kassel forse possono bastare per avere un'idea generale della mostra, ma la Documenta voluta dal curatore nigeriano Okwui Enwezor segna una tappa ben più duratura nel sistema dell'arte, fornendo alcune indicazioni precise sulla via di indagine che ha intrapreso l'arte del terzo millennio. Nell'era della globalizzazione la ricerca artistica contemporanea si avvicina all'attualità e si confonde con l'architettura, cogliendo nella repentina mutevolezza degli eventi gli aspetti meno visibili di un mondo fagocitato dai ritmi di massa e solo apparentemente democratico.