La Generazione delle Immagini


5 - 1998/99 - Landscape in Motion


Gabriele Basilico



Nato a Milano nel 1944.
Ha esposto i suoi lavori in numerose mostre internazionali; ricordiamo il recente premio Osella d'oro per la fotografia di architettura contemporanea attribuitogli dalla VI Biennale di Architettura di Venezia

Vorrei parlarvi del mio lavoro proponendovi frammenti rappresentativi dei lavori che mi hanno più coinvolto in oltre 20 anni di attività fino ad oggi.
Il punto di partenza è rappresentato dalla serie 'Milano, ritratti di fabbriche', il primo lavoro svolto senza soluzione di continuità dal 1978 al 1980. Questo lavoro è dedicato a tutta l'area industriale periferica di Milano e si pone come un'interpretazione della sua morfologia urbana.
Prima di proiettare le immagini voglio ricordarvi che la fotografia di architettura e di paesaggio urbano sono state al centro del dibattito tematico nel nostro paese negli ultimi 20 anni. Ciò ha generato una nuova attenzione e una nuova sensibilità verso il paesaggio e in particolare verso la sua trasformazione recente. La fotografia dell'architettura e del territorio che a me piace definire 'dei luoghi' si è inevitabilmente confrontata con la cultura più specifica dell'urbano, cioè con l'architettura.
Questo confronto mi coinvolge direttamente poiché a cavallo degli anni 60-70 ho studiato architettura e di conseguenza il rapporto tra cultura del progetto e cultura della visione continua a rappresentare per me un cantiere aperto nell'esperienza della fotografia. Naturalmente il pensare e fare architettura comportano una grande responsabilità civile e politica, che in apparenza il far fotografia non ha, in quanto tende a sfruttare tutta la libertà possibile di interpretazione del reale, tipica del comportamento dell'arte.
Nello stesso tempo durante questi anni c'è stata, nell'esperienza dei fotografi in Italia e all'estero, una coincidenza di pensiero e un'esperienza sul campo che hanno spostato l'asse dell'impegno, tipicamente professionale, teso a restituire una nuova bellezza agli edifici (anche con evidenti finalità commerciali) verso una più articolata e problematica rappresentazione dell'architettura, come se l'architettura, cioè i luoghi, gli oggetti e lo spazio della città fossero i partners di una disputa conoscitiva aperta in cui confrontarsi. Vittorio Fagone affermava alcuni mesi fa proprio in questa aula della Triennale che l'artista contemporaneo cerca di rifondare esteticamente il paesaggio per mezzo della fotografia. Questo dibattito, molto seguito in questi anni a livello interdisciplinare, e quindi non solo dagli architetti e dagli artisti, ha creato molti interventi tra cui anche quelli dei fotografi (tra i più attivi Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella, Vittore Fossati ecc.). Sul numero 811 di Domus (gennaio '99) su invito della redazione ho scritto una lettera rivolta agli architetti, cercando di raccontare in grande sintesi il mio modo di lavorare, cioè di osservare e di interpretare lo spazio urbano contemporaneo.

Lettera a un amico architetto
Caro amico,
forse sai che la mia relazione con le cose del mondo da oltre vent'anni è mediata dalla fotografia.
Tuttavia al centro del mio interesse c'è sempre stata l'architettura o meglio la città, cioè il luogo delle opere di architettura, dalle più belle alle più miserabili, che configurano insieme l'ambiente dell'uomo.
Devo anche ammettere che, sempre sedotto dalla grande architettura, dalle opere antiche e moderne dei maestri, continuo a coltivare un'attrazione irresistibile per la città 'media', per le periferie dove la concentrazione creativa e la qualità progettuale si diluiscono fino a smarrirsi e i modelli originali, espressione di un modello ispirato, si delineano all'infinito in una produzione anonima e diversificata che ha forse azzerato il suo codice genetico. Sono anche attratto dalle zone di confine, dai limiti della città dove il gioco sintattico, le contraddizioni dialettiche, sono più marcati e scoperti, dove si possono individuare quei caratteri formali che raramente interessano la critica dell'architettura e che gli urbanisti liquidano spesso in modo sommario, con definizioni troppo distanti e astratte.
Oggi la fotografia gode di maggior visibilità rispetto al passato, desta più interesse presso le altre culture, compresa quella architettonica. Qualcuno sostiene anche che lo sguardo del fotografo, orientato in modo critico e sensibile sulla città, corrisponde a una sorta di 'progettazione visiva', di rimodellazione dello spazio.
C'è ovviamente una differenza fondamentale tra il lavoro del fotografo e quello dell'architetto che ha, forzatamente, una funzione sociale. L'architettura è soprattutto oggetto d'uso, necessità primaria per la vita. In questo senso il lavoro dell'architetto ha pesanti responsabilità, vincoli, costrizioni. Credo che la fotografia consenta, entro certi limiti, di riordinare il caos che sta davanti ai nostri occhi, che è un aspetto comune e ripetitivo del paesaggio urbano contemporaneo. Da questo punto di vista si può parlare, ma solo in termini di metafora, di progettazione.Ciò che da tempo mi pongo come obiettivo è riuscire ad avere uno sguardo liberato da moralismi, da ideologie, dall'incubo latente del pregiudizio. Forse così può nascere e svilupparsi la possibilità di leggere una nuova 'bellezza', che non esclude ma convive con la mediocrità.
Non è quindi il giudizio estetico che viene chiamato in causa. C'è semmai lo sforzo di afferrare una nuova realtà fisica la cui immagine sembra perennemente sfuggire allo sguardo. Se, come sostiene Groddeck nel Libro dell'Es, l'identità e gli aspetti psicologici sono leggibili nei caratteri somatici e nei comportamenti delle persone, possiamo tentare, con uno sforzo immaginativo, di estendere il concetto anche alle città e ai luoghi più in generale: forse allora l'atto del fotografare, inteso come lettura dei caratteri, ci aiuterà a capire la forma semplice o complessa dei luoghi, a coglierne analogie o differenze fino a illuderci di poter possedere e manipolare il reale attraverso la sua immagine e di poter impossessarci così, virtualmente, dello spazio.

Gabriele Basilico
Milano, 28 Ottobre 1998


Sul lavoro Milano, ritratti di fabbriche: verso la fine degli anni '70 in un momento in cui la fotografia sociale, cioè la fotografia degli eventi, della condizione dell'abitare, dei luoghi del lavoro ecc. era impegnata a descrivere lo scontro di classe presente nella nostra società, ma nello stesso tempo mostrava forse un po' di stanchezza, io rallentando il ritmo della mia visione, ho operato un grande scarto, utilizzando Milano come laboratorio privilegiato. Naturalmente come in tutte le cose c'è stato un inizio: il week-end pasquale del 1978: 'la città era semideserta e un vento straordinariamente energico aveva ripulito l'orizzonte: era una giornata di luminosità eccezionale, uno di quei rari giorni che stupiscono i milanesi perché 'si vedono così bene le montagne che sembra di poterle toccare con la mano'. Il vento, quasi assecondando una tradizione letteraria, sollevava la polvere, metteva agitazione nelle strade, puliva gli spazi fermi, ridonando plasticità alle case, rendendo più profonde le prospettive delle strade in una sorta di maquillage atmosferico che permetteva alla luce di proiettare con vigore le ombre degli edifici.
Nella magica sospensione luminosa della Pasqua 1978, spostandomi nella città di zona in zona, pianta alla mano, mi sono trovato nella Zona 14, tra via Ripamonti e via Ortles, in un'area caratterizzata prevalentemente da costruzioni industriali. Per la prima volta ho 'visto' le strade e le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide e isolate su un cielo inaspettatamente blu, dove la visione consueta diventava improvvisamente inusuale. Ho visto così, come se non l'avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento quotidiano, senza le auto parcheggiate, senza gente, senza rumori.
Ho visto l'architettura riproporsi, filtrata dalla luce, in modo scenografico e monumentale. Ho rivisto le immagini nascere da un'operazione di astrazione, di isolamento, di assenza. Ho individuato un metodo per capire e per scoprire ciò che a volte si osserva in modo confuso e miope. Ho trasferito l'oggetto della mia percezione dalla macchina fotografica alla carta, e quando le immagini stampate in bianconero mi hanno ricondotto con esattezza 'ai luoghi', suscitando le stesse emozioni, ho avuto la verifica che cercavo.'

Così in un modo abbastanza casuale è iniziato il mio lavoro più lungo di quel periodo, che mi ha coinvolto per due anni e mezzo circa. Ho percorso sistematicamente tutte le strade della periferia milanese, utilizzando carte topografiche 1:25.000 con evidenziate le aree produttive. Con la fotografia ho prelevato un numero enorme di frammenti di architetture anonime, ricomponendoli alla fine in un progetto che ha avuto come esito un libro e una mostra al PAC di Milano nel 1983. Sullo sfondo di quest'esperienza brillavano quali maestri, numi tutelari, due grandi protagonisti della cultura fotografica del secolo: Walker Evans con la grande campagna della Farm Security Administration degli anni '30, e l'infaticabile analisi seriale sui luoghi dell'industria di Berndt e Hilla Becher a partire dagli anni '60.
Sulla ammirazione e sulla spinta emozionale generata dal lavoro di questi maestri ha preso corpo il mio interesse sullo spazio urbano.
Vorrei aggiungere che a partire da quegli anni, c'è stato un crescente interesse da parte delle istituzioni europee per la fotografia intesa sul come sonda di interpretazione del groviglio di aspetti e di problemi raggiunti dalle nostre città nelle recenti trasformazioni. Ho avuto in seguito moltissime occasioni di fotografare città e paesaggi in tutta l'Europa, a volte come ricerca personale, ma più spesso come committenza pubblica: Napoli, Trieste, Genova, Rotterdam, Anversa, Amburgo, Barcellona, Vigo, Losanna, Zurigo, Madrid, Bilbao, Nizza, Graz, Francoforte, Palermo, Napoli e infine Berlino. Dopo 15 anni esatti dal lavoro delle fabbriche, sulla spinta di una committenza non realizzata, è nato un secondo progetto fotografico sulla mia città, Milano. Questa volta non ho scelto un tema a carattere tipologico (le periferie), ma ho preferito un approccio più libero, privilegiando alcuni luoghi della città seguendo inclinazioni più personali. 'L'intento è stato quello di tracciare un profilo della città allo scopo di restituirne un'immagine conforme alla sua forma fisica attuale.
È molto difficile, anche se la tentazione è sempre dietro l'angolo, raccontare nella sua totalità una grande città, grande come Milano: il rischio è quello di fare un lavoro logorante e incompleto, la cui tensione narrativa può diluirsi in un mosaico ambizioso ma ingovernabile di frammenti.
Ho preferito costruire un racconto parziale: ho scelto 3 zone distinte.

La prima è un zona a densità molto compatta, dai contorni un po' frastagliati, che si ammassa, all'incirca, tra le 2 principali stazioni ferroviarie: la stazione Centrale e la stazione Garibaldi, con le grandi arterie, piazza della Repubblica da una parte, e viale Tunisia dall'altra a far da assi cartesiani.
Questa, introdotta da una sequenza panoramica di 5 fotografie a colori riprese dalla torre più alta di piazza della Repubblica, è uno dei luoghi a me più familiari che nel tempo è stato oggetto di rivisitazioni periodiche e con il quale ho costruito inevitabilmente un rapporto affettivo e personale.
Nel periodo post-bellico questa zona ha ricevuto un importante rilancio costruttivo. Con i suoi palazzi per uffici e per abitazioni distribuiti a ranghi compatti su un rigido schema ortogonale e prospettico, interprete di una tipologia intensiva di medio-alto livello, questa parte di Milano conferma la vocazione e l'adesione ad un modello di città razionalista, modernista e internazionale fortemente sviluppata in altezza.

Questa 'cittadella', un'isola che lentamente stempera la sua compattezza verso i propri confini naturali, rivela oggi con molta trasparenza caratteri somatici specifici di quell'ambizione, di quell'aggressività e di quella ingenuità, che le vicende politiche e le illusioni economiche degli anni del dopoguerra le avevano conferito.

La seconda parte è composta da pochi frammenti, quasi dei 'prelievi' urbani, ottenuti osservando la città del Novecento e altri luoghi limitrofi al centro storico caratterizzati dalla presenza di monumenti ed edifici storicamente significativi.
È una sequenza di immagini costruita mediante l'accostamento di luoghi diversi, anche non vicini, individuati non per analogie di stili o di epoca, ma per un comune sentimento di coerenza, per una visibile armonia che li accomuna. Non si tratta di sottolineare grandi opere di architettura, ma piuttosto di confrontare la coerenza sintattica di alcuni spazi, in generale piazze, o la convivenza delle diversità in altri. È una città che malgrado tutto non ha perso identità, è lo 'zoccolo duro', un modello collaudato da non dimenticare o semmai dal quale ripartire.

Un terza parte riguarda infine la periferia.
È una lunga esplorazione sul territorio, fatta per incursioni successive a macchia di leopardo. Questo è il terreno più complesso e cosmopolita dove le città si frantumano lungo i propri confini e dove i tessuti cicatriziali, per anni abbandonati a un lento letargo, riproducono nuove epidermidi dai tratti inattesi. È la stagione della più grande 'convivenza' urbana nell'unità di tempo: in un'attesa di trasformazione più che ventennale sopravvivono, sotto lo stesso cielo, le grandi aree dismesse della 'città delle fabbriche', i grandi spazi verdi (le ultime sacche di resistenza agricola che marcano i confini di Milano, e che consentono, attraverso la lontananza ottenuta dal grande vuoto, una vista su una città che non riesce quasi mai a mostrare il suo profilo), le nuove legioni edilizie che si accampano stabilmente lungo i nuovi confini e altri insediamenti che occupano le arterie di accesso alla città. È la grande metropoli che sta vivendo la sua ultima trasformazione prima del terzo millennio. Per commentare questo lavoro confluito in una mostra e in un libro ho deciso di pubblicare una lettera rivolta alla città come ad una persona.

Lettera a una città
Sono nato in questa città.
Amo questa città come si può amare qualcuno a cui ci lega un vecchio rapporto di familiarità e di amicizia. È la città nella quale sono cresciuto. Ha dato forma anche alle mie passioni, alle mie speranze, alle mie angosce.
Ammiro le parti belle e le parti misere del suo corpo, dai quartieri, alle case, ai muri, ai selciati. Ha una sua bellezza e una sua bruttezza, esterne, visibili, che sono l'incarnazione della sua storia, che si esprimono nei suoi caratteri fisici e che acquistano maggior senso nel confronto con altre città. Questa città è simile a un essere vivente, è un organismo che respira e si dilata sopra di noi come un mantello protettivo che ci avvolge e ci confonde nello stesso tempo.
Negli anni è diventata per me come un porto di mare, un luogo privato dal quale partire per altri mari, per altre città, per poi ritornare e quindi ripartire. Un porto cioè un luogo stabilizzato dove accumulare campioni prelevati, reperti e impressioni dei luoghi lontani.
Immagini che si depositano nella memoria, come una sostanza che la città sa far propria e trattenere, ma che sa restituire metabolizzata in altre immagini, ricomponendo presente e passato, vicino e lontano, a piacimento, secondo le pulsazioni del cuore. Piccoli reperti di archeologia contemporanea. Questa città mi appartiene e le appartengo, quasi fossi un frammento fluttuante nel suo immenso corpo. Mi ossessiona un bisogno costante di conoscenza della sua fisicità, una necessità di rileggere di nuovo i tratti, le parti nascoste ma anche i luoghi noti e le sembianze più conosciute. Tra di noi c'è un varco aperto, che permette uno scambio continuo di percezioni, un punto di vista speciale. Talvolta ho l'impressione che si manifesti più nitidamente e all'improvviso dinanzi agli occhi, che mi informi del suo ingombro, della sua consistenza e della sua materia. La città mi investe e mi abita.

Gabriele Basilico
Milano, Giugno 1998


Nel 1996 la Biennale di Venezia, VI Mostra Internazionale di Architettura, mi affida l'incarico di un grande lavoro fotografico sulla trasformazione sul paesaggio italiano. Insieme a Stefano Boeri proponiamo un viaggio 'on the road', in diversi luoghi del paese, da una città all'altra:
'Per capire come è cambiata l'Italia, abbiamo perimetrato sei porzioni del suo territorio, lunghe 50 Km. e profonde 12 Km., ritagliate a partire dal centro di alcune grandi conurbazioni: da Milano verso Como, da Mestre/Venezia verso Treviso, da Firenze verso Pistoia, da Rimini/Riccione verso il Montefeltro, da Napoli verso Caserta, da Gioia Tauro verso Siderno.
Scorrendo verso l'esterno delle città storiche, la macchina fotografica ha registrato tutto quello che era cambiato entro queste sei 'fette' di spazio, intercettando le trasformazioni, la loro intensità, i loro rapporti con le parti urbane più consolidate, usando la ripetizione degli stessi manufatti come una cartina di tornasole per cercare, luogo per luogo, differenze e declinazioni. Così, grazie a un procedimento 'geologico', confrontando strati di territorio invece che areali, abbiamo scoperto che non sono tanto grandi palazzi, quartieri o infrastrutture (strade, viadotti, binari) a modificare il paesaggio italiano; piuttosto una moltitudine di edifici solitari ed ammassati: villette, capannoni, centri commerciali, palazzine, box, officine.
Una ridotta gamma di manufatti che incontriamo dappertutto, spesso addossati l'uno all'altro in modo incongruo. Costruzioni modeste, ma preoccupate di distinguersi da ciò che le circonda; gruppi sparsi ed eterogenei di edifici, espressione dei piccoli frammenti della nostra società (la famiglia, la piccola impresa, l'azienda, il negozio, l'associazione...)'

Domande del pubblico:

Nelle sue immagini c'è una programmatica assenza delle persone ...
Gabriele Basilico: Questa è una domanda che mi viene rivolta in modo ricorrente e a cui rispondo sempre allo stesso modo: il soggetto che mi interessa è lo spazio e la città. All'interno della storia della fotografia si possono notare due filoni di sviluppo paralleli: da una parte c'è un lavoro impegnato socialmente, con l'uomo al centro protagonista della visione. Dall'altra, fin dalle origini, ci sono quelle immagini che si concentrano sullo spazio. È molto difficile trovare dei lavori importanti che raggiungano un equilibrio tra le due visioni. Naturalmente le mie immagini appartengono a quest'ultima categoria. Credo che a volte si colga, al loro interno, la presenza dell'uomo: vado alla ricerca di una visione umanizzata dello spazio, riporto le esperienze fisiche e psicologiche del rapporto che si ha con la cultura dell'uomo, e ne seguo le tracce. È un modo di leggere la storia dell'uomo in modo trasversale. E anche se le mie opere possono creare del disagio, non vado mai alla ricerca di immagini di sofferenza e solitudine. L'assenza dell'uomo e del movimento mi consentono di allungare il tempo, che è uno degli elementi fondamentali del mio lavoro. Sento che quello che si muove intorno a me è troppo veloce, io sono lento, anche mentalmente. Ho bisogno di rallentare, fotografo con il cavalletto. Mi rendo conto però che il mio ultimo lavoro su Milano possa risultare un po' schizofrenico perché uso tre immagini ogni volta ed è come se non avessi più fiducia della staticità. Tendenzialmente, però, la sospensione della vita che scorre è un elemento importante della mia narrazione.

Nelle sue foto di periferia si nota una forte omologazione, spesso non si riconosce una città dall'altra. È una critica all'architettura che ci circonda? Questa omologazione esiste e io cerco di non fare nulla per cambiare lo stato delle cose e quindi ci sono gli indizi per fare una critica. Mi rendo conto che la fotografia ha una grande responsabilità perché poi si legge la fotografia come 'il reale'. La mia tendenza è quella di cercare uno 'sguardo equo'.

Nelle sue foto sono presenti sentimenti e passioni, ma anche un metodo (che è quello che ci ha raccontato) che le serve per renderli oggettivi e visibili a tutti. Si vede chiaramente un oggetto, uno spazio; ci ha parlato di progetti, ma mai dei singoli fotogrammi...
Credo che questa sia una curiosità legittima. Faccio questo lavoro da molti anni e a volte ho la sensazione di fare sempre la stessa foto, di ripetermi moltissimo. Ma penso anche che questa sia la mia cifra stilistica, l'elemento fondamentale delle mie foto. In effetti la ripetizione è un elemento costante e costruttivo del mio lavoro; quando vado a fare fotografie in un posto sconosciuto, inevitabilmente percorro dei modelli mentali già memorizzati e archiviati, anche se mi aspetto dei messaggi dal luogo. Mi sento come un musicista blues che utilizza sempre i propri spartiti e gli stessi strumenti, ma l'esecuzione cambia con l'interazione che si ha con il luogo. L'esecuzione cambia di poco, ma abbastanza da dare un'identità diversa al brano; e nel tempo la somma di queste identità crea delle storie.

Crede che ci sia una valenza psicologica nello spazio oppure la ritiene una categoria autonoma? È difficile dare una risposta. Mi è facile pensare che tutto risieda nella soggettività. Ci sono delle persone che non sanno vedere e non vedono nulla; io stesso a volte non vedo certe cose... mi piace sottolineare la soggettività dello sguardo in un procedimento che ritengo obiettivo. E credo che questo confronto sia fondamentale.

Fotografi e cineasti hanno indagato il paesaggio urbano contemporaneo molto prima degli architetti. Pensa che verrà il momento in cui architetti ed urbanisti si confronteranno in modo attivo con questa lunga ricerca? Credo di essere un testimone del confronto, lo scambio e l'incrocio di esperienze con la cultura architettonica. In questa cultura, come altri artisti e fotografi che hanno come obiettivo la rappresentazione del mondo, mi sono ritrovato. Sarà interessante, nei prossimi anni, misurare questo interesse e scoprirne la durata. Ormai il lavoro di chi si occupa di immagini è diventato più visibile e ha maggiori possibilità di interfacciarsi con altri ambiti.

Mi piacerebbe che parlasse un po' di più del suo metodo di lavoro: lei va più volte nello stesso luogo prima di scattare le sue foto oppure la scelta avviene più a posteriori con il materiale scattato in mano? Credo che sia una domanda che tocca il cuore del mio lavoro. In passato, quando avevo sperimentato meno immagini, sentivo il bisogno di ritornare negli stessi luoghi. Sono riuscito a ottenere i migliori lavori, la migliore empatia con i luoghi, attraverso il ritorno. Nel gesto del ritorno scattano meccanismi che fanno parte anche della psicologia e riescono a risvegliare energie generalmente sepolte. Spesso quando ritorno in qualche posto (e se posso lo faccio spesso) vedo delle cose nuove. Chi fa questo lavoro da tanto tempo cerca sempre di trovare una condizione 'straordinaria' anche nei posti più difficili. Vorrei sottolineare quanto è diventato difficile fotografare oggi in spazi pubblici urbani, pieni di traffico: si occupa dello spazio, la gente pensa che fotografi le case per qualche speculazione... insomma, il tuo lavoro è sospetto. Ma questa è la mia condizione esistenziale e, in genere, anche in queste situazioni estreme mi trovo molto bene, anche fisicamente: quando sono un po' malaticcio, vado a fotografare e sto bene e perché metto in moto il mio lavoro di relazione con il posto e che mi porta a una condizione positiva.