La Generazione delle Immagini


5 - 1998/99 - Landscape in Motion


Francesco Bonami



Per anni editor di Flash Art da New York,
ha curato numerose e importanti mostre internazionali come Site, Santa Fé 1997 e Unfinished History, al Walker Art Centre di Minneapolis.i
In Italia ricordiamo una sezione di Aperto '93 (Biennale di Venezia), e le mostre Campo (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Campo 6 (Galleria Civica di Torino).

Fata Morgana
Prendendo a prestito il titolo di un film documentario di Werner Herzog del 1967, vorrei intitolare la mia conversazione Fata Morgana. Fata Morgana è il nome di quel fenomeno di rifrazione che fa apparire nel deserto il miraggio di luoghi che nella realtà sono molto più lontani, irraggiungibili. Il film di Herzog parlava del miraggio di un'impossibile armonia tra il nord e il sud del pianeta. Oggi quel miraggio è ancora più frantumato, la nostra bussola è impazzita e nord, sud, est, ovest, si mischiano e si confondono. Anche nell'arte contemporanea si manifestano fate morgane che la illudono di essere vicina a luoghi molto spesso irraggiungibili. Oggi i miraggi più inflazionati sono le numerose Biennali che appaiono dovunque, in ogni parte del mondo. Vengono presentate come eventi internazionali, globali, ma il più delle volte sono funzionali allo sviluppo locale di strutture culturali, o alla definizione di un'identità contemporanea e rappresentano un tentativo di raggiungere una tradizione modernista che in molti luoghi è ancora lontana. Per molte città, la Biennale non è altro che il vapore capace di creare la Fata Morgana della contemporaneità. Le immagini che accompagnano il mio discorso sono note a margine della pratica curatoriale attraverso questi miraggi di globalizzazione. Sono appunti di un viaggio reale, telefonico, via posta elettronica, attraverso il sempre più aggrovigliato network di mostre ed eventi legati all'arte. Alcune di queste immagini riflettono mie esperienze personali e altre sono incontri fortuiti sulle strade di esperienze altrui. Immagini che tentano di definire una mappa, un paesaggio in cui i luoghi si espandono oltre i limiti fisici che li contengono e si allargano sul tessuto degli scambi e del dialogo tra artisti, curatori, critici, galleristi che diventa sempre più un elemento fondamentale della pratica artistica. Un dialogo che s'intensifica e senza il quale oggi è assolutamente impossibile costruire un paesaggio creativo, un paesaggio di mostre completo e solido in cui la qualità aiuti il giudizio e non viceversa. Nel film di Herzog un aereo atterra e riatterra creando una molteplicità di contatti con il luogo, confondendo il concetto di arrivo con quello di ritorno. Si arriva sempre nei luoghi per poi scoprire che vi si sta semplicemente facendo ritorno. È il fenomeno di ogni nuova Biennale: si arriva alle inaugurazioni e si trovano gli stessi volti, gli stessi artisti, gli stessi ritardi, gli stessi problemi. Tuttavia questi ritorni sono necessari per verificare i minimi, ma fondamentali scarti innovatori dell'arte contemporanea; si ritorna, ma si arriva sempre a qualche nuova conclusione.

Questa è un'immagine presa da un video di Jan Toomik, un artista di Tallin, che nel suo video Coming back home, tenta di rendere chiaro il senso di melanconia che lo colpisce sul traghetto che lo porta a casa in Estonia.
Toomik improvvisa una specie di danza rituale in cui sembra che la nostalgia di casa venga sostituita dalla nostalgia per la lontananza da casa. Si ritorna a casa e si vorrebbe ripartire immediatamente. Credo che questo sia un fenomeno caratteristico di quegli artisti che si sono ritrovati all'improvviso in un mondo aperto e col desiderio di aprirsi essi stessi, ma anche con la voglia di cambiare la realtà del luogo stesso in cui vivono, dei loro paesi. Il paesaggio diventa allora un processo mentale.
Questa invece è una foto di Andreas Gursky e questa una still di Roman Signer, un artista svizzero; entrambe le immagini riflettono uno stato mentale in cui il paesaggio circonda la visione. La mostra che ho recentemente realizzato al Walker Art Center a Minneapolis, che si intitolava Unfinished History (storia incompiuta) si apriva con la sequenza finale del film di Andrej Tarkovsky Nostalgia, dove la dacia del poeta russo, il protagonista del film, con un lento movimento di macchina, appariva circondata dalle mura della cattedrale romanica di San Galgano. Il luogo diventa la storia. La storia che si apre come una matrioska in cui la memoria privata si innesta su quella collettiva, su quella storica. Oggi molti artisti tentano di analizzare il paesaggio come se fosse un individuo che nasconde dentro di se la memoria di altri individui. E come curatore penso che il progetto di una mostra funzioni un po' come questo paesaggio-persona capace di contenere la molteplicità di altri luoghi e di altre persone.
Questa è una still di un film di Tracey Moffat Night Cries dove il paesaggio viene asciugato completamente e diviene quasi metafisico, perde ogni riferimento etnico, ma allo stesso tempo appare legato saldamente alle origini del luogo dove Tracey Moffat lavora, l'Australia. Questa è una still da Monsoon, un film dell'artista californiano Doug Aitken. Aitken ha girato questo film in Guyana dove, alla fine degli anni Settanta, 'The People's Temple', la setta seguace del reverendo Jones, fu protagonista di un suicidio di massa che creò grande scalpore anche perché coinvolse alcuni personaggi politici del Partito Democratico americano. Aitken ritorna in quei luoghi e cerca di capire attraverso le immagini cosa rimane nel posto della violenza delle idee. Il film risulta abbastanza noioso, ma forse la noia è proprio quello che rimane della violenza delle idee in un paesaggio.
Questa è una still di un altro video di Doug Aitken, molto meno noioso, intitolato Rise, dove la città, Los Angeles, diventa un pianeta. L'individualità si polverizza in una certa magia collettiva. Questo è un piccolo lavoro di Koo Jeong-a un'artista coreana, il cui lavoro è teso a creare atmosfere: in questo caso ha schiacciato delle aspirine, creando una polvere finissima e realizzando questo paesaggio. Koo Jeong-a lavora soltanto a certe ore del giorno e questa rigida scelta temporale diventa parte della sua pratica artistica. Questo lavoro, per esempio, è stato fatto la mattina presto verso le cinque, le sei e la luce che si vede nel lavoro è il riflesso della luce che c'è quando lei lo realizza. Quindi il paesaggio esterno viene quasi filtrato dentro il paesaggio metaforico del lavoro. La spiritualità collettiva che questi artisti cercano di rappresentare è un'altra Fata Morgana di oggi. Rimaniamo sempre, infatti, sufficientemente soli.
Questa foto di Bernd & Hilla Becher è forse l'unica in tutto il loro lavoro in cui si vede un personaggio davanti a una struttura, una casa. In seguito fotograferanno soltanto quelle strutture architettoniche e industriali che diventeranno il soggetto fondamentale delle loro foto. Un individuo che da solo continua a cercare di crearsi protezioni contro le ossessioni e le paranoie che vengono dal mondo esterno.
Questo è un lavoro di Mayer Vaisman un artista venezuelano che ha costruito questa unità abitativa simile a un'anonima baracca delle bidonville sudamericane, arredandola però con il salotto buono dei suoi genitori medio-borghesi. Il salotto si può vedere soltanto attraverso i buchi nel muro e quello che oggi noi curatori (ma anche gli artisti) facciamo è un po' il contrario del meccanismo proposto dal lavoro di Vaisman: dal salotto buono dell'arte contemporanea occidentale sbirciamo dentro le baracche delle contemporanee bidonville culturali che sono Johannesburg, Kwangju, Dakar, L'Avana, dove hanno luogo queste Biennali. Andiamo lì tentando di sbirciare l'originale, l'etnico, il tentativo di adeguarsi al nostro modello pensando che questo sia un fatto positivo mentre credo che sia la sconfitta del curatore occidentale e anche dell'artista: l'artista contemporaneo occidentale inventa le proprie ossessioni e il paesaggio che lo circonda spesso lo interessa molto meno di quanto lo interessi il proprio paesaggio privato, quello che sta all'interno della propria testa.
Mark Dion, per esempio, aveva inventato una piccola casa del censore, in cui immaginava un uomo (che penso sia una proiezione di se stesso) impegnato a castigare i nostri pensieri, le nostre immagini, le nostre parole.
Paradossalmente le riflessioni di Mark Dion rispecchiano una realtà vera: infatti si tratta della casa di Ted Kashinsky, il famoso e misterioso 'Unabomber', che è stata prelevata dal paesaggio del Montana e trasferita all'interno di un magazzino dell'FBI per essere analizzata. La realtà vera è trasformata in scenografia e qui diventa veramente una delle migliori installazioni che io ho visto negli ultimi anni perché diventa veramente astratta, metafisica. Proprio il luogo dove un uomo ha creato tutte le sue fantasie, diventa l'ossessione del sistema che lui combatteva. Questo invece è un lavoro di Lothar Hempel. Si tratta della scenografia di un film che poi non è mai stato realizzato, c'è quindi un senso malinconico di abbandono in questa scenografia. Lothar Hempel è un giovane artista tedesco e la ricerca della scenografia all'interno della realtà è una delle costanti degli artisti contemporanei. Queste sono immagini tratte da Diamond Sea, un altro film di Doug Aitken. Aitken è andato nel deserto della Namibia in Sud Africa, dove vengono estratti i diamanti e dove vengono costruiti piccoli villaggi e cittadine intorno alle miniere. A mano a mano che le miniere si esauriscono questi luoghi vengono abbandonati e si viaggia attraverso una serie di desolati paesaggi pieni di strutture molto avanzate tecnologicamente, che però vengono poi abbandonate; e si trasformano nella scenografia di qualche cosa che non riusciamo a percepire, una memoria, un po' come avviene nei video di William Kentridge (che avete avuto ospite lo scorso anno in questo stesso ciclo di conferenze) in cui tutto il paesaggio si imbeve della violenza monocroma del Sudafrica. Quando affrontiamo il tema delle mostre cosiddette 'globali' ci troviamo di fronte a due dissolvenze della storia (usando un termine cinematografico): una dissolvenza in chiusura sull'arte occidentale e una dissolvenza in apertura su quei mondi che solo dieci anni fa definivamo secondi, terzi, quarti. L'occidente oggi pare sostituire l'idea della storia con un'idea nostalgica, paleo-tecnologica di essa. Questa è un'altra immagine tratta da un film di Werner Herzog che nel 1967, in quel già citato film, Fata Morgana, ha tentato di creare queste astrazioni dal paesaggio.
Queste sono immagini di un gioco informatico che si chiama Reven, che ha venduto milioni di copie, una specie di complicatissima caccia al tesoro. Sono stati scritti molti libri, alcuni dei quali voluminosi, per descrivere regole e trucchi di questo gioco. La cosa interessante è che l'intero gioco è costruito sull'idea di un futuro pieno di strutture e architetture di un passato virtuale: è come se il futuro per essere creduto dovesse essere arredato con un design costruito dal tempo; anzi in questi giochi il tempo è il designer del futuro, e propone strutture che non abbiamo mai visto ma che sono simili a palafitte con caratteristiche tecniche molto avanzate. Questa è una foto di Gabriel Orozco che, secondo me, è uno degli artisti che più riflette sull'idea di paesaggio culturale e sul desiderio del cosiddetto terzo mondo di venire a patti con la modernità e con un Occidente che lo ha sempre usato come soggetto di ispirazione ma mai come luogo di produzione equilibrata. La foto di questo paracadute in Islanda descrive la separazione della produzione estetica da una radice etnica e da un territorio, da cui gli artisti provengono, che lentamente perde la propria identità, la propria specificità.
L'arte contemporanea si trova oggi a galleggiare nel flusso dei media e della tecnologia, un flusso la cui forza è sempre di più indebolita perché va incontro al flusso opposto di migrazione di persone e di idee che gli stessi media hanno innescato. Quindi l'arte contemporanea diventa la Fata Morgana della creatività globale, non si trova oggi secondo me un paesaggio, un territorio artistico, che non sia ibridizzato; gli artisti occidentali vanno in Cina e trovano degli artisti cinesi che hanno modificato le idee occidentali e quindi modificano le idee degli artisti occidentali e si crea di continuo un gioco di scatole cinesi. La divisione per nazioni, ancora presente in molte mostre internazionali, è quindi sempre più una forzatura, un processo artificiale, che tenta disperatamente di salvare le gerarchie che hanno completamente confuso i propri parametri.
Questo è un lavoro di Pascal Martin Tayou, un artista del Camerun (che vive in modo nomade tra Berlino e la Francia), un'installazione che ha realizzato a Gand, che, pur non volendo essere una descrizione del suo luogo d'origine è legata a quei problemi, tentando di inserirli in un contesto sempre diverso. Quindi i problemi diventano: come rappresentiamo questi altri mondi' Come trattiamo questi artisti che vengono da altri luoghi' Come li inseriamo in un contesto che non appartiene loro e le cui regole non appartengono al loro mondo creativo' Un esempio di come sia difficile organizzare una mostra che rifletta la situazione di un'area geografica particolare è Cities on the Move, curata da Hou Hanru e da Hans Ulrich Obrist alla Wiener Secession. Questa mostra rivela la difficoltà di affrontare il concetto di un problema locale, la densità dei linguaggi della cultura locale, nella cultura contemporanea in genere. La mostra proponeva più di cento artisti ma, paradossalmente, aveva il difetto di non essere abbastanza densa, piena di artisti. Non era abbastanza contorta: era illeggibile, ma non in senso positivo, non si riusciva a percepire quel processo di turismo intellettuale che le città dell'Asia offrono. Una mostra, quindi, che mostrava il nervo scoperto della globalizzazione, ma che proprio per questo suo essere in difetto è stata una mostra importante.
Oggi costruire una mostra globale è soltanto una Fata Morgana, perché dobbiamo sempre trovare un compromesso con lo spazio, con il concetto classico di esposizione e con l'identità ormai obsoleta dell'artista moderno. Bisogna quindi far convergere necessità, desideri, aspettative e criteri mentali che quasi sempre guardano all'Occidente come modello. Questo è un artista di Cities on the Move, Yutaka Sone (che ho anche invitato nella mostra Unfinished History), che aveva presentato queste montagne russe realizzate in marmo. È interessante il processo di produzione: l'artista è andato in Cina dove c'erano degli intagliatori di marmo molto bravi, ma che non sapevano cosa fossero le montagne russe, e lui non aveva un'immagine e non riusciva a spiegare loro il concetto di questo lavoro. Questa è l'immagine di un lavoro di una donna architetto tra le più importanti del Giappone, Kazuyo Sejima, che cerca di creare delle strutture pensando alle funzioni tradizionali che gli individui svolgono nei luoghi; l'idea è che cambiando le strutture intorno agli individui si possa pensare di cambiare anche la struttura sociale, le convenzioni. Questa è una casa di un dopo lavoro per sole donne, questa è un'abitazione privata. Mentre questa è una foto di Sharon Lockart: di nuovo un occhio occidentale che guarda a una realtà distante.
Questo è invece Rem Koolhaas, un architetto olandese molto famoso, e questa è la Kunsthalle che ha creato a Rotterdam in cui c'è un auditorium sotto il quale passa una strada cittadina; la struttura si incastra quindi nel tessuto urbano ed il tessuto urbano attraversa il tessuto culturale. Koolhaas più di altri affronta il problema dell'ingrandirsi del contesto (problema condiviso con l'arte contemporanea); i suoi edifici diventano buste in cui sono contenute altre buste. È il problema del contenitore, un problema fondamentale anche dal punto di vista del curatore. Questo è un altro progetto per l'Istituto di Tecnologia in Germania; l'architetto immagina dei grandi schermi vicino ad un passante ferroviario: i treni passano veloci e i passeggeri possono per un attimo vedere una parte di un film. Quindi il concetto è: come può una struttura architettonica, o una mostra (che è un'architettura culturale), contenere o negoziare realtà creative concepite altrove senza svilirle e senza ridurle a curiosità o a campioni culturali? Questo è Body Isez Kingelez, un artista del Congo che avevo invitato anche a Unfinished History, il quale crea dei modelli di città con oggetti che trova a Kinshasa. Kingelez crea queste strutture immaginarie dove la fantasia divora e cannibalizza stili e sogni diversi per un modellino di città del futuro, per un luogo, il Congo, dove il futuro non esiste. Questa è l'installazione che aveva creato per Unfinished History, il cui titolo era La città fantasma di Kingelez.Questa è la fotografia di un artista di origine cinese, Wing Young Huie, che vive a Minneapolis, e ritrae una banda di giovani cambogiani. Minneapolis è una città del Mid-West americano dove però, in lungo e in largo, si sono insediate una serie di differenti comunità, ognuna aliena dal contesto che la circonda, ma allo stesso tempo tutte integrate al contesto dal punto di vista sociale. Ad esempio questi giovani cambogiani, intervistati dall'artista, non sapevano chi era Pol Pot: ho trovato molto interessante che la ragione per cui questi giovani si trovavano a Minneapolis è il fatto che i loro genitori erano profughi, vittime del regime cambogiano, erano arrivati a Minneapolis quindici anni fa. Loro non sapevano il motivo per cui si trovano a Minneapolis e tuttavia sono una realtà cambogiana. Questa è un'altra immagine dal film di Herzog. Questa è un'immagine, ripresa dal film di Doug Aitken Eraser, della struttura di un satellite abbandonato sull'isola di Montserrat, un'isola dei Caraibi dove, per l'eruzione di un vulcano la popolazione ha abbandonato l'isola da circa dieci anni e ha lasciato un paesaggio quasi congelato con case e strutture anche molto moderne ma che sono inutilizzabili, coperte di un sottile strato di cenere che rende tutta l'isola monocroma.
Queste sono immagini tratte da un film di Alexander Soukorov, che si chiama Spiritual Voices. Alexander Soukorov appartiene alla seconda generazione di registi dopo Tarkovsky, e con una normale videocamera ha fatto questo film lungo più di otto ore diviso in cinque episodi. Soukorov è andato al confine tra Afganistan e Tagikistan a filmare una guarnigione di soldati russi abbandonata senza avere niente da fare. Il paesaggio diventa quindi il luogo dove rileggere i collassi politici della cultura sovietica. Questo film è drammatico e spirituale al tempo stesso. I soldati parlano sia di cose quotidiane sia di sogni, di aspettative, di desideri, in un tempo che non trascorre. Ho letto recentemente un articolo in cui si diceva che durante gli ultimi due anni quindicimila soldati russi erano morti non a causa di azioni di guerra, ma per malnutrizione e malattie, abbandonati in zone sperdute senza cibo e senza assistenza medica. Questa è un'immagine di due fotografi cecoslovacchi, Iasanzky e Polak: anche loro osservano il paesaggio, quello cecoslovacco, depurandolo di qualsiasi aspettativa.Questa è una foto di Luisa Lambri, scattata in India, che riprende edifici di Louis Kahn e di Le Courbusier. È di nuovo una Fata Morgana, quella di architetti occidentali andati in luoghi come l'India, a costruire edifici senza tenere conto del contesto: essi hanno infatti costruito strutture urbane in cui la popolazione è dipendente dalle scelte urbanistiche e non viceversa. Questi edifici diventano quindi sculture più che luoghi da vivere.
Questo è Willie Cole che ci presenta un labirinto di porte, un lavoro che riflette, in un certo senso, l'odierno stato dell'arte contemporanea che cerca la strada da percorrere per poter creare dei modelli culturali che siano fruibili in modo veramente globale.
Wang Yong Pin è un artista cinese che ha realizzato una grande maquette dell'aeroporto Schipol di Amsterdam all'interno della quale ha rinchiuso centinaia e centinaia di insetti e animali di diverso tipo che lentamente si divorano l'un l'altro: è una meditazione sul concetto di potere e di forza, su chi sia il più debole e chi il più forte. Insetti molto grandi vengono uccisi da insetti molto più piccoli; serpenti che sembrano pericolosissimi, sono i primi a morire in queste condizioni. È una sua idea di ribaltamento costante della prospettiva. Wang Yong Pin adesso vive a Parigi e quando era in Cina trovava l'occidente un posto veramente interessante, mentre ora che vive in Occidente trova che la Cina sia un posto estremamente interessante. C'è quindi un costante gioco di specchi. Questo è Thomas Hirshhorn, un artista svizzero che espone delle strutture: in questa c'è una specie di totem realizzato con un ingrandimento di un coltellino svizzero con le diramazioni che congiungono diverse immagini tratte dai media, dalla storia dell'arte, dalle pagine dei libri. Il fine è di creare una specie di stato mentale anti-svizzero in contrasto con l'idea di neutralità e di non intervento che sono alla base della nazione.
Questo è il lavoro che Sarah Sze, una giovane artista americana, ha presentato alla recente Biennale di Berlino dove tutti gli oggetti salivano fino a raggiungere un lucernario.
Questa è una delle immagini di paesaggio che più mi torna alla mente quando si parla di paesaggio: è un lavoro di Mario Merz presentato alla Galleria l'Attico di Sargentini a Roma negli anni Sessanta. C'erano tutti gli elementi di un paesaggio che si stava disfacendo completamente e mi sembra che rappresenti lo stato odierno della cultura dove ci sono scheletri e strutture meccaniche che entrano in contrasto tra di loro.
Noi curatori cerchiamo di mantenere l'autonomia dei lavori che includiamo nelle mostre, ma non sappiamo veramente come proteggerli, noi guardiamo quegli oggetti ma è un po' come leggere una lingua straniera senza avere la possibilità di interpretarla ed è, evidentemente, un'esperienza desolante. Il tentativo del curatore è però di diventare un traduttore che cerchi di mantenere intatto il significato dell'oggetto, il senso dell'opera d'arte, il messaggio dell'artista. Intatto il più possibile ma interpretandolo in modo che anche gli spettatori, anche chi non ha avuto l'esperienza del luogo, possa comprenderlo. Al tempo stesso credo che gli stessi artisti facciano un'opera di traduzione.
Gli artisti tentano di tradurre il concetto di contemporaneità attraverso elementi in transizione, attraverso elementi emotivi, sensoriali. Questa è l'installazione di Mattew Barney presentata a Documenta nel '92: si entrava dentro un tunnel, il corpo doveva affrontare uno spazio che lo comprimeva e si percepiva il senso del lavoro dell'artista. Il concetto di interattività non significa quindi l'obbligo di agire per completare l'esperienza, ma penso che sia interattiva tutta quell'arte che rende reale l'esperienza dello spettatore. Questo è un lavoro di Giuseppe Gabellone che è a doppia estensione, si può vedere aperto o chiuso, ma le due immagini, le due posizioni rimandano immediatamente l'una all'altra.
Questa è un'opera di Massimo Bartolini realizzata a San Giovanni Valdarno, dove c'erano anche degli odori, delle luci, dei suoni, tutta l'esperienza visiva veniva sostenuta anche da altre esperienze che non sono generalmente incluse nell'arte contemporanea. Questa è un'installazione di Paola Pivi dove la luce e il calore irradiato dalle lampade diventavano il principale elemento scultoreo. In questo modo metteva in azione il corpo dello spettatore, e il paesaggio visivo diventava anche un paesaggio fisico. Questo è un altro progetto di Rem Koolhaas dove si ragiona sull'esperienza fisica del luogo. Si tratta di un progetto (mai realizzato) per la Grand Bibliotéque di Parigi. Koolhaas anziché costruire la struttura sogna di scavarla; i buchi sono come delle cucchiaiate scavate dentro una scultura in modo che il gesto dell'architetto rifletta anche lo spazio, e chi usufruisce dello spazio percepisca fisicamente l'intervento architettonico nel momento in cui usa l'architettura. Questa è un'installazione di Monica Bonvicini (un'artista italiana che vive a Berlino) costituita da due potenti ventilatori che riproducevano l'effetto e la forza di un tornado; entrando dentro la stanza si veniva sospinti alle pareti, il vento diventava l'elemento scultoreo, il paesaggio. Questo è un altro progetto di Koolhaas, un enorme edificio in un porto olandese, un involucro che conteneva moltissime cose e che, di nuovo, si poneva l'obiettivo di riflettere il vuoto, la piattezza del paesaggio. Ancora una volta l'esperienza fisica di entrare all'interno dell'edificio diventava fondamentale e alterava il paesaggio circostante.
Questo è un gruppo olandese che si chiama Knox. Questo è un padiglione del museo dell'acqua che si trova in quella parte dell'Olanda che è stata creata artificialmente per proteggere il territorio dalle maree. L'edificio è interamente progettato al computer ma il risultato è una forma che possiamo definire organica, naturale. Anche questo gruppo di architetti ha realizzato un complesso di edifici pensando di intessere delle relazioni con il corpo delle persone che ne fruivano. Questi sono i bagni di un padiglione e uno dei componenti di Knox mi spiegava che in questa zona c'è spesso un vento terribile e quando si è pressati dalla necessità di andare al bagno si entra in questo padiglione da porte storte e pesantissime, che crea una metafora della fatica di arrivare e il peso di trattenere l'urina nella vescica; si viene continuamente sollecitati dalla necessità fisica e se uno non se la fa addosso e riesce ad entrare si trova nuovamente investito dal vento proveniente da diversi buchi alle pareti. L'esaltazione della tecnologia produce forme che ci ricordano quelle dei cartoni animati degli antenati, strutture di cemento disegnate al computer ma che potrebbero anche essere uscite da un disegno di un bambino.
Questo è il nuovo museo Guggenheim di Bilbao, una delle icone di fine millennio. Siamo in occidente e il concetto di globalizzazione è, in fin dei conti, desiderio di occidentalizzazione. Se osservassimo il mondo dall'alto non so se riusciremmo a distinguere le diversità che ci separano, diversità tanto più dolorose quanto più diventano chiare, conosciute, meno misteriose. Il direttore del Guggenheim di New York, Thomas Krens, disse che volando sopra Bilbao decise immediatamente dove si sarebbe dovuto costruire il nuovo edificio. Il museo diventa il contenitore e il contenuto, il logo, una scultura urbana, un'attrazione. Ecco, se noi curatori potessimo guardare il paesaggio dall'alto forse potremmo agire efficacemente come hanno fatto Thomas Krens e Frank Gehry (l'architetto che ha progettato il museo); non ci dovremmo aggirare in una maglia di intuizioni e forse riusciremmo a muoverci con gesti unici e immediati e il visitatore entrando in una mostra potrebbe avere delle visioni dall'alto come queste riprese da un dirigibile da Matthew Barney per il film Cremaster 1. In queste immagini i ballerini diventano ovuli, pulviscolo, insetti su un campo da football. Questa è un'immagine di scena del nuovo film Cremaster 2 che Barney sta girando nel deserto dello Utha.
Invece tentiamo di interpretare dal basso le varie Fate Morgane che ci si presentano davanti, e procediamo sperando di incontrare prima o poi la città vera, la realtà vera. Il nostro lavoro diventa simile a quello di un duo di artisti finlandesi che si chiamano Pansonic, che tramutano in musica e in immagini un impulso elettrico, utilizzando l'energia elettrica per creare degli effetti visivi. Noi curatori tentiamo di trovare un'armonia nelle energie che arrivano dalle varie parti del mondo e tentiamo di riunificare queste energie formando una linea di immagini che sono indizi per una serie di idee. Questa linea a spirale o questo cerchio di solito si chiama mostra e tutte le volte, come curatori, ci ritroviamo ad essere sonnambuli in mutande, in mezzo a paesaggi desolanti.
Questa in primo piano è un'opera di Tony Matelli e dietro si possono vedere alcune foto scattate da Gabriele Basilico a Beirut e una foto dell'Irlanda del Nord di Paul Graham. Noi, in qualità di curatori, abbiamo lo stesso potere di intervento che ha questo signore in mutande davanti a situazioni come quella di Beirut o a quella in corso in Irlanda del Nord, o attualmente in Bosnia, però ci muoviamo e sogniamo.
Abbiamo anche un'altra sensazione, quella di ritrovarci in un letto tentando di difenderci da un elicottero che ruota sopra le nostre teste: questo è un video di Roman Signer, un'artista svizzero, in cui c'è un uomo nel letto, che io immagino possa essere il curatore, che tenta di nascondersi e di difendersi da questo elicottero che gli vola sempre piò vicino alla testa. Goya parlava di un sonno, quello della ragione, che genera mostri, io spesso devo confrontarmi con una ragione mostruosa che genera sonno, il che credo sia il peggior risultato che un artista o un curatore possano raggiungere. Quindi il tentativo è di creare delle esperienze che siano per lo spettatore stimolanti non soltanto esteticamente, ma mentalmente, e che evitino soprattutto di farlo addormentare davanti al paesaggio culturale che si sta dipanando davanti a noi e che diventa sempre più complesso. Spero di non aver generato sonno anche in voi. Domande del pubblico: Quali sono i criteri con cui un curatore sceglie degli artisti giovani, anche sconosciuti, per una mostra? Francesco Bonami: Viaggio molto e, come ho detto all'inizio, c'è uno scambio sempre maggiore, un dialogo tra curatori e artisti e quindi spesso seguo questi suggerimenti. Credo che si sia sbloccato un po' il paradigma della privatizzazione delle mostre e dei curatori che tengono nascosti i propri artisti e che tentano di creare gruppi molto chiusi. Adesso si parla molto tra colleghi e credo che questa sia la fonte principale di conoscenza di nuovi artisti; ma anche il materiale che gli artisti ci mandano. È cambiato qualcosa nel panorama artistico e non credo più che le mostre siano una sorta di consacrazione di certi artisti, l'occasione per mostrare in contesti ben definiti il lavoro di alcuni di loro, perché ci sono lavori e artisti che possono funzionare in alcune mostre mentre in altre no. C'è quindi un'apertura che non vuol dire ecumenismo totale. Inoltre ci sono dei criteri personali e altri generali: ci sono artisti che a me non piacciono ma che ritengo facciano un lavoro interessante e che quindi devono essere inseriti in certe mostre. Fare una mostra non è un processo di esclusione, ma di chiarificazione di un concetto, di un'idea collegata a dei parametri precisi di tempo e spazio. C'è anche la situazione opposta di mostre come Cities on the Move, in cui per far comprendere più chiaramente la situazione asiatica contemporanea ci sarebbero dovuti essere i lavori di un migliaio di artisti; ma allo stesso tempo bisogna arrivare a un compromesso con il concetto tradizionale di esposizione in cui si deve difendere l'individualità di ogni artista. Il problema di una mostra con mille artisti è che si può fare soltanto con artisti sconosciuti perché un artista anche solo un po' riconosciuto non vuole partecipare a una mostra del genere. È un serpente che si morde la coda. Comunque la selezione avviene in relazione alle idee e ai progetti in particolare, non avviene mai in astratto.

Mi sembra che da una parte hai voluto sottolineare come in una mostra sia più importante l'impronta curatoriale che la celebrazione degli artisti e come l'intervento critico sia il motivo centrale a cui attorno ruota la mostra. Dall'altra però hai anche affermato che si assiste a un proliferare di mostre e di biennali in cui gli artisti e le idee sembrano sempre gli stessi. Esistono veramente dei momenti in cui l'idea del critico emerge in modo forte' Oppure siamo di fronte a un sistema satellitare consistente in un circuito di esposizioni che non fa altro che consolidare un sistema culturale, e quindi la partecipazione di determinati artisti a tutte le mostre non fa che confermare il loro valore a livello internazionale ma diventa una necessità di conferma di questo stesso sistema? Il panorama è sempre più vasto e ci sono moltissime realtà diverse. I nomi che si sentono più frequentemente sono quelli che vengono presentati per dare ufficialità a certe manifestazioni che vogliono essere internazionali. Il grosso problema è che i nomi più acclamati non sempre si presentano con i lavori migliori e quindi danno una visione completamente distorta della produzione artistica in contesti che non sono sufficientemente informati sulla produzione complessiva di questi artisti . Quindi i nomi rendono importante una mostra ma poi il lavoro non produce un progresso del linguaggio artistico in luoghi che hanno meno accesso a una completa informazione; mi sembra che il ricorrere di certi nomi