La Generazione delle Immagini


5 - 1998/99 - Landscape in Motion


Louise Neri



Louise Neri, critica e curatrice australiana, vive e lavora a New York dove svolge il lavoro di editor della rivista svizzera-americana Parkett. Ha curato, tra le altre mostre, la Biennale Whitney Museum del 1997, presso l'omonimo museo di New York, e una sezione della Biennale di San Paolo in Brasile attualmente in corso.

Esplorare senza sapere: alla ricerca di un immaginario degli antipodi.
Nel 1998 fui invitata insieme ad altri otto curatori a prendere parte alla XXIV Biennale di San Paolo, Brasile. La Biennale, sotto la direzione artistica di Paulo Herkenhoff, si proponeva di esplorare gli effetti che il desiderio culturale esercita sullo sviluppo dell'espressione artistica, con il concetto locale di antropofagia in qualita' di proposizione trainante. Nel 1928 infatti Oswald de Andrade, un esponente dell'avanguardia poetica brasiliana, aveva utilizzato il termine antropofagia nella sua provocatoria sceneggiatura nota come "Manifesto dell'Antropofagia", scritta per il primo movimento di protesta indigeno moderno. Il manifesto contiene molte affermazioni radicali, ma quelle piu' interessanti riguardano il continuo processo di contaminazione culturale che deriva dalla permeabilit alle culture diverse da un lato e dal desiderio di socialita' dall'altro, una contaminazione di cui il miglior esempio rimane ancora oggi l'orgia democratica del carnevale brasiliano. Si pu dire che il Manifesto Antropofago fu una delle prime strategie di appropriazione culturale chiaramente articolate e che, nel suo modo lontano e localistico, anticipo' il fenomeno mondiale del "mix culturale" come lo conosciamo oggi.

Il mio ambito curatoriale era l'Oceania. Sapendo quanto sarebbe stato impossibile "rappresentare" questa regione geograficamente frammentata e culturalmente diversificata, decisi di intraprendere una via piu' esplorativa e cominciai a delineare l'idea di un'Oceania come un progetto di storia spaziale e corporea. Ispirandomi al lavoro di alcuni storici del luogo, come la neozelandese Anne Salmond e l'australiano Paul Carter - le cui rispettive opere sull'esplorazione europea del Pacifico Meridionale intrecciano fonti indigene ed europee rivelando in tutta la loro vivida e problematica complessita' la forza immaginativa che scaturisce da questi primi incontri - cominciai a guardare all'Oceania come a una entita' antropomorfa dove la terra stessa diveniva l'oggetto dell'antropofagia, sia da parte dei primi abitanti, gli aborigeni australiani, sia da parte delle ondate di coloni europei che cominciarono ad arrivare 60.000 anni dopo. Tutti noi abbiamo una relazione di "consumo" con la terra che abitiamo in virt del nostro desiderare e agire su di essa. Percio' la storia del territorio e' una storia intersoggettiva, che descrive come popoli diversi si comportano dentro e verso il paesaggio e che coglie gli inevitabili conflitti che nascono dal fatto stesso che le persone abitano lo stesso luogo in modi diversi. La mia conferenza di oggi trae spunto da questo progetto di studio sull'immaginario dell'Oceania.

La storia dei primi incontri nei cosiddetti "nuovi" mondi e' soprattutto storia di violenza, segnata dalla progressiva trasformazione dei conflitti territoriali nelle piu' oscure e sinistre forme di desiderio schizoide che comunemente accompagnano i bersagli del colonialismo: il controllo, il possesso, l'assimilazione, la distruzione. Joseph Conrad chiamo' "Cuore di tenebra" questa forma di desiderio psicotico, vividamente articolato e teatralizzato nei racconti storici dei primi incontri tra l'uomo bianco e il "selvaggio" e poi immaginato dal cinema schlock e dai fumetti, quell'istantaneo brivido di adrenalina del non sapere, la paura di essere diverso e di vedere diversamente in un luogo alienato.

Per contrasto vorrei sottolineare come gli artisti, considerando la presenza dell'estraneo in se stessi come una condizione immanente, creino contesti dinamici, performativi, aperti al confronto, attraverso i quali e' possibile esplorare tali pulsioni conflittuali, piuttosto che tentare di definirle e fissarle all'interno dello spazio statico e dilatato della storia. Nel convertire pi che nel sopprimere le contraddizioni innate di queste situazioni di conflitto, gli artisti le liberano sotto forma di discorso attivo e fertile negli spazi perennemente contesi di territorio e corpo. Considerero' il lavoro di diversi produttori culturali attivi nell'ambito delle immagini in movimento, dal regista indipendente britannico Nicholas Roeg a Warlpiri Media, un video-collettivo aborigeno di una remota area del territorio settentrionale dell'Australia, che sono accomunati da interessi esplorativi per l'esperienza vissuta all'interno del territorio come metafora della condizione umana.

Nel 1970, dopo aver terminato il controverso film Performance, Nicholas Roeg si reco' in Australia per girare Walkabout che e' tuttora uno dei film con il piu' notevole immaginario cinematografico che abbia come tema l'incontro esistenziale tra l'uomo e il paesaggio. Quando nel 1997 Walkabout usci' con il montaggio originale del regista, Roeg disse che considerava lo spoglio e angosciante entroterra australiano un ambiente ideale nel quale riflettere sulla condizione umana. "Il fatto di trovarmi in un luogo sconosciuto mi aiuta. Sento di riuscire a far risaltare la situazione su uno sfondo poco noto" afferma Roeg, alludendo anche alle situazioni di rischio e di conflitto volontariamente create durante le riprese per suscitare la tensione necessaria a un'indagine esistenziale di questo genere. La trama di Walkabout inizia con una studentessa adolescente e il fratellino che vengono prelevati da scuola dal padre che li porta a fare un picnic nell'entroterra, che Roeg con un effetto surreale rende prossimo alla citta' appena lasciata. Cos nel bel mezzo del deserto, sotto un sole abbagliante, la ragazzina, assurdamente fuori luogo nella sua linda uniforme scolastica col cappello, dispone le provviste per il pranzo sul terreno roccioso, mentre il fratellino gioca a fare il soldato mirando a bersagli invisibili. Tutto d'un tratto il padre estrae una pistola e apre il fuoco contro di loro. Rifugiatisi dietro una roccia i bambini lo vedono montare in macchina, dar fuoco alla macchina e spararsi.

Cosi' i due ragazzi vagano volutamente senza meta nelle lande desolate; la ragazza cerca a fatica di mantenere una qualche assurda parvenza di comportamento civile in quel paesaggio vasto e inospitale, fino a che incontrano un giovane aborigeno alle prese con il proprio rito di passaggio, il suo personale walkabout . Nelle scene seguenti l'aborigeno offre loro la possibilita' di sopravvivere, in modo perfino piacevole, nello spoglio paesaggio circostante. Roeg descrive questa fase dell'avvicinamento dei ragazzi come una fase idillica, una graduale intensificazione di reciproca curiosita' che culmina in una scena in cui i ragazzi sguazzano nudi e sorridenti in un idilliaco specchio d'acqua. Ma i desideri che superano il baratro spazio-temporale tra le culture, avvicinando i ragazzi in un momentaneo sistema, contengono giu' i semi della differenza incolmabile che li allontanera'. Accompagnandoli indietro fino alle soglie della loro civilt, l'aborigeno insegue la ragazza in una casa abbandonata, in una danza di desiderio e seduzione che la induce alla fuga; poi, abbandonato dalla ragazza e perduto nel suo desiderio impossibile, l'aborigeno trasforma la danza in una danza di morte e infine si impicca. I ragazzi bianchi proseguono fino a un'autostrada, poi raggiungono una cittadina e infine da la' probabilmente la citta'. La sequenza finale mostra la ragazza, ormai diventata una giovane donna, assorta nei pensieri alla finestra della sua cucina di periferia.

Walkabout e' uno dei film preferiti da Tracey Moffat. Quasi riprendendo il discorso da dove Roeg l'aveva lasciato quasi trent'anni prima, la Moffat nella sua fuga fotografica, magnetica e enigmatica, intitolata Up in the Sky (1997), presenta oscure evocazioni religiose della compenetrazione tra individuo e paesaggio. Ma anziche' raccontare la storia seguendo la struttura lineare di un film narrativo, la Moffat crea una serie di fotogrammi di un film inesistente, una sceneggiatura dal finale aperto ambientata in un paesaggio vasto e sconfinato, una storia con molte entrate, ma senza un finale. La Moffat aggiunge alla sua consapevolezza dell'interazione umana con il paesaggio e dentro di esso un lirismo formale selvaggio, evocando consapevolmente alcuni film-chiave dell'immaginario esistenzialista australiano quali Mad Max e Wake in Fright.
Ambientando Up in the Sky in una macchina che viaggia verso una destinazione inesistente la Moffat individua dei momenti ambigui ed enigmatici nella non-trama a seconda dei personaggi che incontra e delle localita' che raggiunge lungo la strada. "Ho scelto i personaggi per quello che giu' sono, non per quelli che vorrei fossero" (cogliamo qui l'eco di Pasolini, uno dei registi preferiti dalla Moffat). L'artista dunque fa in modo che le caratteristiche innate di ogni attore e di ogni luogo, cosi' come lei le percepisce, si drammatizzino da sole sotto la sua direzione. Nel paesaggio spoglio e vuoto la realta' delle persone si trasforma in un farsesco sogno ad occhi aperti: un gruppo di corpi femminili che lavorano su carcasse di camion arrugginiti ; una giovane donna bionda che scappa con un bimbo aborigeno da un gruppo di suore che la inseguono; due uomini che lottano nella polvere. Momenti che si cristallizzano senza mai fondersi.

"é molto difficile descrivere una cosa mentre la si guarda, tuttavia in questa esperienza c'e' qualcosa che ti obbliga a continuare perche' hai l'impressione quasi concreta di essere parte di un tutto. Dunque, senza voler enfatizzare la sensazione, direi che quello che intendevo fare fosse in un certo qual modo realizzare quella situazione. é la possibilita' che nasce da narrazioni che sono in competizione l'una con l'altra". Avendo riflettuto su come i fatti spesso sono rappresentati dalla storia in modo conflittuale Geoff Lowe cerco' di rappresentare il modo in cui percepiamo le cose piuttosto che descrivere le cose che percepiamo. Prendendo dalla tecnica Quattrocentesca degli studioli Rinascimentali, che fondevano insieme il quotidiano e l'allegorico attraverso un processo di partecipazione creativa diretta, i dipinti di Lowe danno vita e mettono in pratica un complesso discorso sul ruolo centrale e controverso della pittura nella percezione e nella gestione della realta' vissuta.

Attraverso la discussione e l'attiva collaborazione con altri, Lowe cerca di individuare e dipingere "i modelli interiori che portiamo con noi", modelli che si riferiscono a questioni centrali nella cultura nevrotica di oggi, rendendone i costrutti discorsivi e instabili. In ogni quadro sono presenti immagini che indicizzano una gamma di interessi personali e collettivi essenziali al desiderio, all'ecologia, all'amore e alla fede e che confondono spazio e tempo in un'unica entita' eterotopica. La tecnica stessa della pittura, riflettendo chiaramente il nesso debole che questi soggetti frammentari hanno tra di loro e con la loro cornice temporale mobile, e' di proposito fragile, frammentata, in movimento; diremmo che e' simile alla vita vera, piu' che verosimile.

Geoff Lowe comincio' ad interrogarsi sulla sua posizione di artista all'interno della fragilita' spazio-temporale del mondo dell'esperienza collaborando regolarmente con altri, integrando passaggi formali e empirici al di fuori del linguaggio del suo lavoro per sostenere l'instabile e insolubile apparenza delle cose. Egli penetrava nella vita dei suoi dipinti letteralmente e in senso metaforico utilizzando tecniche imparate nelle sedute di psicoterapia di gruppo, cio' partire da quello che si conosce come risultato della vita che si e' gia' vissuta al fine di esplorare concetti piu' ampi per creare situazioni dinamiche e animate.

La creativita' di Lowe si e' aperta ora alla contaminazione tra diversi mezzi espressivi, che egli sviluppa e dirige con l'artista Jacqueline Riva. Tra i numerosi video da loro prodotti citiamo Scenes from the Whipstick Forest..., una serie di sketch video in continua evoluzione, creati nel momento dell'esperienza reale di mettere insieme delle persone per verificare che cosa emergera' da loro"..Utilizzando una telecamera non professionale, uno strumento "veloce, democratico, di facile uso anche per un gruppo, economico, divertente" e che Lowe e Riva adoperano con relativamente poco talento e abilita', essi registrano delle performance di gruppo all'aperto tra gli imprevisti del paesaggio, e nel far questo trovano la via per ritornare a cio' che significa il non sapere. "La videoregistrazione come la pittura in quanto si tende ad imparare qualcosa sul mondo mentre si osserva cio' che puo' essere rappresentato... certe sensazioni non si rivelano da se', ma hanno bisogno di un significato". Cosi' l'immaginazione di Lowe si trasferisce nel mondo esterno che essa utilizza come una forma di scena temporale aperta dove la storia accade e la cultura si forma. "Ho sempre avuto una grande fiducia nel luogo, piuttosto che nella nazione o nello stato. Esso e' l'opposto della globalizzazione, poiche' l'idea di localita' deriva dalle proprie esperienze ripetute. Ognuno costruisce un significato di luogo a seconda di quello che gli accade".

La produzione video di Francis Jupurrurla Kelly e' situata nella specificita' di luogo, tempo, struttura sociale e linguaggio della sua tribu' , i Warlpiri, una remota comunita' aborigena che vive presso Yuendumu nel territorio settentrionale dell'Australia. Stirpe e paesaggio sono i due temi centrali del pensiero Warlpiri. I loro rapporti di tipo metonimico e metaforico sono espressi in modo fortemente drammatico nelle cerimonie rituali dove le rappresentazioni mettono in scena e rinnovano queste relazioni: Jukurrpa o "la Legge" e' un ambito spazio-temporale della conoscenza che possiede potere unificante e forza perenne, che permea e tuttavia differisce dallo spazio-tempo che genera nel mondo. Le storie che descrivono Jukurrpa narrano le azioni di alcuni esseri e di come essi creano e ricreano il paesaggio, le sue risorse e le sue forze naturali. Queste storie e le reti di parentela si posizionano metaforicamente nel paesaggio sconfinato, attraversando infine l'intero continente.

Jupurrurla ha sviluppato insieme al gruppo Warlpiri Media alcune modalita' di utilizzo del video e delle trasmissioni televisive che in sintonia con le premesse di base della tradizione culturale tribale nella sua forma orale e performativa. I meccanismi adottati dalle popolazioni indigene per mantenere l'autonomia politica e culturale sono affidati interamente all'abilita' di costruirsi, di immaginarsi, attraverso i propri occhi e quelli del mondo. Se nello spazio di una generazione le modalita' di rappresentazione e di riproduzione delle forme culturali vanno perse, e' la civilta' stessa che viene distrutta. Lo sforzo principale che sta all'origine della produzione culturale di Jupurrurla riguarda proprio la questione di come i media possano essere efficacemente inseriti all'interno di Jukurrpa - il che privilegia i processi di riproduzione piuttosto che i prodotti e limita le espressioni che si riferiscono agli ambiti pi nascosti e segreti della cultura - per riprendere e riattivare una narrazione tribale condivisa, ristabilendo cos un senso di luogo senza minacciare i fondamenti stessi della cultura.

Jupurrurla sostiene che il continuo, ripetuto movimento della telecamera nei suoi video conferisce significato a ogni passaggio. Le panoramiche non seguono il movimento del suo occhio, ma quello di personaggi non visti che convergono sul paesaggio, secondo la convenzione rituale nella quale alcune danze storico-rituali vengono "introdotte" da una certa distanza per meglio rendere la contiguita' e il corpus di tali storie. L'occhio non iniziato vede un video non professionale piuttosto che un lavoro di autorita' epica, ma considerando i concetti Warlpiri di stirpe e di luogo, il termine "home video" e' molto produttivo. Trip to Labbi-Labbi, la produzione preferita di Jupurrurla, e' il racconto di un lungo viaggio nel Deserto Occidentale per riaprire un territorio che la gente non aveva visto per decenni, un nastro che spesso fa piangere apertamente il pubblico Warlpiri. Jupurrurla visito' il sito con trenta membri Warlpiri, cioe' il numero necessario secondo le norme che regolano l'affinita' familiare per sorvegliare sull'identificazione e articolazione di rapporti nella riproduzione culturale . Cosi' il processo di memoria collettiva diventa il sistema attraverso il quale si stabilisce e si realizza il processo di produzione, raggiungendo lo scopo di Jupurrurla di creare Yapa (media) che esistono veramente all'interno della cultura Warlpiri e si nutrono di essa.

Date le complesse condizioni avvaloranti la produzione artistica nella cultura aborigena che riguardano la concezione, l'interpretazione e la produzione di espressione culturale, Jupurrurla va considerato un regista, piu' che un autore, di espressioni di cultura comunitaria attentamente negoziate e orchestrate. Egli modella il suo discorso elettronico sui principi dell'orientamento, nel senso che ognuno parla da e in nome del proprio luogo. Ogni storia percio' proviene da un luogo particolare e viaggia, al suo passaggio forgiando legami che definiscono le rotte seguite dagli uomini e dalle cerimonie. Una lunga storia, un grande mito, una decisione importante richiedono molte persone e coinvolgono molte comunita' nella loro emanazione. Percio' questo trasferimento del discorso Warlpiri al video e' una operazione di natura altamente esplorativa.
Heaven (1997) un video all'apparenza amatoriale, semplice, quasi monotono e' una versione sovversiva del film antropologico o sulla vita selvaggia realizzato da Tracey Moffat. L'artista trasforma il suo ambito di lavoro, preso a prestito dalla pura tradizione naturalista (l'inquadratura predeterminata dall'artista per tentativi ed errori e poi gestita a distanza, mandando un certo numero di donne in varie localit dove si pratica il surf in giro per l'Australia con il compito di girare, seguendo le sue istruzioni, alcune scene che lei poi compone in un flusso continuo apparentemente ininterrotto) in una sfida scientifica dal grande risvolto emozionale. Invece che popolazioni indigene o animali, vediamo il "Grande Maschio Australiano" tipologicamente rivelato nei preliminari e nella fase immediatamente successiva il "Grande Surf Australiano", al suono di tamburi palpitanti (tratti dal famoso documentario incompiuto di Maya Deren sul voodoo a Haiti) e di onde che si frangono. E come in molti film sulla natura selvaggia, ma diversamente dai film sul surf, i momenti orgasmici del mitico sport sono relegati alla ripresa a distanza o sono del tutto assenti. D'altra parte seguiamo l'occhio della telecamera mentre insegue i ragazzi negli spogliatoi all'aperto sulla spiaggia, spiandoli mentre si spogliano e si preparano. Come quando si osserva la vita della natura selvaggia, il gioco a nascondino della telecamera con la sua preda fallica e' capriccioso e precario; la reazione dei soggetti varia dalla noncuranza all'indifferenza alla civetteria alla patente ostilita'. La "caccia" continua fino "alla morte", quando la mano di una donna (quella della Moffat, la sua firma) improvvisamente compare da dietro la telecamera e strappa via l'asciugamano che "la vittima" tiene avvolto attorno alle sue parti intime.

Nello scenario continuamente ripetuto del Paradiso scoperto e consumato, ho tentato di delineare una trama alternativa nella produzione culturale delle immagini in movimento che abbia come tema il processo di esplorazione in se', piuttosto che una narrazione precostituita. Essere un esploratore - come ognuno di questi produttori culturali di fatto e' - significa abitare un paesaggio, un mondo di oggetti potenziali con i quali ciascuno conduce un dialogo immaginario. La natura attiva che lo spazio e il tempo dell'esploratore possiedono rifiuta l'impulso di imporre strutture tangibili su quelle meno visibili, evitando di interpretare in senso letterale confini e relazioni metaforiche e permettendo loro di rimanere dinamiche e sensibili. Proprio in questo spazio dinamico e sensibile risiede un altro segno di speranza ancora piu' fragile, in questo discorso spaziale aperto di esplorazione culturale dove il non sapere diviene uno stato positivo, performativo di investigazione, di esperienza vissuta sul momento e di descrizione basata su questa esperienza.