La Generazione delle Immagini


7 - 2000/01 - Racconti d'Identita'


Rirkrit Tiravanija



Vi farò vedere delle diapositive. Non seguono un ordine cronologico, ho iniziato da un punto diverso, solo per vedere come sarebbe andata.

Tanto per incominciare, ci sono delle domande?
Inizierò con un lavoro che penso sia del 1995. Parto da qui per sfuggire ai miei stessi cliché, perché credo che molti di voi abbiano sentito parlare del mio lavoro sul cibo. La cucina e i piatti restano sempre lì, ma oggi la visita inizia dal soggiorno.
Ho cominciato a lavorare verso la fine degli anni Ottanta a New York, dove sono arrivato dalla Thailandia, dopo aver finito la scuola. All'inizio mi sono sforzato di capire quello che cercavo di fare. Mi chiedevo: perché faccio arte? Una delle mie prime idee era legata al progetto di tornare a casa.
In quel momento, "casa" per me voleva dire Thailandia, anche se - pur essendo cresciuto lì - dopo averla lasciata, mi ero reso conto di non sapere esattamente da dove venissi. In un certo senso, quel lavoro nasceva da una crisi, dal mio bisogno di ritrovare me stesso. Alla fine degli anni Ottanta, a colpirmi erano alcune opere che vedevo a New York, che potremmo definire di critica istituzionale. Credo di avere interpretato quella critica in relazione alla mia crisi, come tentativo di ritrovare una qualche identità o cultura.
Nei miei progetti di allora era sempre presente il problema di come decifrare il concetto d'istituzione, come riuscire a trovare la mia identità misurandomi con l'istituzione. A un livello molto semplice, potrei dire che l'Occidente era l'istituzione di cui avevo bisogno per ritrovarmi, per capire come uscirne. Nel fare arte, ci si trova sempre a confronto con questo genere di struttura. Così ho iniziato a fare lavori che ponessero in discussione il contesto in cui vive quello che faccio.
In questa diapositiva vedete una mia mostra a Berlino, con uno spazio che sembra un salotto. Era la mia prima personale in quella città e la galleria era nuova, giovane. Ero il secondo o il terzo artista che presentavano dall'inaugurazione. La galleria era nata dalla collaborazione tra due persone, Tim Neuger e Burkhard Riemschneider. La mia mostra si basava su di loro, sulla loro decisione di lavorare insieme e riuniva i salotti di entrambi: Tim e Burkhard avevano portato lì tutti i loro mobili. Chi entrava si trovava in una galleria che aveva l'aria di una casa. C'era anche una televisione sempre accesa: concentrandosi sullo schermo, si scopriva che trasmetteva una soap-opera autobiografica interpretata dagli stessi galleristi, che raccontava del loro incontro e della decisione di aprire lo spazio. Così i visitatori li incontravano nel loro soggiorno, anziché in una mostra.

Questa è una serata a Stoccolma, un evento collettivo durato 24 ore, quasi un rave artistico. Quella sera è venuta tanta gente, lo spazio era enorme e ognuno faceva qualcosa. Era il 1996. Io cucinavo cibo e preparavo curry già da un po', così il pubblico era abituato al fatto che usassi la cucina e il cibo thailandese come base per il mio lavoro. In quel caso avevo deciso di lavorare con un gruppo di studenti di Stoccolma: abbiamo preparato polpette svedesi - un'idea abbastanza ovvia e stereotipata. Puoi andare all'Ikea e mangiarle ovunque, sono l'icona di un pranzo svedese.
Quello che ho fatto è stato seguirne la ricetta di base, aggiungendo però del curry thailandese alla miscela. Così quando mordevi una polpetta, invece di sentire il solito gusto di carne, pane e salsina, ti trovavi sulla lingua un sapore speziato e piccante.
Ho sempre trovato interessanti queste "situazioni ibride" in cui l'adattamento di una condizione a un'altra produce qualcosa di sconosciuto, anche se sotto forma di un'immagine familiare. Abbiamo cucinato per tutta la notte, una vera montagna di polpette.
Questo pezzo l'ho realizzato per la Biennale del Whitney nel 1996. In realtà avete visto due immagini, questa è una ricostruzione dello stesso lavoro in un altro spazio. Sono partito dal fatto che molte persone dicevano che il mio lavoro è comunicativo, che si fonda sulla comunicazione e lo scambio - com'è ovvio, quando sei in cucina e prepari del cibo. Per me era chiaro.
Nello stesso periodo, sempre a New York, avevo conosciuto altri artisti con cui m'incontravo per suonare, cercando di creare qualcosa che assomigliasse alla musica. Quindi ho deciso di sviluppare uno spazio in cui, invece di sederti, chiacchierare e mangiare, venivi per suonare. Una sala aperta, con gli strumenti e tutte le apparecchiature. Di solito suonavamo un unico accordo, solo quello, il più a lungo possibile. Ovviamente, quando uno si stancava, lasciava posto a un altro e c'era sempre qualcuno felice di unirsi al gruppo e mettersi a suonare. In genere, andavamo avanti dalle due-tre alle cinque ore, sempre con la stessa cosa.
Questo spazio è la ricostruzione di una galleria. La prima volta l'ho presentato da Gavin Brown a New York. Quello che vedete qui assomiglia molto a quella prima versione. C'era un muro che divideva lo spazio espositivo (questa parte vuota sul davanti) dall'ufficio, dove suonava una band. In quel caso, la musica serviva da accompagnamento a un film di Warhol, Sleep. Ti ritrovavi con quest'immagine di uomo che dorme e un muro di suoni provenienti dal retro. In seguito, abbiamo dovuto cambiare, perché il film di Warhol è molto difficile da trovare. Ho trovato un altro spezzone che per me è altrettanto importante, quello in cui Marcel Broodthaers fa una performance a Hyde Park Corner. Su quest'idea torneremo ancora. Broodthaers, che aveva una mostra alla Tate Gallery, era andato verso il parco con una lavagnetta per bambini sottobraccio. Lo Speakers' Corner è il famoso angolo in cui la gente sale su una scatola e inizia a parlare. Sulla lavagna Broodthaers scriveva cose del tipo: "Silenzio", "Andate alla Tate" o "Siete tutti artisti". Io ci trovo una relazione interessante, che di nuovo riguarda le strutture istituzionali.
Questo è un pezzo che ho realizzato per la mostra Cocido y Crudo a Madrid nel 1994. In pratica, quando sono arrivato all'aeroporto ho scaricato una specie di bicicletta-cucina (qui la vedete piegata) e sono andato a piedi da lì al museo. Per me era un "viaggio di ritorno", il mio modo per (re)invadere uno spazio, come avevano fatto i conquistadores in Sudamerica alla ricerca dell'oro. Volevo ripercorrere quel viaggio all'inverso.

Così mi sono imbarcato in un assurdo giro a piedi, dall'aeroporto fino in centro e poi in giro per la città, nella speranza di cucinare un pranzo o una cena con le persone che avrei incontrato. Come vedete, non c'è in giro nessuno! In realtà ho conosciuto alcune persone e altre sono venute a incontrarmi, ma è stato molto difficile farlo. Il lavoro era attivo finché è rimasto all'esterno, una volta entrato nel museo si è trasformato nella solita scultura appoggiata sul pavimento. Avevo attaccato una videocamera alla bicicletta; l'accendevo appena sveglio e la spegnevo la sera. Era sempre in funzione, in modo che ci fosse una documentazione di quello che succedeva.
Adesso andiamo a Digione, in Francia. Sono stato invitato a questa mostra al Consortium nel 1996, e per la prima volta ho deciso di recuperare dei vecchi lavori e riadattarli. Tutti i miei progetti si sono sempre misurati con lo spazio, la mostra o lo spazio della mostra, e mi chiedevo come sarebbero cambiati se li avessi esposti in una condizione diversa. Ho deciso di usare opere mie, ma anche di altri artisti presenti nella collezione, che pensavo avrebbero stimolato un commento o un rapporto con ciò che stavo facendo.
In questa immagine c'è la foto di un lavoro di Louise Lawler, una foto dello spazio stesso mentre viene pulito e reimbiancato. Sul calorifero ci sono delle cartoline con la serie sulle caldaie di Michael Asher - erano foto che aveva scattato in giro per Digione, che poi sono state riprodotte così. Questa è la sala centrale, con al centro un gruppo di miei lavori di tre momenti diversi. Beh, mi rendo conto che così sembrano solo sedie e scaffali, o posti in cui stare seduti o in piedi. Cercherò di scendere un po' di più nei dettagli? Attorno c'erano ancora altre opere della collezione.

Il pezzo più vecchio era Café Deutschland, uno spazio per bere caffè turco. Poi c'era un bar con un videoregistratore, intitolato Fear Eats The Soul (La paura mangia l'anima), come il film di Fassbinder. Il terzo era una cucina in stile simil-bavarese, dove servivano zuppa di noodles. Non ho esposto questi lavori perché precedenti, ma perché realizzati a partire da qualcos'altro: il bar dal film di Fassbinder, il Café dal dipinto di un pittore tedesco degli anni Ottanta, la cucina da un film intitolato Drachtenfutter. È un film ambientato ad Amburgo, in una cucina, e ha per protagonista un immigrante che cerca di restare in Germania: il nucleo sta in una discussione su come essere un buon cittadino tedesco, durante la quale un marocchino dice ad altri due uomini che lavorano con lui che per essere un buon tedesco devi sapere come si prepara una buona zuppa.
Questa è un'altra "sala da musica", la ricostruzione di quella in cui provavo con i miei amici a New York. Sullo sfondo ci sono un orologio e un ventilatore, che sono opere di un altro artista newyorkese, Matthew McCaslin, sempre della collezione del Consortium.
Ecco un altro angolo della stessa mostra, che era molto ampia. I cuscini che le persone stanno usando per dormire fanno parte di un lavoro di un artista di Vancouver che si chiama Ken Lum, a sua volta ispirato a un pezzo di Robert Smithson - un'altra duplice relazione, un angolo a specchio riempito di cuscini. L'opera era già installata: io ho solo preso alcuni di quei cuscini per trasferirli in questo spazio.
Pur non essendo una collaborazione diretta, l'esperienza di Digione è stata molto stimolante: mi ha insegnato l'importanza di lavorare in relazione ad altri.

Questo è, credo, il secondo lavoro che ho fatto seguendo questa struttura: è un progetto per il Museum of Modern Art di New York, intitolato Playtime, una citazione dal film di Jacques Tati. Questa che vedete è una replica in scala 1:2 della casa dell'architetto Philip Johnson. Il MoMA ha una sua storia, e Johnson è molto legato alla costruzione del museo, tanto che ora è una sorta di padre, di patrono, soprattutto per il dipartimento d'architettura. Il giardino in cui si trova la casa, per esempio, è stato progettato proprio da Johnson - a un certo punto è diventato molto celebre, negli anni Sessanta, quando l'artista svizzero Jean Tinguely ha presentato la sua macchina "suicida", che si è poi autodistrutta. Ma ovviamente, col tempo, il museo è diventato un museo. Ho deciso di giocare con questa situazione, introducendo uno spazio apparentemente normale, progettato per i bambini: loro venivano a giocare e noi invitavamo vari artisti a lavorare con loro. Una situazione molto energetica e molto caotica. Il museo ha dimostrato un certo interesse, ma ha fatto un'enorme fatica a gestire i bambini. Questo è lo stesso progetto, presentato in un museo diverso, molto più a suo agio nel rapporto coi bimbi.

Questo è un pezzo che ho creato in Belgio, un paese molto famoso per le cozze. Sono il piatto nazionale. Così ho fatto un padiglione per le cozze, un altro omaggio a Marcel Broodthaers, che era belga. Per lavorare ho viaggiato molto e ovviamente la costruzione di quella che è diventata la mia identità si è legata al movimento?
Oltre al "giro" di Madrid con la bicicletta, ho realizzato un altro lavoro basato su un viaggio, da Los Angeles a Filadelfia. Mi avevano chiesto di fare un progetto per il museo di Filadelfia, un museo famoso, con un'ottima collezione di Duchamp e Brancusi, che per me è stata un punto di partenza importante. L'operazione rientrava nel loro programma di Museum Studies. Ho scritto che avrei voluto compiere un viaggio attraverso gli Stati Uniti, invitando cinque studenti thailandesi a parteciparvi con me. Inizialmente speravo di far venire un'intera classe, ma poco alla volta il numero è stato ridotto a cinque, il massimo possibile.

tudiare arte in Thailandia significa avere molte difficoltà nell'accedere a questo tipo di situazione. È praticamente impossibile fare un viaggio all'estero per andare a vedere dipinti e musei. Ovviamente, grazie a riviste come Flash Art e simili, siamo informati per quanto riguarda le immagini e gli articoli. Io volevo sfruttare la mostra per far viaggiare degli studenti, perché potessero vedere varie cose e l'America. Ci siamo procurati una specie di roulotte - una molto vecchia, molto classica, che a me sembrava strana. Siamo andati nel Grand Canyon e poi abbiamo avuto un grosso incidente: il caravan con cui eravamo partiti si è completamente distrutto, ma nessuno si è fatto troppo male, così ne abbiamo affittato uno più piccolo e siamo andati avanti.
Adesso andiamo a Zurigo. La mostra si teneva in uno spazio chiamato Museum für Gegenwartskunst: in realtà lo spazio espositivo è sponsorizzato da una grande catena svizzera di supermercati, la Migros. Quando il curatore ha iniziato a parlarmi di quest'idea, ho fatto una ricerca sui supermercati e alla fine ho proposto di ricostruirne uno in loco.
Quando decidi di aprire un supermercato, in base al numero di metri quadri a tua disposizione, puoi calcolare lo spazio occupato dagli scaffali e quindi scegliere i prodotti che vuoi vendere.
In mostra avevamo una piccola parte storica, con un vecchio furgone della Migros. C'era anche una sezione dedicata al cibo e all'abbigliamento, praticamente a tutte le cose necessarie per vivere: cucina, cibo, abiti, medicine, dentifricio, un angolino coi giocattoli...

In questo supermercato ho installato anche dei vecchi lavori, in modo che il pubblico potesse venire, fare la spesa, comperare le cose esposte e allo stesso tempo incontrare alcuni miei pezzi degli anni precedenti. La relazione da cui è nata la mostra è abbastanza simile a quella di Digione.
Qui siamo in una galleria di Parigi, con una mostra che prendeva il via da strutture architettoniche realizzate per le attività dei bambini. Questa situazione in particolare nasce da un disegno di Le Corbusier, una struttura prefabbricata per abitazione, chiamata "Domino".

Questo è un altro piccolo lavoro parigino, una tenda su cui vengono proiettate delle diapositive, installata in una piazzetta di fronte al Palais de Tokyo. Lì c'è sempre gente che va su e giù in skateboard, così per le diapositive ho scelto tante immagini di skaters.
Ho iniziato a ricostruire degli spazi, a creare modelli di altri spazi e a riutilizzarli, ad adottare una non-architettura mobile, come le tende. In questa situazione particolare c'erano due tende in cui venivano proiettati dei film: la gente poteva entrare, guardarli e prendere un tè.
Tutto è cominciato quando mi hanno invitato a partecipare a una mostra alla National Gallery di Ottawa, in Canada. Era la mia prima volta in Occidente. In realtà sono passato dall'Italia, ma solo per arrivare alla capitale del Canada. Il tema della mostra era il vivere in esilio, l'essere un artista che si muove e non lavora dalla prospettiva del proprio spazio, ma da quella di un altro.
Io ho presentato un lavoro basato sul primo spazio in cui ho abitato. Prima di arrivare a Ottawa avevo la testa piena d'immagini o idee su come sarebbe stato andare in Nord America, vivere in America. Quando finalmente sono arrivato mi sono sentito scioccato, paralizzato. Per tre mesi sono rimasto quasi sempre chiuso nella mia camera da letto, senza andare da nessuna parte. Non facevo altro che guardare la televisione.
Allora ho deciso di ricostruire quella stanza, nella stessa città in cui si svolgeva la mostra. Ho preparato un'intervista con altre persone che abitavano a Ottawa ma venivano da luoghi diversi, chiedendo loro di parlare della loro memoria dello spazio, o di come si erano sentiti appena giunti in quel mondo diverso.

È l'intervista che vedete trasmessa dalla televisione nella stanza. In un angolo c'era anche un libro con le ricette delle persone intervistate: quelle che preparavano quando volevano sentirsi a casa, o quando volevano ricordarsi di come si sta a casa, attraverso un piatto speciale. Abbiamo anche preparato una cena con tutte queste ricette, insieme agli artisti della mostra e alle persone del video. Questa è Venezia, la Biennale scorsa. Avevo proposto di costruire un padiglione, il primo padiglione thailandese. La mia idea di partenza era molto politica, allora ho pensato di piantare un albero. È un albero speciale, che si trova solo in Thailandia: un albero del tè, quindi grande e tanto vecchio. Intorno all'albero c'era una piattaforma su cui poteva sedersi la gente. Ho anche fatto una performance durante la cerimonia d'apertura.

Questo è un progetto che ho realizzato due volte, a Colonia e a New York: una ricostruzione dell'appartamento in cui vivo. Il progetto originale, in Germania, era perfettamente funzionante, cucina, bagno e gabinetto compresi. Lo spazio era aperto 24 ore su 24. Io avrei voluto che rimanesse aperto sempre, sette giorni su sette, ma la domenica erano costretti a chiudere per legge. Così restavamo aperti sei giorni di fila.
La gente poteva trasferirsi lì e restarci, passarci la notte, farsi un bagno, andare a dormire. Siamo andati avanti tre mesi, e "la casa" è stata usata da un sacco di persone. E visto che era anche uno spazio espositivo, molti hanno iniziato a presentare i propri lavori in giro per le stanze. Questa è una performance in cucina.
Mi hanno invitato a Glasgow, chiedendomi un progetto legato alle manifestazioni del 1999, anno in cui la città era capitale europea dell'architettura. Ho pensato di realizzare un cinema che bloccasse il centro della città, all'intersezione tra le vie principali, che impedisse alle macchine di passare. Abbiamo intervistato le persone del quartiere per capire dove fosse il posto giusto e anche per conoscere i titoli dei loro film preferiti, il genere di film che avrebbero voluto vedere alla fine del secolo.
Così una sera gli abitanti sono scesi in strada portandosi dietro una sedia e noi abbiamo preparato sandwich per tutti. Avevano scelto quattro film, due classici e due cartoni animati: Casablanca, La vita è meravigliosa [Frank Capra, 1946], un classico film americano di Natale, A Bug's Life e Il Libro della giungla. Ogni film era proiettato su uno schermo diverso, per permettere al pubblico di scegliere cosa guardare.

Quando inizi a vedere tante case, tanti posti in cui stare, gente che mangia, viaggiare in macchina, andare al cinema, suonare? - tutto questo va benissimo, sia chiaro, ed è bello avere tante cose da fare - credo, a questo punto, di cercare di raggiungere, o forse ho già raggiunto, un punto in cui accarezzo l'idea di fare meno. Certo, anche cucinare è minimale. Fai molto, ma in realtà non è così: puoi farcela anche senza dare l'impressione di fare molto. Sto cercando di pensare a come fare di meno, pur facendo qualcosa. Questo rimane fondamentale per me: in fondo, ho sempre costruito una cornice, una casa, uno spazio, una stanza in cui fare qualcosa, come un cinema in cui vedere dei film. Ho sempre sentito che stavo costruendo una piattaforma, uno spazio.

Ora - e con questo arrivo all'ultima diapositiva e alla mia ultima mostra qui a Milano nella galleria Emi Fontana - mi sono orientato sull'idea di realizzare una pubblicazione, in questo caso una rivista. È una proposta, uno spazio in cui la gente può offrire dei contributi, molto liberamente, in termini d'idee come di generi. Una piattaforma in cui riceviamo alcune cose e da cui le riproponiamo in un'altra forma. Insieme alla pubblicazione c'è l'idea di una stazione, un posto in cui la gente possa entrare e depositare qualcosa. E poi andarsene altrove.