La Generazione delle Immagini


7 - 2000/01 - Racconti d'Identita'


Tania Bruguera



Identità multipla, identità invisibile, comportamento invisibile

"... era un così bravo comunista da essere riuscito a diventare invisibile".
Guillermo Cabrera Infante 1.

Una società con l'aspirazione comunista a creare "l'uomo nuovo" non è esattamente il luogo ideale in cui crescere e sviluppare la propria individualità. Ciononostante, sentirsi a proprio agio in mezzo a tutte le manifestazioni di un'arte - la cosiddetta "performance art" - che richiede con particolare forza una "presenza", rappresenta, se non una vera contraddizione, almeno uno spazio algido. Persistere nel continuare a vivere in questo spazio senza territorio è forse, più che una manifestazione di testardaggine, una necessità. La necessità di affrontare e rimanere ai margini della contraddizione, la necessità di sentirsi "ai bordi", di dover domandare (domandarmi) fin dove arrivano i limiti delle definizioni, dei significati, dei contenuti, non rientra nell'educazione dell'essere "di un tipo nuovo". Anche la fede, che in qualche modo prende parte (o partito) alle ideologie, contribuisce al mio scheletro mentale.

Ho sempre voluto sparire. È una necessità latente in ogni mia opera. Non sempre riesco a sparire. A volte mi sono tradita con l'efficacia teatrale, provocatoriamente atemporale, di Houdini. Altre volte, più modestamente o sentimentalmente idealista, ho avuto l'ambizione di essere come quei fabbri giapponesi che con grande raffinatezza hanno forgiato le impeccabili sciabole usate dai più fieri e leggendari guerrieri. Cancellare la persona da cui ha origine l'oggetto, insieme all'inerte necessità artistica che questo sia visto come un viaggio dell'ego, è un'altra tensione nelle mie aspirazioni a sparire. L'arte della performance è forse il mezzo migliore per autocancellarsi coscientemente e pubblicamente.

Quando realizzo le mie azioni, scompaio. Il mio corpo entra in uno stato di alta tensione e vigilanza che mi fa sparire, mi isola da ciò che mi circonda, ma ciò avviene, paradossalmente, quando sono maggiormente presente (per gli altri). La mia opera cerca di situarsi nelle coordinate del paradosso. Le mie intenzioni (coscienti) di scomparire, di farmi invisibile, mi hanno portato a nascondermi dietro lo scudo della funzione dell'opera.

La prima volta è stato nel processo di conoscenza e localizzazione nel contesto cubano dell'opera e della persona, che successivamente si trasformerà nel mito di Ana Mendieta. Non era del tutto irrazionale cercare di capire e farsi un'idea di come funzionano le cose usando l'arte e attraverso un'altra persona, un personaggio distante che si desidera avvicinare. In fondo è un po' come a scuola, dove l'esempio degli eroi e martiri serve da insegnamento.

Ana entrò nella mia vita attraverso un commento fatto dal critico Gerardo Mosquera nel corso di una conversazione e attraverso alcune potenti immagini che un mio vecchio compagno di studi mi mise in mano. Senza saperlo, una parte del segno che l'artista aveva lasciato a Cuba era entrato nella mia formazione, poiché uno dei miei professori nella Escuela elemental de arte plásticas "20 de Octubre", 2. Juan Francisco Elso (che era stato uno degli artisti che Ana aveva frequentato durante i suoi viaggi a Cuba), ci aveva portato in campagna e mostrato, nella natura e al di fuori del contesto artistico, molte altre possibilità di fare cultura e molti altri modi di realizzare quello che fino ad allora era stato il disegno o l'incisione. In quel momento non sapevo che il metodo di studio usato era semplicemente la riproduzione (e l'adattamento) del processo di lavoro di Ana Mendieta.

L'impossibilità di incontrarmi con Ana mi spinse sulle tracce della sua opera e della sua persona. Allora immaginavo che l'opera, e con essa il suo autore, sopravvivessero alla morte (secondo una vecchia visione decadentista propria della mia formazione, che in seguito ebbi modo di correggere); e perciò, se io fossi stata l'anonimo tramite di Ana, lei avrebbe potuto rivivere a Cuba e produrre nuove opere. Mi concentrai nella ricerca di ogni aspetto della sua persona, parlando con chi, a Cuba, l'aveva conosciuta, e di tanto in tanto mi arrivavano immagini delle sue opere. Cercavo, più come alunna che come attrice, di comunicare con lei, di capirla, nell'illusione di riuscire a conoscere i motivi, gli stimoli che stavano dietro alle sue azioni.

All'epoca, il fatto di svolgere una missione così specifica, unito alla mia ignoranza, mi spinsero a portare avanti questa impresa per vari anni, nella convinzione che non fosse una finzione ma che avrebbe potuto funzionare, che l'arte poteva non essere un semplice progetto (come in seguito avrei scoperto) ma qualcosa che poteva agire nel mondo reale e cambiare la realtà. Il mio progetto su Ana Mendieta cambiò durante il suo svolgimento. Cominciò ad acquisire posizione e possesso di significati. A partire dall'illusione della sua non-morte, la mia crociata personale, istruttiva, si trasformava, attraverso l'apparizione di nuove opere, in altre crociate. La migliore maniera di esemplificare ognuna di esse si traduceva in esposizioni in cui presentare la "sua" opera.

La prima volta fu durante l'esposizione No por mucho madrugar amanece más temprano (Per quanto si svegli all'alba non si alza più presto)3. dove il mio gesto fu quello di riprodurre una delle sue azioni, Body Tracks, in uno spazio pubblico dove era stata convocata la gente per analizzare la tematica dell'informazione e della sua assimilazione da/all'interno di un "isola chiusa". Era un'azione dal vivo accompagnata da alcune foto (nell'angolo sinistro della parete) tratte da un catalogo di Ana Mendieta. Accanto a queste c'erano tre grandi fogli sui quali io riproducevo i tratti di Ana con le mani imbrattate di sangue di bue (forse come traduzione degli elementi che mi circondavano). Riguardo alle indicazioni museali, avevo mantenuto il titolo originale, ma con un'alterazione delle date, 1981-1989, segnalando così non soltanto la data della sua realizzazione ma anche il mio tentativo di creare una continuità con la sua opera. Questa esperienza fu un apprendistato del modo di vedere l'arte (e il mondo dell'arte) dal di fuori, in un ambiente diverso da Cuba. Attraverso una delle sue performance cercavo di unire in un modo diverso le cose che mi attraevano e che fino ad allora non ero riuscita a realizzare con i mezzi che conoscevo, attraverso una simbiosi, la sintesi di alcune azioni.

La seconda volta che realizzai questa azione fu al Museo Nacional de Bellas Artes4. e questa volta, senza foto e con una musica religiosa afrocubana di fondo. Era una mostra organizzata con opere della generazione degli anni Ottanta. In questo caso l'azione, che fu ripetuta, aveva implicazioni culturali perché non era più un gesto di desiderio informativo (educativo), ma un tentativo di inserire Ana Mendieta in un gruppo di artisti con il quale aveva condiviso altri modi di vedere le cose. Era il primo tentativo di darle uno spazio all'interno di questa narrazione che è la storia, e credevo che appartenere alla cultura cubana fosse anche il suo desiderio (in seguito ho scoperto che la definizione di chi si è e da dove si viene è qualcosa di molto complesso, soprattutto in una città come New York e nel mondo commerciale e accademico). All'interno di questa seconda tappa inserii anche una conferenza che tenni su Ana Mendieta all'Università dell'Avana a studenti di storia dell'arte e un'altra all'Instituto Superior de Arte (ISA). Per la seconda di queste conferenze avevo già in mano il video Ana Mendieta: Fuego de Tierra, realizzato da Kate Horsfield, Nereida García-Ferraz e Branda Miller nel 1987, sulla vita e l'opera di Ana, dove avevo visto per la prima volta immagini in movimento della sua opera che mi avevano affascinato e catturato il mio interesse, fino a quel momento astratto, forse più concettuale. Ero caduta in una sorta di adorazione.

La terza presentazione fu durante una mia mostra personale dove io realizzavo un commento basato sui significati che aveva acquisito il gesto di riprodurre la sua opera fino a quel momento, aggiungendo l'incisiva condizione di parlare dal punto di vista di un'emigrata, e proprio quando la cosiddetta "década de los 80"6. si dissolveva in viaggi che assumevano un senso politico, trasformando così gli artisti in emigrati il cui nome non andava più pronunciato. Questi amici dovevano essere cancellati per la loro disaffezione politica, come parte della nostra realtà incancellabile. In questo modo le mie idee politiche diventavano una metafora significante, che risultava comprensibile attraverso il mio modo di espormi. Questo fu il momento in cui vidi che le mie azioni erano il modo per rispondere a ciò che mi circondava (e che mi definiva): un'altra eredità che mi veniva da Ana, che con incomparabile intensità difendeva ciò che considerava giusto e necessario. Fino a quel momento avevo utilizzato la strategia di esibire, ogni volta che mi invitavano a una mostra, insieme alle "mie" opere, quelle "di" Ana (che io avevo ricostruito), favorendo in questo modo una sua presenza continua, utilizzando sempre la alterazione nella scheda tecnica, che recava sempre il nome di Ana Mendieta, ma con la data di realizzazione dell'opera più la data effettiva in cui si esponeva (ad esempio 1986-1992).
5.In questo periodo, curiosamente, neanche gli altri miei lavori erano su cose personali, tendevano a ripetere in un modo o nell'altro (adesso come opere-chiave) la mia intenzione di scomparire.
Credevo che con questa dualità avrei dissimulato la mia "presenza" nell'opera "di" Ana, facendo credere che era proprio lei a partecipare alla mostra. Fu allora che mi resi conto della fallacia di questo tipo di proposta e dell'arte. Nel mio tentativo di essere una "medium" (non nel senso spiritista, ma come intermediaria, veicolo) e un "mezzo" (nel senso dell'inglese "media") non mi rendevo conto che ero io stessa a essere più presente di quanto immaginassi, che il mondo dell'arte è piccolo e in esso tutti, oltre a conoscersi, cercano sempre di inseguire le strategie e le strutture del processo di creazione come uno dei tesori più preziosi. Fu grande la mia frustrazione nel vedere che quest'opera, omaggio spirituale, cammino di conoscenza, gesto culturale, posizione politica, era vista come una proposta postmoderna in una versione, diciamo, "tropical". Scoprii anche le implicazioni dell'autorità e dell'autoralità (authority and autorship), mentre quello che mi interessava davvero era il mio messaggio.

Nel 1996 conclusi un esperimento che era iniziato come curiosità e si era trasformato in una serie di lavori, intitolati Homenaje a Ana Mendieta, con un omaggio/sacrificio nello stile con il quale si seppellivano i re in alcune parti d'Europa: il corpo avvolto in un telo bianco sotto le pietre circondate dalla polvere, all'interno della forma di una delle figure-siluettes di Ana. Era il seppellimento figurato di un lungo processo (soddisfacente) di apprendimento e conoscenza. Tra le opere che stavo realizzando contemporaneamente al progetto di Ana Mendieta, ce n'è una che mi interessa particolarmente ricordare. Si intitola Proyecto de obra (Progetto di opera) e consisteva in un invito ad artisti di diversi ambienti a preparare un'opera per questo progetto (una versione incipiente di ciò che poi sarà il lavoro Memoria de la Postguerra (Memoria del dopoguerra), più conosciuta come "el periódico" (il giornale). Per questo invito realizzai sceneggiature, annotazioni musicali, poesie ecc. (versione rinascimentale). In realtà proponevo una condivisione e una collaborazione tra artisti. Mettere a confronto queste due opere (durante la personale che feci di Ana Mendieta, dove io ero un'"artista invitata" alla "sua" mostra) era un modo per chiarire la mia proposta.

Forse per la mia personalità o per la malformazione dei nostri progetti sociali che si trasformano in ossessione, in vere crociate dell'impegno umano, dopo quest'ultimo lavoro rimasi per un po' di tempo inattiva.

Dopo essermi laureata cominciai a insegnare all'ISA, dove più che altro mostravo le mie ansie e i miei dubbi di neolaureata, e in una scuola di bambini con disturbi comportamentali nel comune di Guanabacoa,7. impegnandomi più che altro a capire la complessità umana nel tentativo di salvare questi ragazzi che avevano al massimo 15 anni, dalle loro violente e assurde vite prive di affetto. Ero divisa tra il discorso all'ISA, totalmente formale e retorico benché parlassi di concetti, e quello del riformatorio, in cui il recupero degli affetti passava attraverso una base di fiducia nell'arte, un tentativo di vedere l'arte come un agente di trasformazione reale non solo di idee ma anche di condotte che trascendevano la vita quotidiana (ci ho messo molti anni e mettere insieme questi due mondi).

Nel 1993 i miei pensieri sull'emigrazione e le sue conseguenze sul paesaggio critico cubano continuavano a susseguirsi, e la mia risposta fu una serie di lavori intitolata: Memoria de la Postguerra (Memoria del dopoguerra). 8. Questa serie rafforzò il carattere transitorio (nel senso che il contesto è uno spazio in costante cambiamento) ma insieme necessario di un'arte che si definiva nella sua azione come una risposta, in questo caso all'ambiente del mondo dell'arte.

Il titolo di questa serie da un lato dipende da Memorias del subdesarrollo (Memorie del sottosviluppo),9. dall'altro deriva dal fatto che un giorno, passando davanti ad alcuni edifici dell'Avana vecchia, quartiere in cui vivo, vedendo quanto erano distrutti e abbandonati mi ricordai di un'immagine del Libano bombardato risalente alla mia infanzia. Pensai che sembrava il paesaggio dopo un bombardamento, ma qui invece di bombe c'erano idee. Quella che stavamo combattendo era una guerra delle idee, una battaglia dalla quale noi artisti non potevamo sottrarci. Questa battaglia che aveva iniziato la cosiddetta generazione degli anni Ottanta era in una situazione da dopoguerra, non priva di fatica, scetticismo e una certa delusione.

Per me gli anni Ottanta erano stati una specie di guerra per uno spazio di dialogo che arrivò a essere un'aspirazione di uno spazio di potere (o nel potere?). Pensavo al dopoguerra, perché la situazione era usurata, la maggior parte di noi era stanca e provava delusione in seguito alla "disfatta", (cioè all'emigrazione definitiva della grande maggioranza di coloro che avevano fatto parte di quella generazione) e volevamo, come in una situazione da dopoguerra, superare il ricordo e costruire un futuro, che logicamente avrebbe in un certo senso "contestato" (per non dire negato) le idee precedenti.

Io invece volevo "non cancellare" quelle esperienze, ma cercare di riviverle, perché per me non erano sconfitte o errori, ma parte di un processo di relazione con il potere e una tappa di grandi frutti spirituali e artistici della quale non avevo nemmeno fatto parte (visto che allora ero una studentessa). Volli allora nella nuova situazione cercare di affrontare le stesse domande e conflitti della generazione precedente: che posto occupare in seno alla società? E che fare con essa?

Di nuovo definita da qualcosa di alieno, l'idea di essere una specie di "memoria", di sottomettere il mio lavoro alla sua funzione di testimonianza mentre partivo dall'ispirazione lasciata da artisti assenti, cercavo di trasformare gli accenni, i gesti, i ricordi (che fu quello che mi rimase come testimonianza insieme a pochi cataloghi e fotografie di un'epoca fervida che si trasformò in mito) di questa "nuova tappa" in qualcosa di più "permanente". Mettermi a pensare agli "Ottanta" mi convinse che (per me) quello che resta sono i gesti culturali. Le opere sono lo strascico, il ricordo dell'impatto, proprio come lo è la memoria.

Nel caso specifico, Memoria de la Postguerra, che dà titolo e senso alla serie omonima, è un'opera dove si riuniscono il bisogno di pensare la cultura come un avvenimento collettivo e l'arte come un gesto. Il modo in cui risolsi queste idee furono lo spazio e lo stesso mezzo (autoriflessivo) che utilizzai per l'opera: il formato di un giornale quotidiano come uno spazio-testimonianza.

Questo spazio che in sé parlava della transitorietà del momento, delle opinioni e circostanze come qualcosa di effimero come lo possono essere le notizie (il quotidiano con la notizia che tutti cercavamo, oggi è la carta per avvolgere la spazzatura di domani). Cercavo di unire voci. In realtà volevo creare uno spazio. Uno spazio di incontro e discussione. L'arte come uno spazio non fisico, ma dell'anima.

Il mio lavoro continuava ad avere come parte della sua transitorietà la realtà circostante. Qui la "sparizione" non era tanto la morte quanto la mancanza di presenza, il transito senza tracce. Anche questa condizione, effimera, è un modo per scomparire nella transitorietà dell'importanza, come avviene in alcuni casi.
Dopo aver realizzato le serie precedenti in cui avevo voluto che il mio lavoro e io stessa fossimo solo un tramite, un veicolo, questa volta decisi di definirmi come una testimone del momento storico.10. Questo, unito alla coscienza del momento eterno (unico, per la mia generazione) di vivere una rivoluzione socialista, nella quale eravamo pronti a sacrificarci 11. per la collettività, oltre alla specificità di essere artista e quindi "soldato", fedele a uno dei tanti slogan: "l'arte è un'arma della rivoluzione".

Mi sembrò del tutto logico, organico e persino necessario usarmi (autousarmi) come semplice testimone. Questo provocò altre cose, perché, nonostante fossi di nuovo invisibile (oppure passiva, che è la stessa cosa), mi resi conto che un testimone ha sempre un suo punto di vista, anche se soltanto in senso fisico. Quindi mi indirizzai nuovamente verso l'idea di non cancellare. Mi sembrava interessante l'idea di essere invisibile (cancellata) mentre non cancellavo momenti, persone, punti di vista. Nello stesso tempo, era un invito a una riflessione collettiva nella quale io condividevo i temi che mi preoccupavano e che facevano parte della mia stessa opera in una specie di pubblica discussione nella quale non soltanto tutti potevano partecipare, ma anche essere letti e discussi. Era come se sparissi nell'opinione degli altri.
Ci furono due edizioni di quest'opera. Nella prima edizione il tema era il dopoguerra come simbolo di quello che stava succedendo nella cultura cubana. Volevo che gli artisti riflettessero sulla loro situazione e condotta. Si trattava di parodia, dunque, o di imitazione? C'erano diverse pagine: la pagina delle notizie nazionali, dell'architettura, la pagina culturale, quella delle notizie sportive ecc.
Per me una di quelle che meglio funzionava era quella delle notizie internazionali, perché erano nominati tutti gli artisti che in quel momento erano lontani da Cuba, compresi coloro che si trovavano all'estero transitoriamente o per una mostra. Si eliminarono le distinzioni, cancellando la nefasta mania di categorizzare e si elencarono più di cento artisti.
Era il modo migliore e fu così che nacque l'opera, in una sorta di delirio di cui non capivo bene le conseguenze, uno scherzo serio, una combinazione di probabilità; d'altronde è risaputo che le cose più serie si dicono scherzando.
Quest'opera andò propagandosi di bocca in bocca, copiata da terzi e passò di mano in mano.
A questo punto sarebbe stato più agevole organizzare la seconda edizione, perché per la prima avevo fatto molta fatica a convincere i partecipanti a darmi un'opera, dal momento che non consisteva solo in un'illustrazione, ma anche in un testo scritto e questo poteva intimidire un po' l'artista. Quando uscì Memoria de la Postguerra (durante l'inaugurazione di una mostra personale) o "el periódico" come è meglio conosciuto, credo che i partecipanti capirono molto meglio quali erano le mie idee e le mie strategie. A quel punto fu molto più facile chiedere i contributi per il secondo numero.

Il tema della seconda edizione fu l'emigrazione. In essa si invitarono per la prima volta artisti cubani residenti o non residenti a Cuba, a dialogare in uno stesso spazio e con la stessa libertà. Era il tema a richiederlo.
In un periodo in cui non esisteva ancora la posta elettronica, i fax si trovavano soltanto in uffici statali e le telefonate all'estero sembravano quasi inimmaginabili, fu molto difficile comunicare e fare capire le mie intenzioni a coloro che non risiedevano a Cuba.

La mia performance fu il processo di convinzione nei confronti di tutti i partecipanti. Alla fine, mostrando alcuni esemplari della prima edizione a coloro che erano stati invitati e grazie alla fiducia che forse ebbero nel mio progetto, ricevetti i contributi.
Il secondo numero comprendeva nuove pagine fra cui le lettere al curatore, a cui contribuirono persone come Luis Camnitzer, che, benché non fossero cubani, avevano preso parte allo sviluppo dell'arte cubana. L'umorismo continuò a far parte di quest'opera, come anche l'idea che le opere e i testi dovessero essere originali. Pubblicai una canzone in una sezione nuova, quella musicale. Molti di coloro che scrissero, fecero da promotori del progetto con altri. Fu un'esperienza di lavoro di collaborazione molto utile per me. Credo che l'opera fu possibile grazie all'unione dei desideri collettivi e alla mia perseveranza.
In essa funzionarono tutte le idee sulla scomparsa dell'autore, l'opera che lavora a un livello sociale al di là dello spazio sicuro dei musei e delle istituzioni culturali e un impatto sulla società. Ricordo che una mia vicina mi disse di come nella sua sezione del partito comunista avessero analizzato "el periodico" che fu visto, ovviamente, non come un'opera , né nella sua gestualità né concezione, ma che fu trattato come un giornale non ufficiale che creava problemi e si sarebbe dovuto chiudere. Dopo questo era ovvio che tutto terminasse con una riunione con l'allora direttore del consiglio delle arti figurative, una lunga discussione estetica che finì in termini politici con coloro con i quali fu impossibile ribattere qualsiasi intendimento culturale o artistico.
Dopo di che rimasi senza realizzare alcuna opera per un periodo di tempo intenso e che mi sembrò quasi eterno.

1. Guillermo Cabrera Infante, La Habana para un infante difunto, Barcellona, Seix Barral, 1981, p. 24. Trad. it. L'Avana per un infante defunto, Milano, Garzanti, 1993.
2. Scuola che impartisce le basi degli insegnamenti artistici. La si inizia a dodici anni e dura tre anni.
3. Esposizione collettiva organizzata da Rubén Torres Llorca presso la Fototeca de Cuba, L'Avana, 1989.
4. La nube en pantalones (La nube in pantaloni), 1990, a cura di Corina Matamoros.
5. Voglio ringraziare una persona che in quel periodo mi aiutò a realizzare la mia ricerca destinata a diventare una tesi di laurea: Raquel (Kaky) Mendieta, che viveva a Cuba e che mi raccontò storie personali e aneddoti di sua cugina Ana, dandomi anche una fotocopia del diario da lei scritto.
6. Si chiamava così la generazione di giovani artisti attivi tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quando in massa cominciarono a emigrare in Messico, Spagna, Venezuela e Stati Uniti. Anche se Ana non ebbe la possibilità di scegliere, perché fu mandata negli Stati Uniti dai suoi genitori, in una situazione simile anche se con certe sfumature che la favorivano, come il fatto di non essere stata lei a decidere di andarsene da Cuba. Ciò funzionò comunque come una metafora per parlare anche del diritto dei cubani di appartenere a Cuba anche se se ne erano andati.
7. Un progetto ecologico della fondazione Tomás Sánchez, al quale partecipai nell'anno scolastico 1992-1993. Si trattava di una scuola che accoglieva minorenni che avevano commesso delitti di diverso tipo, a eccezione dell'omicidio.
8. La serie comprende molte opere, ma mi riferirò a quella con l'ego più "decentrato" ma con l'identità meglio definita, e che dà a sua volta il titolo alla serie. Quest'opera è più conosciuta come "el periódico", per il suo formato.
9. Racconto di Edmundo Desnoes che lessi allora e da cui venne tratto un film, in cui la riflessione dei cambiamenti dei processi sociali a partire dalla prospettiva di un individuo si trasformava in una icona.
10. Ogni momento, me ne renderò conto poi, è in fin dei conti storico. Alcuni lo sono perché sono la base che costruisce, consolida o crea la piattaforma per un momento più fervente ed evidente. Altri perché sono il momento giusto per l'irruzione delle contraddizioni e per i diversi tipi di violenza che esse provocano. O perché sono la cuspide fiorita dei due sensi: quello distruttivo e quello costruttivo.
11. Una parola che in quel periodo assunse un significato diverso, di grandi illusioni sociali. Mi rendo conto adesso che ciò era dovuto alla mia giovinezza, momento in cui le cose ci appaiono sempre grandiose e raggiungibili.