6/06/2002

 
Gabriele Perretta 
 
 
The state of the world, the state of the art

 
   
 
 
   
Wolfgang Tillmans, Installation of 17 photographs




Tracy Moffat 1997, Dia Center




Tracey Moffatt, from Up in the Sky, 1997 Dia Center




Helmut Newton's Cyberwomen 1, 2000




Vanessa Beecroft, Gagosian Gallery 2001




Vanessa Beecroft, Palazzo Ducale, Genova 2001




Olafur Eliasson, Your natural denudation inverted, 1999 (installation view)




no logo




Bureau of Inverse Technology, Bit Plane, 1999




Langland & Bell, Millbank Penitentiary, 1994 MDF und Rohacell Lackfarbe 109 x109 x15,5 cm




Ange Leccia, Arrangement Stasi, 1990 Installation




Julia Scher, Superdesk, 1993/2001 Videorecorder 206 x 135 x 118 cm




Ann-Sofi Siden, QM, I think I call her QM, 1997, 35 mm color film, 28 minutes (still)




Rem Koolhaas/OMA Project for the Renovation of a Panoptic Prison, 1979 (Detail)



 
Puo' sembrare strano, ma tutto il gioco dell'arte contemporanea coincide con quello del modello neo-capitalistico, imperante e attivo nei settori trainanti dell'economia-mondo. Cosa fa il capitalismo globalizzante? È impegnato ad una continua estensione della macchina dei desideri e dei bisogni della gente. Tale sviluppo è ottenuto tramite la dilatazione dei mercati, l'accrescimento dei consumi pro capite, l'aumento del numero degli acquirenti e il rigonfiamento della tipologia delle merci. In generale, i consumi pro capite aumentano attraverso un meccanismo di pubblicità e di vintage, che accerta la disponibilità economica degli individui (in tipo, area geografica, cultura) e definisce le merci adeguate per spronare le spese e quindi, oltre ogni limite plausibile, i consumi. La globalizzazione e l'omologazione riguarda ogni genere di prodotto, dai più popolari e dai più utili ai più sofisticati, difficili ed inaccessibili, come quelli artistici. In una bella lettera sul senso del post-moderno, J.F. Lyotard nel 1982 scriveva: "quando il potere si chiama capitale la conoscenza è oggetto di quiz televisivi... facendosi kitsch (trash, n.d.r.) l'arte lusinga il disordine che regna nel gusto dell'amatore. L'artista, il gallerista, il critico e il pubblico indulgono tutti insieme e confortevolmente al qualsiasi, al niente di niente, e il clima è quello di un generale rilassamento. Ma questo realismo di niente è il denaro: in assenza di criteri estetici rimane possibile e utile misurare il valore delle opere sulla base dei profitti che lo consentono. Questo realismo si adatta a tutte le tendenze, come il capitale a tutti i " bisogni", a condizione che le tendenze e i bisogni abbiano un potere d'acquisto... produrre delle opere che siano in primo luogo relative a soggetti che esistono agli occhi del pubblico cui sono destinate, poi che siano fatte in modo ("ben formate") da permettere che il pubblico riconosca ciò di cui si tratta, che capisca ciò che significano, che possa in piena conoscenza di causa dare o rifiutare ad esse il suo assenso e persino, se possibile, che possa trarre da quelle che accetta un qualche conforto" 1.
Il 7 ottobre scorso all'inaugurazione del Guggenheim-Ermitage si è assistito ad un vero e proprio tripudio del potere economico, dell'arroganza bancaria e della celebrità. A Las Vegas una grande esposizione di motociclette, guidate alla passerella da Thomas Krens, Jeremy Irons, Dennis Hopper, Lauren Hutton e dal multimiliardario Peter Norton, ha inaugurato l'ennesimo "oggetto di sorveglianza del valore artistico" in cui l'arte è destinata a morire. Facendo un salto dalla musica al sushi, come ci suggeriva il filosofo francese, possiamo dare un'occhiata disincantata al boom della fotografia. Fino a pochi anni fa essa non era neppure ammessa tra le nuove forme di collezionismo, mentre in poco più di un anno o due il mercato, la didattica, la catalogazione, gli apparati editoriali, i record d'asta, le fondazioni, le sedi espositive, le gallerie specializzate, i workshop, le scuole, i festival e i saloni relativi al settore sono letteralmente lievitati. Piccole foto in dieci esemplari di W. Tillmans oscillano tra i sette e i dieci milioni; oppure un drive-in di Sugimoto, di non molta qualità, in edizione di 25 esemplari, è stato battuto da Sotheby's a Londra per 31 milioni; una foto di T. Moffat, tratta da una serie di non grande fascino come Something More, ha toccato i 25 milioni; un autore come Gregory Crewdson (neanche molto conosciuto) da Christies ha raggiunto i 67 milioni per una sola stampa. Mentre negli effetti della globalizzazione generalizzata l'aumento dei consumi è ottenuto attraverso il recupero di fasce sociali (medie) o ambiti sociali potenzialmente acquirenti, nel campo dell'arte questa estensione avviene attraverso un incentivo a diffondere - come diceva Lyotard - la mancanza di raffinatezza e la distribuzione di prodotti sempre meglio confezionati, per giunta non necessariamente originali e con un costo tale da divenire oggetti da status symbol. Ad esempio, le ragazze di Vanessa Beecroft, rispetto alle modelle ed alle posture delle foto di Helmut Newton, sono solo aggiornate con un po' di brio e di new look.
Secondo il nuovo modello liberista, le merci primarie prodotte sono solo una parte del mercato globale. Per ampliare gli scambi, e garantire attraverso di essi il profitto, si commercializzano anche risorse comuni o profondamente personali che possono diventare merci: dall'acqua al sesso, dalle conoscenze alla natura, dall'apparenza della singolarità del prodotto firmato ai desideri dei new confort. Un'esperta della rete come Ester Dyson dice che fra non molto saremo in grado di comunicare in qualsiasi momento e con qualsiasi parte del mondo. Ian Kelly, che lavora al California Institute of Technology, ha inventato lo slugbot, un apparecchio che trova le lumache nel giardino. Vi sono dei robot spia introdotti dalla Sandia Laboratories che hanno la capacità di percorrere mezzo metro al minuto e scoprono perdite di gas in fabbrica inviando immagini. La globalizzazione vende l'analisi, lo studio e lo smercio dei nuovi stili e delle nuove tendenze come se fosse una bancarella di buoni propositi. Il futuro è in home entertainment, film su megaschermi, nei laundry bar come nuovi agorà per gli incontri occasionali e gli approfondimenti delle conoscenze. Trattorie, osterie e scuole di cucina dove si professa "cibo equo e sostenibile", aiutati dalle grandi multinazionali, ci fanno riscoprire i sapori genuini di una volta. La moda supera l'arte, con i suoi magazines che progettano la metafisica del collezionismo, del capo unico, i modisti aprono la prospettiva del costume personalizzato. Così come accade per i personal media, ecco che Armani e Gucci propongono una prestazione da atelier su misura. A Milano, ad onta della mostra di Cosima von Bonin alla Galleria Fontana, è nata una tuteria artigianale ad hoc per farsi confezionare l'abbigliamento sportivo. La Nike offre ai più spregiudicati la possibilità di personalizzare le proprie scarpe con frasi e disegni. In tutta la Francia i magazzini La Fayette hanno lanciato una curiosa campagna pubblicitaria dal titolo "i miei desideri prima di tutto". Stiamo per assistere al boom del cosiddetto "commercio etico" e la nuova bibbia dei Future Concept Lab è proprio il brillante volume di Naomi Klein, che ha raggiunto ormai la quindicesima ristampa. Ci ha pensato bene la Human Side, società francese che diffonde i valori del commercio equo, lanciando una collezione ultraraffinata per la casa. La Procter & Gamble sta studiando, insieme al MIT di Boston, la possibilità di radiografare su un piccolo chip il percorso globale di ciascun prodotto. Si parla tanto di deconstructive attitude, riferendosi al fatto che adesso c'è la moda di uscire con i costumi casalinghi, indossare pigiami e ciabatte, ma qui chi è veramente destrutturata è la comunità umana.
Le collettività sono fortemente limitate nelle loro capacità decisionali. I possessori del capitale riescono ad avere un filo diretto con le comunità e superano ogni filtro imposto da un qualsiasi interesse di stato, o stabilito dalle leggi. Fino a poco tempo fa i grandi gruppi economici cercavano di indirizzare le scelte dei governi, rimanendo tuttavia subordinati; oggi la rete economica liberale si è trasformata nella diretta coordinatrice dei governi, rivendicando la congruità della gestione culturale della società. Gli Stati non sono più in grado di gestire le risorse e le distribuzioni del mercato, si afferma solo ciò che corrisponde ad ampie logiche commerciali e pubblicitarie, qualunque sia risultato queste decisioni possano avere nella salute e sull'ambiente. Nel mondo si è strutturata un'organizzazione decisionale che non ha una sede fissa, i governi hanno ceduto all'FMI, alla BM e al WTO. Tali organismi sono comandati dagli interessi aziendali di una decina di paesi. Il sistema sociale globale mira ad utilizzare il massimo dei profitti locali, senza causarne la distruzione, ma permettendo piuttosto che nel tempo essi possano offrire le materie prime per lo sfruttamento delle risorse a favore del più forte.
Mentre le tendenze contro-culturali esaminavano ed introducevano le possibilità di diversificarsi nei modi, nei comportamenti, nelle tecniche, contro un'ottimizzazione dei profitti, c'è chi ha pensato bene di uniformare individui, coltivazioni, distruggere modelli sociali e naturali, sovrapponendo agli assetti geo-politici uno schema astratto ma unificato. È il capitale stesso che si presenta come un tipo di efficienza ridotta e di elevato consumo energetico, dignitosamente attento alle condizioni locali, ma contemporaneamente coperto ed attrezzato per lo sfruttamento intensivo delle risorse, per l'ampliamento a merci preconfezionate, monitorando l'appiattimento e la perdita delle autonomie locali. Basta rivolgere uno sguardo veloce all'architettura del futuro per capire come si muovono le città e i nuovi assetti metropolitani. Bernar Tschumi a Rouen ha edificato un'ellisse asimmetrica, dove si ostenta l'idea del grande spazio di accoglienza collettiva. Norman Foster sta costruendo la torre ecologica piegando le volumetrie della scultura alla competitività energetica. Gli sky gardens sono proiettati in una dimensione quasi fantascientifica. Frank O. Gehry si gioca il progetto dell'aeroporto Marco Polo di Venezia come un prolungamento del Software. Toyo Ito, con la sua mediateca in cristallo speciale, tende ad illuminarsi con colori diversi, figurandosi l'idea della sovrapposizione di scatole magiche. L'epoca definitiva della trasparenza, dove tutto il mondo è in collegamento, sembra che sia arrivata.
A proposito della cristallografia, Walter Benjamin, nel 1933, scrisse che le "cose di vetro non hanno un'aura, il vetro è soprattutto il nemico del segreto. Ed anche il nemico del possesso" 2. Chissà se forse questa negazione del dominio, non si sia poi per sorte trasformata in un'immagine della trasparenza che assomma altre signorie ed altri possedimenti. L'insoddisfacente dimensione del neostoricismo architettonico guidato da un tetro sguardo al passato, è dettato da Krier, Graves, Pelli e A. Natalini con la realizzazione del Resident dell'Aja: un'eiaculazione di pietre e laterizi rossi, in assetto falso-medioevale. Insomma, anche l'architettura cerca di criticare la hybris verticale, che sembra essere andata definitivamente in crisi dopo l'11 settembre. Anche la strutturazione dello spazio si piega alla logica dello spettacolo e dei media. Contro l'urbanistica e il territorio, sembra che anche le nuove capacità del costruibile si vogliano dirigere verso un'inevitabile globalizzazione. Il centro congressi Jean Nouvel a Lucerna, il Lowry Centre a Manchester-Salford, il museo ebraico di Libeskind a Berlino, il lavoro di Mendini presso Groningen, il New York Times di Piano, la torre della regione di Fuksas a Torino, il Museo del '900 di Rota a Milano, il nuovo tribunale di Chipperfield a Salerno, creano un collegamento in cui il mondo diventa un teatro unico, dove le colonizzazioni si evincono più delle contaminazioni, oltre le influenze e la circolazione delle idee e delle forme. Questa prospettiva di espansione è legata ad un grande mito del progresso più che ad una esigenza di realtà. Questa pratica artistica è calata in un procedimento che cerca sempre nuove soluzioni, sempre nuove tecniche e bagagli d'innovazione, ostentando un traguardo senza eccezione nel passo successivo ai territori sconfinati del miglioramento.
Il futuro è una frontiera che sfoggia l'orgoglio di un grande passato, ma senza sapere di quale presente realmente viviamo. Il presente è totalmente filtrato dalla fiction mediale. Pensando ad un'antropologia possibile ricordiamo che i Lakota avevano una società stabile, non progredivano, ma tenevano la modalità migliore per continuare a vivere e non furono disposti ad abbandonarla fino al genocidio. Approfittando di questo esempio, segnaliamo che nel 1998 a New York era uscito un bel libro di un esperto di scrittura creativa, Lewis Hyde, il quale si è spinto più avanti dei dialoghi con lo stregone di Carlos Castaneda, dicendo che i tricksters (figura che attraverso G. Dumezil noi conosciamo come il briccone divino) "fanno il mondo". Il bel volume di Hyde, tradotto recentemente da Gaetano Riccardo per Bollati Boringhieri, dice che la natura trasgressiva di questi soggetti è durata stabilmente nella storia al di là delle epoche (l'America settentrionale e il Coyote, Africa di Eshu, Grecia di Hermes), per poi accomunare nel contemporaneo personalità come Picasso, Duchamp, Cage. In una suggestiva esposizione, allestita a New York sino al 19 gennaio, nella sede di Jean Krugier e contemporaneamente alla galleria Arte y Ritual di Madrid, a fronte di Picasso, Ernst etc... si affollano le ombre dei reperti dell'arte africana o degli Indiani d'America, divinizzando nella composizione un confronto tra antichi e moderni sciamani. Seppure non viene esplicitamente citato da Hyde, potrebbe sicuramente far parte delle ricchezze spirituali dei tricksters anche Brancusi, il quale viene segnalato in un certo senso come tale dall'ultimo lavoro di E. Grazioli 3. Sappiamo che Brancusi nel 1937 si recò in Romania per eseguire le sculture dei giardini pubblici di Tirgu-Jiu, volgendo l'attenzione verso una scultura assolutamente agevolata e squadrata in carichi armonici. Purtroppo la perversa logica della globalizzazione tende a trascurare le minacce di degrado dei simboli della modernità, tanto è vero che quest'anno il World Monument Fund, nel suo rapporto annuale, segnala il sito di Tirgu-Jiu con la Colonna infinita come una delle opere più a rischio del patrimonio umano.
Questo sciamanesimo antico e moderno è ciò che rompe la traiettoria lineare e cartesiana del mito del progresso e della politica, ciò che spezza il desiderio di tendere a bisogni sempre più alti. Le innovazioni prospettate da esso vanno oltre la speculazione, il lucro, si muovono contro il ritmo di evoluzione dei patrimoni creditizi, il trickster rompe le regole del Capitale e della sua globalizzazione. Ai criteri di dover guadagnare di più, alla ragione di dover muovere sempre di più le merci, una frenesia che non risponde al "tempo lineare" scuote la danza ventriloqua del briccone, qui si introduce il tempo "dell'irregolare", dell'ingannatore, in una parola dello scimmiotto - come racconta C. Levi-Strauss aiutato dal mito degli indiani Bororo - che appare come l'altro eroe civilizzatore, colui che inventa la tecnica del fuoco, "l'astuzia giaguara". Nel mondo globalizzato la ricerca scientifica non segue alcun fine sociale, non condivide nessuna scoperta, essa conduce i suoi adepti dove vanno i finanziamenti che provengono in modo massiccio da apparati economici. La logica è quella di definire i suoi strumenti - fossero di innovazione e apparissero di sorveglianza e di punizione - rispondenti alla necessità di ottenere profitti. Gli organismi geneticamente modificati (OGM) non nascono dalla necessità di sopperire ai problemi della fame nel mondo - perché l'80% dei bambini malnutriti vive nei paesi dove si addensano le maggiori eccedenze alimentari - ma dalla volontà di concentrare ulteriormente la produzione in ambiti territoriali controllati e di aumentare la produttività per ettaro e quindi i profitti di coloro che già oggi producono e vendono di più.
Un'indagine del '97 negli USA ribadisce che per l'85% della popolazione l'idea di una vita felice si traduce in villeggiatura, piscina, seconda televisione, aria condizionata ed un'altra catena infinita di confort. Il liberismo globale ha messo in atto una forma di religione in cui tutti condividono ed auspicano gli stessi desideri e le stesse aspirazioni. Pubblicità, video e media trasmettono un mondo superficiale, apparentemente senza problemi, pieno di sesso, di potere personale e dei colori dell'agiatezza. Gli effetti negativi del liberismo non li vede nessuno, essi sono sovrastati dalla voluttà e dal feticismo per il sistema stesso. Spulciando uno state of the world del 2000 e del 2001 riguardo alla salute ecologica, apprendiamo che rispetto alla disponibilità ed all'uso delle risorse è stata individuata una disponibilità di superficie per ogni abitante della terra pari a 2,0-2,2. Contro questo dato vediamo che la richiesta è di 2,85 unità di superficie pro-capite e in particolare il rapporto per gli USA è di 12,22 contro 5,57 adoperabili. L'America è il paese che conferma le regole mondiali di surplus di desideri e di richieste. La domanda verte su una quantità superiore del 30% rispetto a quella disponibile. L'inquinamento ne è un riscontro: gli Stati Uniti, rispetto alla distruzione dei sistemi naturali, in proporzione usano in maniera nettamente superiore alla media mondiale le capacità rigenerative degli ecosistemi. Ad esempio, il fenomeno dell'erosione dei suoli sta divorando terreni ad un ritmo troppo veloce e solo negli Stati Uniti sta compromettendo la produttività di circa il 34% dei terreni agricoli. Questo ci fa pensare che la land art e la earth art (movimenti nati e cresciuti soprattutto negli USA), storicamente non rappresentano altro che il ramadan di un paese sostanzialmente incentivato da una coscienza sporca.
A questi dati reali ed al bisogno di incrementare l'idea manierista di una deconstructive attitude, il Deitch Project sceglie un paese come l'Italia - assolutamente colonizzato dalla visione liberista del progresso illimitato - per venirci a proferire Form Follows Fiction, un motto che per altro Jencks ed il movimento post-modernista in architettura avevano già ampiamente sfruttato. Il Deitch Project è l'esempio più infelice dell'ideologia curatoriale che in questo momento gira in tutto l'Occidente, un'idea perseguita anche da adepti italiani molto provinciali che aspirano agli stessi palcoscenici. Mentre gli artisti di post-human erano più identificabili con il progetto di dell'esposizione, oggi nel Deitch Project (e continuo a scrivere così perché mi sembra che si tratti di una società e non di un critico o di un singolo curatore), i vari Tim Noble & Sue Webster, i Murakami, Kara Walker, etc... sono assai meno riconoscibili nello spettacolo che l'americano ha inscenato a pro di fiction. Deitch tra l'altro scrive nel catalogo che "le maggiori innovazioni artistiche di oggi non vanno ricercate nella forma quanto piuttosto nei contenuti, la forma si è dissolta nell'illusione". Ma senza voler fare auto-acclamazione, mi sembra che questo passaggio era uno dei nodi centrali del mio libro del 1993 Medialismo e che la stessa idea di considerare la pittura, le installazioni e i prodotti elettronici e digitali sullo stesso orizzonte - "perché a questo punto non c'è nessuna differenza tra questi elementi tecnici" - fu una questione trainante dell'installazione del medialismo per tutti gli anni Novanta. Vedete perché l'Italia è un paese assolutamente provinciale? Quando un passaggio simile si mostrò costruito in Medialismi a Villa d'Este a Tivoli, ed andavo teorizzando questa convivenza disinvolta delle diverse confezioni tecniche, la critica italiota non si è degnata neanche di rivolgergli lo sguardo, anzi quando si è trattato di scrivere una riga su tale prospettiva, si è detto che il medialismo non ha allevato cavalli di razza, ma è solo annoverabile tra le teorizzazioni sfigate a cui non bisogna affidar due soldi.... Naturalmente l'accoglienza per il Deitch Projet, invece, è di acclamazione, seppure si dimostra in ritardo su certi argomenti, senza alcun elemento di novità e solamente come un'edulcorazione rispetto alla critica alla società mediale globale.
L'Italia stravede per i programmi contenitore, per le sit-com e non se lo lascia dire due volte quando deve protendere per un manager americano, dimostrando che molti dei nostri mediocri curatori, pur sapendo fare molto di più, devono trattenersi a casa ad assistere al banale reality show comandato dalle astute strategie della merce. È dunque destino dell'Italia essere dominata da galleristi (finti curatori) americani, che vendono fumo e sortiscono degli "effettucci" con opere che non solo non richiamano un programma, ma non illustrano neanche il confine tra artificiale e reale. I fruitori incantati di queste pastoie sono deliberatamente offuscati, perché sia la parvenza di "realtà", sia la flebile prospettiva di artificio che essi rincorrono, si sono dissolte nel mondo stesso della comunicazione, portando l'immagine dell'arte completamente fuori da se stessa. È talmente banale la proposta di Deitch, che si aggrappa nientemeno al termine "fantasismo" come possibile definizione di corrente. Ma di che cosa tratta? Della traslazione ritardata del Fantasy di Walt Disney (e quindi del più grande simbolo della merce e del potere economico del suo paese), o dell'espiazione lungo un "muro del pianto" di una ricerca disperata della caduta definitiva del pragmatismo americano? Se la parola fantasia deve avere queste associazioni mentali, siamo felici di legarla piuttosto ancora alla tradizione dell'arte barocca e classica, al fantasismo della fuga in sol minore di Bach, o della cadenza in re minore di Mozart, o del do maggiore di Schumann, o delle fughe di Liszt e del Prophète di Meyerbeer. Pensando ad un trickster come Cage ed all'idea di associare la tecnologia a scopi pacifici, ci viene in mente la fantasia futuristica di un architetto, inventore e scrittore come Buckminster Fuller, ma sicuramente non quella di Matthieu Laurette, Ackermann, Aitken, Orozco, Eliasson ed altri. Se la finzione si è impossessata della forma vuol dire che la tecnica in un certo senso riesce a fare da sola, non c'è più bisogno della determinazione e della fantasia umana, il fantasismo è nelle potenzialità stesse della tecnica e della pervasività della merce. E allora, in una caduta costante dell'immaginazione creatrice, in una morte dell'immaginazione sensibile, in una globalizzazione delle immagini capricciose, quale fantasismo sarebbe veramente possibile? Ecco che Deitch fa un ottimo lavoro a favore di una sorta di medialismo diffuso.
A differenza dell'improbabile ricerca deitchiana, un linguistic turn è costituito dalla mostra Ctrl[Space], aperta fino al 24 febbraio allo ZKM di Karlsruhe. Un'esposizione difficile sulla storia della sorveglianza, che vuole esperire, con una vaga ispirazione foucaultiana, la retorica della vigilanza, del controllo, della sovrintendenza dello sguardo, dal Panopticon di Bentham al Big Brother. In effetti, è stato Foucault a lavorare di più su questo argomento, pubblicando Surveiller et punir 4, riscoprendo proprio il lavoro sul Panopticon5 e completando l'operazione, intorno all'inizio degli anni Ottanta, con la teorizzazione delle "technologies of the self". Ctrl[Space] cade in un momento, come il dopo 11 settembre, in cui l'occidente sta ripensando tutte le sue forme di sicurezza, di sorveglianza e di difesa. La mostra ha il pregio di raccogliere più di cinquanta lavori e di far vedere progetti e resoconti di operatori poco conosciuti come Diller + Scofidio, Paul Buch, Bureau of Inverse Technology e nomi come Vito Acconci, Merry Alpern, Langland & Bell, Ange Leccia, Bruce Nauman, Daniel Roth, Julia Scher, Ann-Sofi Siden, Rem Koolhaas/OMA, Korpys/Loffler, etc.... Un tratto negativo di Ctrl[Space], invece, è che i curatori hanno preso in considerazione con intenzioni di spettacolarizzazione i lavori di Yoko Ono/Lennon e di A. Warhol, ma non quelli dei situazionisti, i quali intorno al '68 avevano introdotto una ricerca importante sulla critica della sorveglianza. Infatti, se non erro, nel numero 12 della rivista dell'Internazionale, M. Khayati, R. Riesel, C. Sebastiani, R. Vaneigem, R. Vienet pubblicavano dei documenti di critica al progresso dei media. Una delle prove consisteva nel rilievo fotografico da una telecamera utilizzata dalla polizia nel dicembre del 1969 per identificare i manifestanti che sfilavano per Milano. Viene da chiedersi perché, oltre ai contributi dei Surveillance Camera Project e all'archivio di Reality TV, non vi erano anche questi documenti. In Italia il lavoro di Nanni Loy con le sue prime candid fu molto indicativo, eppure non viene preso mai in considerazione. L'idea della scienza tecnologica che vige allo Zentrum fur Kunst è troppo legata ad una prassi avveniristica a tutti i costi e spesso in quest'ottica le iniziative espositive tralasciano di toccare realmente la vastità delle tematiche affrontate. Possiamo capire che la materia della sorveglianza - rievocando dalla mitologia di Cerbero quale pretesto espositivo del vaso etrusco risalente al 650 a.C. (che raffigura Euristeo mentre cerca di sfuggire a Cerbero condotto da Eracle), alle torri di vigilanza (limes) introdotte dall'Imperatore Domiziano ai confini della romanità, ai campi minati disposti sul confine di Israele prima del trattato di pace del 1995, fino ai varchi elettronici dei nostri centri storici - ci porterebbe troppo lontano, ma almeno il lavoro sulle stanze della Stasi delle sorelle Wilson andava esposto. Per non dire che potevano essere esposti i plot delle trasmissioni televisive condotte da Irene Bignardi, che sicuramente sono un esempio degradante di globalizzazione e di istituzionalizzazione totale, dove i media hanno offeso e schiacciato qualsiasi possibilità identitaria e di ricerca del self.
Sembra che i curatori di Ctrl[Space], a differenza dello stile antiteoretico che ormai persiste nella preparazione delle mostre europee, abbiano tutte le carte in regola per essere inseriti in un'internazionale di ottimi studiosi della comunicazione, ma nonostante ciò in questo caso hanno tenuto da parte questioni ed aspetti oltremodo importanti per approfondire la tematica generale della sorveglianza e il mondo dei media. È vero che nella prospettiva architettonica del Panopticon di Bentham vi era già l'occhio vigile e nascosto della telecamera, ma questa immagine non basta. E. Goffman, un canadese in rotta con lo sciocchezzario superficiale di McLuhan (antitetico soprattutto alla strutturalismo funzionalistico di T. Parsons), studiò il rapporto del self tra interazione, comunicazione e controllo, indicando i limiti mediali della sorveglianza interpersonale del quotidiano. È chiaro che la finzione ha sovrastato la forma e, visto che per gli Americani dobbiamo per forza di cose essere telecomandati da un Big Brother, sarebbe auspicabile trasformare una grande rassegna come Ctrl[Space] in un diffuso campo di riflessione politica. Altrimenti diamo adito alla televisione di estendere il suo progetto di only entertainment, con la scusa di esaudire i bisogni e le richieste delle masse e mantenere l'asylum per la diffusione del cretinismo generalizzato. La televisione oggi produce decine e decine di programmi che riempiono i palinsesti di immondizia, quintali di reality show che servono ai fundamental characteristics of the trash model. Un cimitero di prodotti seriali, programmi contenitore che ripetono lo stile vuoto della soap opera, l'infotainment, il docu-drama, direi il coi-op (coin operated machine, videogiochi da sala). Matrimoni recitati e reali, realtà finta e finta realtà, sbarchi sulla luna, cerimonie religiose, imprese sportive o festival internazionali, occasioni festive, l'incedere feriale, i tormentoni psicologici, le disperazioni delle comunità, gli assassini, gli incidenti, i morti ammazzati per fare extreme TV. Tutte queste strategie fanno ormai parte dello schermo e del Panopticon; la sorveglianza è fra di noi e nessuno può farsi fuori, perché allora in occasioni come Ctrl[Space] queste cose non vengono dette con più chiarezza. Controllo, ispezione e sopravvivenza sono abilitati alla stessa banda larga. Mi sembra che sia la riflessione teorica, più che gli sforzi espositivi, a dare negli ultimi tempi dei risultati molto interessanti. La conferma è il libro di recente pubblicazione di Olivier Razac, che vivamente consigliamo ai cultori di vigilanza e comunicazione: Storia politica del filo spinato. La prateria, la trincea, il campo di concentramento 6.
Il segno caratteristico dell'uomo-oggetto del mercato è la sopravvivenza, unico obiettivo di chi vive. Spariti i progetti astratti di considerazione di un'ideale, non si cercano più condizioni di benessere comune ma soluzioni individuali all'interno del mercato. Estratto dalla società e dall'ambiente l'individuo non vive ma sopravvive. Egli è sorvegliato dal mercato che negozia sulle sue necessità, sui suoi desideri, sulla sua salute. La Del Monte ha dimostrato come si possa ribaltare la realtà e farla diventare una qualifica della merce: essa orienta prima i prezzi e poi il livello di qualità delle banane filippine, quando il mercato è saturo giudica di cattiva qualità anche il 50% del prodotto, mentre quando la domanda è elevata scende fino al 5% per cento. L'uomo Del Monte dice "sì e no" quando gli pare e, soprattutto, "dice sì" alla sorveglianza delle condizioni locali, agli interessi della compagnia, alla disperazione della popolazione. Così come tende fare un certo mercato dell'arte che gonfia i prezzi, crea delle grandi aspettative intorno ad autori assolutamente inutili e poi, dopo aver speculato per un breve periodo sulla mitologia del personaggio e su di un ciclo di opere, lavora al declassamento del valore storico, sostituendo e truccando i prodotti. In ultima analisi, Deleuze ci conferma che le deformazioni universalistiche della comunicazione possono essere minacciose per la nostra sanità e per la nostra possibilità di sfuggire alla vigilanza. L'arte che va verso la comunicazione è, dunque, destinata alla stessa "deriva"; chi invece vuole immettersi sulla strada del trickster, e quindi della creatività, ha bisogno di sottolineare continuamente che "la parola e le forme universalistiche di comunicazione sono marce"7. Per imboccare una via d'uscita, costringiamo quest'estetica delle cose ad entrare in ballo, cantandogli la sua stessa canzone.

Note:
1 In Il post-moderno spiegato ai bambini, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 17-18.
2 Esperienza e povertà, in Critica e Storia. Materiali su Benjamin, tr. it. di F. Desideri, a cura di F. Rella, Venezia, Cluva, 1980, p. 206.
3 "Riga 19", Costantin Brancusi, Milano, Marcos y Marcos, 2001, pp. 345, £ 33.000.
4 1975, Paris, editions Gallimard.
5 ...ovvero la casa d'ispezione, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Venezia, Marsilio, 1983.
6 Verona, Ombre corte, coll. Tracce, 2001.
7 G. Deleuze, Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, pp. 229-231.
Articolo pubblicato anche sulla rivista Segno n° 182, con illustrazioni differenti

     

 
 

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