22/03/2005

 
Francesca Zappia 
 
 
Palais de Tokyo, Exposition Universelle 1

 
   
L'ironia amara e pungente di Jota Castro 
 
   
Vista esposizione




A mi tiempo, 2005




Strange fruit, 2005




Tertualia de autista, 2005




Liberté, Egalité, Fraternité, 2005




Torino 2004



 
Ex diplomatico di origine peruviana, Jota Castro (Lima, 1964) decide di dedicarsi completamente all’arte alla fine degli anni Novanta, instaurando un discorso essenzialmente sociale e fortemente critico. L’effetto di straniamento è alla base della sua poetica, e lo è soprattutto per il suo ultimo lavoro al Palais de Tokyo, (l’artista vi aveva già lavorato nel 2002 – Tokyorama – e 2003 – Hardcore, vers un nouvel activisme – ) Exposition Universelle 1, il cui seguito si è inaugurato il 4 marzo a Charleroi, in Belgio.

Questa esposizione, relativamente piccola, contiene una molteplicità di concetti, a confluire in un unico, vasto discorso. È A Discrimination Day, giorno dell’inaugurazione, a dare il via ad un progetto che parte da una riflessione sullo spazio che lo contiene. Il Palais de Tokyo è stato infatti costruito per l’Esposizione Universale del 1937 (da qui il titolo scelto da Castro), a testimonianza e simbolo della superiorità tecnica della Francia – allora potenza coloniale – sul resto del mondo.
A Discrimination Day nasce come una sfida scherzosa. L’idea principale è di stabilire il record mondiale di persone di colore in un’istituzione culturale. Ironia pungente, che rivela una faccia amara della realtà. Qui, è la coscienza dell’artista, e del suo essere persona di colore, a spingere la denuncia fino al rovesciamento dei ruoli. «Volevo far condividere questa esperienza inenarrabile a coloro che non hanno il benessere molto relativo di essere diversi, vale a dire più abbronzati. Volevo anche giocare con gli sguardi della gente e con la sufficienza di cui danno prova nei confronti degli stranieri.» [Jota Castro, intervista con Clément Dirié, per Paris-art.com]
È intorno al concetto di Altro, come timore differenza pericolo, che Castro costruisce la sua performance, redisponendo due entrate all’esposizione. Una per i Bianchi, una per gli Altri. L’entrata per i bianchi presuppone il controllo delle borse e dei documenti, mentre gli altri (non solo persone di colore, ma anche chi subisce una diversa discriminazione), possono liberamente entrare. Alla base di questo ribaltamento è anche l’installazione Liberté Egalité Fraternité (2005). Il principio è lo stesso dell’opera di Santiago Sierra alla Biennale di Venezia nel 2003: il divieto di entrare. Ma se per Sierra il discorso si impostava sul nazionalismo, per Castro si impone al razzismo bianco, negandogli l’accesso.
Come Esposizione universale, tocca anche altri temi di ragione sociale. Ricorda i prigionieri di Guantanamo con Guantanamo (2005), gabbia in cui ricrea artificialmente il calore cui sono sottoposti i detenuti. Nasconde, dietro ad un omaggio all’arte povera e all’opera di Mario Merz, una denuncia alle ripetute censure da parte della stampa italiana (Torino Junknews, 2004). Manda in frantumi le icone perfette delle star hollywoodiane, o i miti storici del secolo passato (Breaking Icons, 2005). Intrappola lo spettatore in un intreccio metallico, il cui percorso è ostacolato, se non bloccato, dal passaggio di altri spettatori (Brains, 2005). Dà forma alla sua canzone preferita (Strange fruits, 2005) con corde da impiccato.
Graffia un’intera parete con un appello multiculturale, che termina con le parole «Lasciami essere, e io sarò» (A Mi Tiempo, 2005). Distrugge la sua prima opera monumentale in vetro in omaggio a un amico, nel video Tertualia de autista (2005).

Parte dell’esposizione, anche un progetto parallelo. La Biennale della Cecenia, o Biennale dell’Urgenza. Ideato assieme a Evelyne Jouanno, è un appello a non dimenticare, firmato da sessanta artisti da tutto il mondo. Le opere sono per la maggior parte inedite, e sono state create in doppia copia, in modo da essere esposte al Palais de Tokyo e a Grozny, quando vi arriverà la valigia che le contiene, partita da Parigi il 23 febbraio. Questo giorno è stato scelto come data di inizio di questa piccola esposizione universale perché anniversario della deportazione dei Ceceni nel 1944. Alla base, c’è la semplice constatazione che l’organizzazione di una biennale serva da alibi alla modernità di certi paesi. Questa, vuole porsi come un’antibiennale. Con lo scopo di attivare e mostrare la reazione degli artisti ai problemi sociali, rivolgendosi ad un pubblico anche estraneo ai meccanismi dell’arte contemporanea.

Partendo da questo progetto, Castro prevede di creare una fondazione dell’Urgenza, per organizzare delle biennali in luoghi fuori dal tragitto tradizionale.

E’ forte la precedente esperienza politica, in questi ultimi lavori di Jota Castro. Egli l’assume a fondamento della sua poetica, rafforzandola dell’esperienza personale. Ne nascono lavori che denunciano, a partire dalla loro evidenza, dalla freddezza dei colori e dei materiali, dalla forza dei concetti su cui si creano. Ma è anche, e semplicemente, il punto di vista di un artista che ha deciso di parlare al mondo, di raccontare la propria visione della realtà. In conclusione, una piccola citazione tratta da un’intervista con Jérôme Sans, curatore della mostra al Palais de Tokyo: «Il mio ruolo di artista mi è diventato chiaro quando ho compreso che l’artista è un uomo come un altro, che decide che ci sono delle cose da dire e delle cose da fare, e che non ha tempo da perdere. Sente che la sua epoca ha bisogno di interpreti e si riconosce nel mondo che lo circonda». [da Jota Castro, Jérôme Sans, Jota
Castro, Parigi - Charleroi - Rennes - Brescia, 2005].

     

 
 

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