19/12/2005

 
Francesca Zappia 
 
 
Doug Aitken's Ultraworld

 
   
 
 
   
Glass Era, 2005. Installazione video su 3 schermi, 7'07'' Collection Ringier, Zurich. Courtesy Galle




Glass Era, 2005. Installazione video su 3 schermi, 7'07'' Collection Ringier, Zurich. Courtesy Galle




No History, 2005 Specchi in acciaio inox. Courtesy Thyssen-Bomemisza Art Contemporary, Wien; Galleri




The Moment, 2005. Installazione video su 11 monitor, 6'30'' Courtesy 303 Gallery, New York; Galleria




The Moment, 2005. Installazione video su 11 monitor, 6'30'' Courtesy 303 Gallery, New York; Galleria




The Moment, 2005. Installazione video su 11 monitor, 6'30'' Courtesy 303 Gallery, New York; Galleria



 
Doug Aitken's Ultraworld

Le Città invisibili e i non luoghi
C'erano una volta le Mille e una notte. I palazzi dei sultani avevano tetti di panna montata. Il profumo delle città erano le spezie colorate, il loro suono, il vociare della gente al mercato.
C'erano una volta, ma un po' più tardi, delle Città invisibili, queste città avevano nomi di donna, ed ognuna aveva una particolarità individuale, grazie alla storia che si portava dietro, e al paesaggio che la circondava. Allora la città si misurava con gli eventi del passato, solcati in essa come le rughe sul volto di un vecchio [Italo Calvino, Le Città Invisibili]. Essa trasudava la propria storia sull'intonaco ingrigito, nostalgico degli antichi colori.
La città è stata racconto, specchio di altri popoli e altre civiltà, affascinante, perché immagine esotica raccontata e bizzarra, quando ancora era il tempo delle fiabe.

Ora è il tempo dell'immagine simultanea, che si rimbalza da un angolo all'altro del pianeta, e non sta ferma mai, neanche quando dormiamo. Ed è sull'immagine di persone che dormono, che entro in una delle installazioni di Doug Aitken (The Moment, 2005). Catturate nella stessa posizione, queste immagini si intervallano a diapositive di superfici vetrate di enormi grattacieli, moduli astratti che si ripropongono sempre uguali in qualsiasi città.
Mi ricorda la Trude di Calvino, che ha lo stesso aeroporto della città di partenza, che propone abitazioni di periferia uguali anche nel giallo verde delle facciate, che presenta vetrine splendenti, dalle insegne e mercanzie identiche. “Il mondo è coperto da un'unica Trude, che non comincia né finisce, cambia solo il nome dell'aeroporto.”

È su questa riflessione, che Doug Aitken presenta lo spazio della città contemporanea. Sono fotografie di non luoghi, ad accoglierci all'inizio dell'esposizione (Crystal Coma, 2005). Ventiquattro scatti, stesso punto di vista, stessa freddezza inaccogliente, spoglia di qualsiasi realtà umana.
“I non luoghi sono la misura dell'epoca”, dice Marc Augé, mondi promessi all'individualità solitaria, al passaggio al provvisorio e all'effimero.
I non luoghi, nati con la modernità – primi mezzi di trasporto veloci, prime stazioni, prime metropolitane… - si sviluppano nella città contemporanea da un crescente e continuo bisogno commerciale ed economico. Il mondo diventa sempre più veloce, e la realtà sempre più sterilizzata. Di fronte alla nascita di architetture modulari e astratte, splendenti della loro vitrea lucidità, anche la città del passato si rinnova e si rinfresca. L'ingrigito sudore del tempo viene cancellato con una mano di intonaco, le vecchie botteghe si rinnovano e fanno mostra di un design astratto e lucido.
Il non luogo é ovunque nella grande città.
Doug Aitken sceglie tra i non luoghi gli aeroporti e le camere d'albergo. E ne analizza il rapporto e l'influenza sulle persone.

La Società dello spettacolo – o la rappresentazione
Nell'epoca dell'immagine simultanea, è la rappresentazione che il più delle volte giustifica la verità della realtà. I mondi fiabeschi della fantasia vengono sormontati dalle immagini filmiche. Meno esotiche e più reali, hanno il potere di concentrare sguardo e coscienza.
Al sistema a bombardamento continuo delle immagini del nostro televisore, Doug Aitken oppone il suo bombardamento, portato allo spasimo dalla proiezione di diapositive veloci e caleidoscopiche di un'immagine della realtà, che non ha più storia, perché non vi è più narrazione (The Moment). Le persone nei suoi video vengono spogliate della propria individualità – eccettuata l'individualità fisica –. I piccoli fremiti del sonno si intervallano con gli oggetti e le architetture della loro quotidianità. Il risveglio, e i personaggi sono faccia a faccia con noi spettatori, in piedi, come se fossero la nostra immagine speculare. Ma se le persone sono ancora in fase di inattività, le immagini prendono un'allure sempre più veloce, fino alla psichedelica intermittenza di immagini, oggetti persone colori, ultima raffica.
“Là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo, come tendenza a far vedere attraverso diverse mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente comprensibile, trova normalmente nella vista il senso umano privilegiato che è stato in altre epoche il tatto, il senso più astratto e più mistificabile corrisponde all'astrazione generalizzata della società attuale.” [Guy Debord, La Società dello spettacolo]

Uno nessuno centomila – o lo specchio
Lo specchio è un altro elemento importante di questa installazione. Spettatori, siamo davanti ad individui in cui ci riconosciamo. La loro non azione, è un po' la nostra non azione di fronte all'opera. Ci cogliamo nella stessa postura, nel buio della sala, attraverso specchi sul retro dei monitor. Camminando attraverso il percorso sinusoidale tracciato dai monitor, la nostra immagine, quella degli altri spettatori, l'immagine dei video, si mescolano. “M'era accaduto tante volte d'incontrar gli occhi per caso nello specchio con qualcuno che stava a guardarmi nello specchio stesso. Io nello specchio non mi vedevo ed ero veduto; così l'altro, non si vedeva ma vedeva il mio viso e si vedeva guardato da me. Se mi fossi sporto a vedermi anch'io nello specchio, avrei forse potuto esser visto ancora dall'altro, ma io no, non avrei più potuto vederlo. Non si può ad un tempo vedersi e vedere che un altro sta a guardarci nello stesso specchio. […] Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna immagine di me.” [Luigi Pirandello, Uno nessuno centomila]. E' qui la moltiplicazione della riflessione pirandelliana sull'immagine, ma con una risposta implicita, quell'uno nessuno centomila che si é per se stessi e per gli altri si livella e si accomuna nel carattere dei gesti ripetuti e spogliati di qualsiasi individualità.
Chiamando in causa direttamente lo spettatore, No History (2005) lo coglie all'interno di un labirinto di vetri sfaccettati. Il movimento degli specchi può forse risolvere l'enigma pirandelliano citato qui sopra. Certo è che la riflessione dello spettatore è portata sulla propria relazione con gli altri e con lo spazio circostante.

Ancora una volta, anche in questa installazione, l'individualità e il carattere personale di chi attraversa il labirinto si perde nella natura non soggettiva della comprensione di quest'opera. Non soggettiva perché il solo scatenamento della riflessione di relazione con gli altri, di fronte all'immagine di se stessi allo specchio, è in qualche modo alienante. Ci troviamo qui al limite tra contemplazione – o la nostra morte nell'immagine, come in Pirandello – e la vita, che si attiva dal momento in cui non ci guardiamo più allo specchio.
Uscendo dalla filosofia dell'individualità, in scala più grande – a livello sociale – la stessa problematica appare nel rapporto con il mondo rappresentato, ovvero con lo spettacolo. “L'esteriorità dello spettacolo in rapporto all'uomo che agisce appare quando i propri gesti non gli appartengono più, ma a un altro che li rappresenta”, dice Debord. L'integrazione nella società deve riunire gli individui come individui isolati insieme.
Come nella città invisibile di Cloe, le persone non si conoscono. Possono immaginarsi gli incontri e le conversazioni, ma distolgono lo sguardo l'uno dall'altro, fuggendosi e rifugiandosi nell'anonimato della città. “La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi.” [Pirandello]. E', purtroppo, la prerogativa della surmodernità.

Ritorno sui non luoghi – e conclusione (quando un uomo divento' lo spazio circostante)
Cio' che Marc Augé chiama surmodernità puo' riassumersi in una triplice interpretazione. A fianco di un'individualità che diventa solitudine nella grande città, si ha un eccesso di temporalità – l'accelerazione delle fasi storiche, per l'importanza assunta dall'informazione in tempo reale – ed un eccesso di spazialità. Sempre nuovi spazi si creano sulla superficie terrestre, che sono spazi di circolazione, di comunicazione o di consumazione.
Tra questi tre elementi, è il sistema spaziale che prende il sopravvento. E' quel che si percepisce da tutte le installazioni di Doug Aitken, ma soprattutto dall'opera conclusiva dell'esposizione (Glass Era, 2005).
Essa ritorna sull'ipnosi dei non luoghi. Quest'ultimo video puo' essere letto come un ricordo di viaggio. Narrazione a-lineare, sono istantanee che mescolano non luoghi e paesaggio. "Lo spazio come pratica dei luoghi e non del luogo procede ad un doppio sfasamento. Del viaggiatore e del paesaggio, di cui non si ha mai una veduta parziale ma delle istantanee che si addizionano nella memoria e ricomposte letteralmente nel racconto che il viaggiatore ne fa o nell'incatenamento di diapositive che impone al ritorno dal viaggio. L'importanza di una postura di un'attitudine nel senso più fisico e banale del termine si effettua alla fine di un movimento che svuota di ogni contenuto e senso il paesaggio e lo sguardo che lo prendeva come oggetto, perché è lo sguardo che si fonde col paesaggio e diventa l'oggetto di uno sguardo secondo e inassegnabile – lo stesso, un altro." [Marc Augé, I Non luoghi]

L'estrema conseguenza del predominio dello spazio sull'io e sul tempo, è in Alpha (2005), film in immagini. Libro ibrido e catalogo dell'esposizione [Doug Aitken, Alpha, JRP Ringier / Paris-Musées, 2005] – è un film che è stato effettivamente girato, ma che non sarà mai presentato come tale – racconta di un uomo solitario e della sua necessità di essere sempre in movimento. Il suo ritmo è quello del viaggio. La sua casa, le camere d'albergo. E poi un giorno, svegliandosi in un hotel, si trova nell'impossibilità di potersi muovere.
“In trappola nell'involucro del suo proprio corpo, pensò subito ad un mezzo d'evasione. Esisteva la possibilità di invertire la propria percezione? Poteva essa diventare uno strumento che gli permettesse di sradicarsi dal suo io fisico? Se non utilizzasse più la sua percezione come una presa, ma piuttosto come un passaggio per scappare al suo io fisico.
I suoi pensieri si urtavano alla velocità della luce, si concentrò intensamente sull'ambiente circostante, cominciando a vedere ciascuno degli oggetti nella sua tridimensionalità. All'interno della sua comune camera d'albergo, ogni superficie, ogni trama e ogni oggetto diventavano suoi. Guardava ogni particolare come se fosse parte di lui.
Avendo abbandonato il suo io fisico, era dappertutto.
Era il letto, le lenzuola, lo schermo bombato del televisore, i cardini polverosi della porta, il tappeto usato e il telefono a tasti, che posato accanto al letto, non aveva suonato. Era tutto ciò che lo circondava.
Ecco come abbandonò il suo corpo per diventare l'architettura del suo ambiente circostante.
Ecco come divenne questo albergo.”

Doug Aitken – Ultraworld
10 novembre – 31 dicembre 2005
Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris / ARC
Couvent des Cordeliers
15, rue de l'Ecole de Médecine – 75006 Paris
12h00 – 20h00
http://www.mam.paris.fr


     

 
 

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