10/10/2006

 
Stefano Pirovano 
 
 
Intervista a Vito Acconci

 
   
 
 
   





Acconci Studio, West 8 th Street Subway Station, 2004. Coney Island, Brooklyn.




Prototypes for sound-station, 2004-2005














Plaza of Plazas: preliminary approach to a renovation of Place Kleber, Strasbourg, 2005




Housing and Public Spaces. Beaumont, 2006




Housing and Public Spaces. Beaumont, 2006



 
All’inizio lei era un poeta. Come hanno fatto le parole a diventare strutture?

La mia poesia era basata su domande del tipo: cosa ti fa muovere dal margine destro a quello sinistro o dall’alto al fondo di una pagina? Trattavo la pagina alla stregua di un campo sul quale come io potevo muovermi da scrittore, così un’altro poteva farlo da lettore. Ho usato giochi di parole per eliminare i loro significati; le parole diventavano segnali per viaggiare sulla pagina. In retrospettiva, il mio lavoro potrebbe essere diventato architettura allora. Usavo la pagina come un modello astratto di uno spazio attuale. Il mio lavoro è progredito – e ci è voluto molto tempo – dalla struttura della frase alla struttura dei luoghi.

…ora lavora in gruppo, con altre persone. E’ cambiato qualcosa nel suo approccio alla creatività?

Non credo nella creatività. Nulla viene da nulla; credo in un’organizzazione, e dis-organizzazione, e riorganizzazione di ciò che già esiste. Quando per la prima volta ho fatto un lavoro in un contesto artistico – quando l’opera era una performance, quando mi concentravo sulla mia stessa persona e sull’interazione con le altre persone – è allora che ho pensato che avevo bisogno di essere solo per pensare: stavo prendendo appunti da un sotterraneo oscuro e profondo. Più tardi, quando ho iniziato a progettare spazi pubblici, luoghi per altre persone, ho capito che non avrei potuto più lavorare come un singolo agente, come un singolo “artista”: se il lavoro inizia come privato, finisce come privato – un lavoro che deve diventare pubblico, deve iniziare, almeno, come quasi pubblico, o semi-pubblico. Il numero uno è uno solo, il due è una coppia, o un’immagine allo specchio, una terza persona infittisce la trama, incomincia una discussione, un confronto – il “pubblico” inizia quando inizia un confronto.

Che genere di problemi crea il fatto di avere clienti invece di collezionisti?

Quando il mio lavoro era in un contesto artistico avevo pochi collezionisti. Allora non facevo oggetti, cose “tangibili” che potessero essere trasferite e vendute. Facevo attività e installazioni pensate per un determinato momento che scompariva con me. Il cambiamento dal collezionista al cliente, dunque, non è stato un problema, ma piuttosto un sollievo. I clienti chiedono, e pagano, non un oggetto, ma un servizio – una trasformazione dello spazio, la formazione di uno spazio popolato.

Una volta ha detto che l’architettura è un’opportunità per tutti.

Non ricordo queste esatte parole; posso aver detto che tutti conoscono l’architettura, perché tutti hanno fatto una scalinata o hanno attraversato una porta. Le persone non devono studiare l’architettura, da lontano; conoscono l’architettura con il loro stessi corpi, conoscono l’architettura sentendo la loro strada attraverso di essa.

Quando è venuto a Milano, nel mese di marzo, ha visitato il sacello di San Satiro del Bramante. Qual è stata la sua impressione?

Uno spazio fisico che era troppo piccolo è stato trasformato in uno spazio virtuale; è divenuto grande quanto avrebbe dovuto esserlo e avrebbe potuto diventarlo ancora di più. Mi ha interessato il fatto che l’edificio è stato costruito nel tempo da diversi architetti: l’architettura – a differenza dell’arte che è costruita per essere conservata – si presta al rinnovamento, va fuori moda, e ha bisogno di essere re-vivificata nel tempo presente.

Qual è il suo rapporto con il presente?

Posso solo sperare di preparare il futuro, di anticiparlo – almeno per mantenere il futuro aperto e possibile. Devo essere più interessato al presente, tenendo il presente aperto al futuro: vogliamo fare un’architettura con non possa essere costruita, che non possa essere disegnata, che non possa essere pensata prima del Ventunesimo secolo. Non possiamo essere all’altezza del presente abbandonando il futuro.

A proposito del problema del rapporto tra arte e ambiente. La migliore architettura è quella non costruita?

Un’architettura non costruita – o non costruibile – potrebbe essere la migliore teoria, ma non la migliore architettura. Le teorie devono essere verificate dalle persone. La teorie falliranno sempre, l’architettura dovrebbe fallire. Non si può rendere conto di ognuno in una folla di persone, si possono fare congetture, ma mai predire un cambiamento. Le architetture fallite portano a nuove teorie.

Ha mai pensato di ritornare a fare arte?

Non posso tornare indietro; non voglio portare il mondo nell’arte, ma voglio portare l’arte nel mondo. Non voglio “osservatori”, ma voglio partecipanti, utenti, abitanti. D’altra parte posso immaginare di tornare alla scrittura: se nessuno ci chiederà più di fare progetti, se lo studio non riuscirà a sopravvivere progettando da sé, potrei ricorrere allo scrivere di architettura, potrei scrivere una fantascienza dell’architettura.

Quali sono i confini del design?

Da una parte il design non ha confini: riguarda tutte le occasioni della vita quotidiana. Dall’altra il design si ferma quando le subentrano persone. Le presone de-disegnano e ri-disegnano.

Cosa intende quando dice che lo spazio del futuro è uno spazio nomadico?

Il presente è un mondo guidato dal computer, dove le informazioni sono accessibili istantaneamente, dove tutto è potenzialmente aperto e disponibile, dove le persone possono prendere la distribuzione nelle loro mani. Allo stesso modo il presente è il mondo di George W. Bush, restrizione contro gli immigrati, ritenzione della ricchezza, l’ossessione di eliminare i non-credenti. George W. Bush, ecc., è il segno di un ultimo respiro del conservatorismo, un ultimo estremo sforzo di tenere il vecchio mondo al suo posto, quando è ovvio che sta crollando. Il nuovo mondo sarà un mondo senza nazioni, ne confini; le persone non dovranno mai dover andare a casa perché avranno le loro case con loro, indosseranno le loro case. Non capanne che dovranno portare sulle spalle; saranno spazi-capsula – ogni tanto alcune capsule ne incontrano altre e si fondono insieme, si mischiano, quindi una nuova capsula emerge e va verso e attraverso le altre capsule.

     

 
 

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