Attraversare le contingenze allargando le prospettive

02/03/2009
stampa   ::  




“Salon of the Revolution” e la scena dell'arte croata


Una conversazione con Antonia Majaca ed Ivana Bago. Direttrice della Galleria Miroslav Kraljevic di Zagabria l'una e curatrice indipendente l'altra. Insieme, tra le altre cose, hanno curato “Salon of the Revolution” all'HDLU (padiglione Mestrovic) della capitale croata.



Nella foto: da sinistra, Antonia Majaca e Ivana Bago







29th Youth Salon Zagreb - Salon of the Revolution







Salon of the Revolution, esterno: Marin Kanajet & Vlado Cajkovac, Minarets, (intervento nello spazio pubblico 2008). Foto di Marko Ercegovic







L'ingresso: Nasan Tur, Time For Revollusion, (neon, 2008) a sinistra:Igor Grubic, Beuys, (installazione, 2008). Foto di Marko Ercegovic







L'esterno: Karla Suler, Untitled/ Sign, (l'artista ha chiesto e ottenuto che fosse possibile per i giovani di usufruire dei bagni dell'HDLU senza bisogno di visitare la mostra, 2008). Foto di Marko Ercegovic







Salon of the Revolution, veduta della mostra, 2008. Foto di Marko Ercegovic







A destra: Ahmet Ogut, Revolution/Devrim (wall drawing, 2005), al centro e a sinistra: Runo Lagomarsino, Casi Quasi Cinema (installazione, 2006) e The Iraq Series (disegni e collages, 2005-2007). Foto di Marko Ercegovic







A sinistra: Arturas Bumsteinas & Laura Garbstiene, Applaus (video installazione,2004), a destra: Patricia Esquivias, Folklore #1 (video, 2006) & folklore # 2 (video, 2008). Foto di Marko Ercegovic







A destra: Angel Nevarez & Valerie Tevere, Touching From a Distance (video e installazione, 2008) a sinistra: Jeudi Noir (installazione 2006-2008). Foto di Marko Ercegovic







Veduta della mostra, Janez Jansa, Politics of painting, 2007. Foto di Marko Ercegovic







Runo Lagomarsino, We Support, 2007. Foto di Marko Ercegovic







Galleria Miroslav Kraljevic, On the state of the Nation, Ruta & Archisquadkropano,2008







Galleria Miroslav Kraljevic, Contact Zone, Almut Rink, 2008







Galleria Miroslav Kraljevic, Revolution is not a garden party,2007







Disobedience Archive: Disobedience East / Nomeda and Gediminas Urbonas, Pro-test Iab archive, 2005-2007. Video still. Courtesy dell'artista.







Disobedience Archive: Protesting Capitalist Globalization / Oliver Ressler and Zanny Begg, What Would It Mean To Win, 2008, video still. Courtesy degli artisti.







Disobedience Archive: Argentina Fabrica Social, Grupo de Arte Callejero, Escrache, 2001




A cura di Matteo Lucchetti

Lo scorso ottobre Zagabria ha visto inaugurare il suo 29° salone dell'arte giovane con l'ossimorico titolo di Salon of the Revolution. Contestualmente all'anniversario dei quarant'anni dai movimenti di contestazione del 1968, le due curatrici a cui era stata affidata questa edizione, Antonia Majaca e Ivana Bago, hanno pensato di rivoluzionare le rigide convenzioni di una mostra da Salon facendo diventare l'operazione un esteso progetto rivolto a tutte quelle pratiche artistiche, emergenti a livello internazionale, connotate da un impegno politico o sociale nella propria ricerca.
Ne è emerso un attento e forte lavoro che riflette sulla “salonizzazione” contemporanea di un'arte del dissenso e sulle parallele possibilità “rivoluzionarie” delle pratiche espositive.

Matteo Lucchetti: Salon of the Revolution porta con sé una contraddizione nella quale il concetto del Salon e quello di rivoluzione sono accostati con l'idea di esprimere la necessità di 'salonizzare' la rivoluzione, o meglio, di offrire una versione istituzionalizzata delle 'rivoluzioni' contemporanee e delle immagini loro relative. Sono questi tempi nei quali i due concetti, storicamente oppositivi, possono trovare un campo comune di condivisione?

Antonia Majaca ed Ivana Bago: L'unione dei concetti di Salon e di Rivoluzione è più una diagnosi realistica che una ricetta per l'emancipazione, nel senso che il titolo deriva essenzialmente dalla riflessione sullo stato attuale dell'arte contemporanea e della società in confronto a quello, perlomeno immaginato, del passato, nel quale l'arte “rivoluzionaria” e la pratica espositiva sembravano essersi allontanate, per un momento, dalla tradizione ottocentesca borghese del Salone. In questo senso, mettere questi due concetti opposti in un rapporto contraddittorio e ossimorico, non voleva tanto indicare il “bisogno” di “salonizzare” ma piuttosto il “salonizzare” come lo scenario, o destino se vuoi, apparentemente inevitabile di molte pratiche artistiche e sociali innovative, radicali, di rottura ecc. sia del presente che del passato.
La mostra è stata inaugurata nel 2008, un anno saturato dai discorsi sul 1968, che hanno avuto un riverbero attraverso molte aree della produzione accademica e culturale. Simposi, film festival, produzioni cinematografiche (sia documentari che lungometraggi), cultura popolare, mostre, riviste, giornali, ecc, sono stati tutti, in un modo o nell'altro, partecipi in questa azione di “omaggio” al 40° anniversario del 1968, discutendo le sue ripercussioni e conseguenze nelle diverse parti del mondo.
Più spesso che no, hanno giocato il ruolo di trovare spazio sugli scaffali della storia, dove mettere, categorizzare e nostalgicamente desiderare questo passato e un'improbabile ripetizione di un'era di ribellione, convinzione e dissenso.
Il titolo è perciò molto auto riflessivo: come curatrici della mostra, rappresentiamo sia coloro che fanno questa diagnosi che coloro che partecipano a questa “salonizzazione”: invitate a curare un salon dell'arte giovane, l'abbiamo trasformato in un Salon che tratta di Rivoluzione, un salone che interroga l'eredità del concetto di rivolta giovanile, di storia del dissenso, così come la stessa storia dello Youth Salon (Salone dell'arte giovane) come istituzione.
Siamo consapevoli che il solo modo di tematizzare la “rivoluzione” oggi è di trasformarla in un brand, estetizzarla ed intellettualizzarla. Allo stesso tempo, stiamo cercando di trovare modi con i quali “rivoluzionare” il formato del Salon, ad esempio estraendo qualsiasi possibile percorso di pensiero emancipativo sull'arte contemporanea e la cultura.

Lo spazio che ha ospitato Salon of the Revolution, l'HDLU, è stato una moschea, una casa degli artisti, ancora prima un museo della Rivoluzione ed in origine un padiglione commemorativo realizzato ad opera del celebre scultore Mestrovic.
I vari regimi ed i rispettivi oppositori che si sono susseguiti, ne hanno sempre fatto uno strumento politico, cambiandogli di segno. Attualmente è un padiglione espositivo, una struttura che incarna l'idea di Salon come spazio appositamente pensato per l'arte, dove è possibile mettere “on display” una chiara proposta dello stato dell'arte.
Voi avete piuttosto scelto di aprirlo nel tempo e nello spazio, creando una serie di eventi per Zagabria ed usando lo spazio esterno all'edificio storico. In che modo l'idea di rompere la chiusura connaturata alla struttura si è riflessa sul vostro concept di display?


Siamo state interessate fin da subito da questo complesso intreccio di decise strumentalizzazioni ideologiche che hanno riguardato l'edificio durante i differenti regimi e le loro opposizioni, con la costante non accettazione di queste strumentalizzazioni da parte del mondo dell'arte. Volevamo mostrare la rilevanza di questi gesti di dissenso, come questi sono stati cruciali nel modificare la storia dell'edificio e, nel fare questo, volevamo suggerire il potenziale emancipatore dell'arte in generale.
Diversi lavori nella mostra si sono riferiti più o meno direttamente alla storia dell'edificio, particolarmente quello di Marin Kanajet che ha usato la sabbia per ricostruire la posizione e il disegno dei tre minareti che circondavano l'edificio durante gli anni in cui questo servì da moschea.
Il suo lavoro connetteva l'esterno e l'interno dello spazio, dato che all'interno il lavoro continuava con la timeline completa della storia del padiglione e con registrazioni sonore nelle quali degli attori leggevano differenti discorsi d'inaugurazione, trascritti dalle cerimonie di apertura dei differenti usi della struttura. Per quanto riguarda il disegno della mostra stessa, certamente l'edificio è stato dominante nel suo imporre una disposizione circolare dello spazio e del movimento.
Abbiamo deciso di seguire questo andamento piuttosto che provare a “combatterlo” attraverso la costruzione di ulteriori muri divisori che avrebbero “nascosto” la disposizione originale e lo spazio. Al contrario, abbiamo usato meno divisioni possibili e provato a mantenere la percezione di ogni parte del padiglione: il vasto e alto spazio centrale coperto da un impressionante cupola che filtra la luce esterna è stato lasciato praticamente vuoto ed il più “etereo” possibile, con lavori tematicamente vicini ad idee di utopia passate o presenti, storie e luoghi immaginari, ecc. L'anello esterno del secondo piano ospitava la maggior parte dei lavori in mostra, che abbiamo cercato di mettere in comunicazione, tanto visiva che tematica, senza causare conflitti tra di loro.
L'anello più interno, appena sotto la cupola, era interamente dedicato al Disobedience archive curato da Marco Scotini (con un display pensato da Zbynek Baladran), che formava – sia letteralmente che metaforicamente – un'entità circolare tematica, temporale e visuale nella mostra.
Relativamente alla scelta di utilizzare lo spazio esterno lo scopo era di irrompere al di fuori dell'edificio e di fare installazioni all'aperto; lo si è fatto principalmente perché diversi lavori erano stati concepiti in questo modo e necessitavano un confronto più diretto oppure una comunicazione con lo spazio urbano e con il pubblico.
L'edificio ha una posizione molto visibile e domina la città, questo può rivelarsi uno “strumento” molto utile per comunicare contenuti allo spazio pubblico. Il lavoro di Nasan Tur Time for Revollusion funzionava come una sorta di invito o, persino, come pubblicità della mostra, situato al di sopra della porta di entrata nella forma di una luce neon rossa.
L'installazione di Igor Grubić We Are the Revolution invitava i passanti a posare e a fare una foto di loro stessi nelle sembianze di Joseph Beuys, il lavoro di Đuro Gavran all'interno della piccola area del parco provocava il ripensamento del concetto e del significato di televisione nazionale, mentre Petar Bunić ha portato via il pubblico dallo spazio espositivo conducendolo, nella notte dell'opening, sul tetto di un palazzo residenziale lì vicino che ha funzionato come una sorta di riparo, dove potersi “nascondere” dalla frenetica atmosfera dell'inaugurazione e guardare dall'alto e tranquillamente l'intero evento.
Durante la mostra (che includeva anche una conferenza ed un programma di film) diverse azioni e performance sono avvenute nello spazio esterno, con la conclusione della parata di Siniša Labrović attraverso la città. Partendo dal padiglione ed arrivando di fronte al Parlamento Labrović ha trasformato il pubblico nel protagonista di una protesta, con in mano dei cartelli bianchi e “gridando” i supposti slogan in completo silenzio.

Oltre alle varie questioni sollevate, la mostra intendeva offrire una panoramica su una generazione di giovani artisti che prevede il coinvolgimento politico nelle sue pratiche artistiche.
Parallelamente avete deciso di offrire la parte più interna della mostra all'archivio di Disobedience, un progetto a cura di Marco Scotini basato su un archivio aperto che mostra forme di autorappresentazione della disobbedienza civile e sociale a partire dall'esperienza del 1977 italiano.
Possiamo leggere in questa scelta un modo per trovare le radici più prossime di questo impegno politico nelle espressioni artistiche di queste generazioni più giovani?


L'interpretazione che dai, riflette da vicino il nostro intento e le motivazioni alla base dell'inclusione di Disobedience Archive che, per noi, significa trovare non solo delle connessioni esistenti fra la storia dell'arte recente e del dissenso e i lavori dei giovani artisti, ma è stimolo a nuove connessioni non ancora emerse nel lavoro di questi stessi artisti. Con ciò mi riferisco primariamente alla scena locale croata, nella quale ci sono davvero pochi artisti (specialmente fra le giovani generazioni), il cui lavoro è veramente politico e che stanno interrogando criticamente lo spazio sociale, politico ed economico in cui sono immersi.
In questo senso includere Disobedience Archive è stata anche una scelta didattica dato che intendevamo svelare la rilevanza e l'opportunità della fusione, oggi, fra arte e attivismo, che non è morta col '68 ma, al contrario, è quanto mai attuale, fatto che potrebbe rappresentare un incoraggiamento, per i giovani artisti e attivisti, a iniziare o a continuare il loro lavoro in tale direzione.
Quando abbiamo cominciato a immaginare la mostra, avendo bene in mente che il nostro scopo era quello di coinvolgere artisti “giovani”, ci sentivamo molto a disagio rispetto a questa idea inopportuna d'arte “giovane” e arte “vecchia”. Il concetto di giovinezza va molto al di là, naturalmente, del semplice limite anagrafico di 35 anni che il Youth Salon ha fissato come condizione per poter prendere parte alla mostra.
L'intera idea di riferirsi al concetto di rivoluzione ed al '68, è nata proprio da una riconsiderazione sul significato di “gioventù” e dalla riflessione che ci si aspetta che i giovani, e i giovani artisti in particolare, siano in contrasto con i più vecchi. Abbiamo allora capito che secondo noi molti artisti oggi cinquantenni e sessantenni, come Sanja Iveković o Mladen Stilinović, stanno ancora adesso realizzando un'arte più giovane e più attivamente partecipe alla vita e alla società rispetto a quella dei veri artisti “giovani” a cui eravamo tenute a rivolgerci.
Ecco perché ci siamo chieste come connettere l'eredità delle generazioni precedenti alle attuali: avevamo voglia di creare un archivio di lavori di artisti dell'est europeo degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, che avrebbe mostrato obiettivi e mezzi specifici del rappresentare il dissenso, e l'impegno critico e politico nei diversi Paesi dell'Europa dell'est. Nel frattempo, siamo venute a sapere del progetto di Marco Scotini, che abbiamo trovato subito molto interessante e che abbiamo capito potesse essere la controparte al resto della mostra che stavamo cercando.
Quello che ci sembrava davvero importante di Disobedience Archive era il fatto che si occupasse di arte e disobbedienza non solo del passato, ma, prima di tutto, del momento attuale e questo approccio aggiornato, in crescita e aperto è ciò che ne rafforza il potere emancipatorio, insieme al fatto che non distingue fra disobbedienza artistica e disobbedienza civile, e che non limita il gesto artistico ad un contesto neutro.
Il resto della mostra, in realtà, ha presentato ben pochi progetti orientati all'attivismo o progetti di documentazione in “presa diretta”: una deliberata scelta, dato che il focus del nostro concept e della mostra sta piuttosto nell'interrogare vari concetti legati all'idea di rivoluzione e di passato (nostalgia, malinconia, passività/coinvolgimento, critica, collettività/individualità, ecc.), anche in questo Disobedience Archive ha rappresentato una interessante e importante controparte. Inoltre, ci piace l'idea di mostrare lavori non solo artistici ma di curatela come “artwork” autonomi e di pensarli come entità creativa a sé, come lavoro.
Ovviamente, il discusso “trionfo” del curatore come agente creativo sta guadagnando sempre più importanza, un fatto che si riflette anche nella nostra decisione di invitare non solo l'Archive ma anche il progetto Illegal Cinema, unità creative autonome interne alla mostra.

Molti degli artisti che sono stati scelti per far parte di questo rinnovato Salone dei giovani, nel loro lavoro hanno a che fare con la questione dell'archivio e con l'eredità della storia. Episodi storici ridipinti, materiale filmico ricostruito, disegni che giocano con la nozione di documento. Credete che lavorare con l'archivio, e con le implicazioni politiche che questo richiama, stia diventando sempre più uno strumento della pratica artistica contemporanea?

E' vero che recentemente stiamo vedendo un gran numero di lavori che hanno a che fare col passato o che sono guidati da questo impulso 'archeologico'. Se ci chiediamo perché sia così, una delle possibili risposte può trovarsi nel fatto che noi viviamo in quella che Slavoj Zizek chiama società post-politica, nella quale tendiamo alla ricerca di una visione del futuro nel passato piuttosto che nel presente, probabilmente perchè non c'è niente nel presente al quale aggrapparsi.
Sembra che nel presente unificato e controllato solamente dal capitale, che trasforma sé stesso in discorso politico, chi vuole assumere una posizione attiva sia costretto a voltarsi verso il passato per cercare l'entusiasmo nei confronti del futuro o, in effetti, per il presente. Ci sono numerosi progetti che affrontano il presente con un certo entusiasmo per il passato, offrendo una risposta soggettiva alla questione che Wendy Brown nel suo saggio Resisting Left Melancholy ha avanzato e che ci sembra abbastanza rilevante per molti dei nostri progetti: “Come possiamo ottenere sostegno nel processo creativo dagli ideali socialisti di dignità, uguaglianza e libertà, mentre riconosciamo che questi ideali furono evocati da condizioni storiche e prospettive che non sono più quelle del presente?”
Invece di sollevare semplicemente delle questioni, molti dei progetti e degli interventi che abbiamo mostrato al Salon trasmettono la posizione attiva di un artista come intellettuale pubblico ed offrono un possibile modello di adempimento ad un modello sociale. Noi siamo convinte che facendo alcuni piccoli passi potremmo andare verso una sempre maggiore sollecitazione della critica allo status quo e non importa quanti diritti civili si potranno perdere in questo processo.
Parallelamente, volevamo essere critiche nei confronti di questa pulsione poetica, nostalgica, archeologica e chiedere a noi stessi: i tempi della ribellione e della resistenza sono veramente dietro di noi o hanno a che fare con un' altra trappola ideologica che, a parte il voler scoraggiare ogni pensiero o azione di trasformazione, ignora le reali rivoluzioni ed espressioni di resistenza e disobbedienza esistenti intorno a noi (sebbene queste possano solo essere definite frammentarie, “molecolari”, disunite, ecc.)? Può una atteggiamento paralizzante, malinconico, spesso cinico verso il passato, ostacolare la creazione di nuove relazioni e visioni indirizzate verso il futuro?
Molti artisti ci sono vicini nell'interrogarsi circa il modo con cui uno sguardo al passato, o persino la nostalgia per il passato, possa diventare non solo un'attitudine paralizzante e passiva (che Walter Benjamin con aria da rimprovero chiamava “malinconia sinistrorsa”), ma anche la forza che guida una nuova riflessione sull'arte e sul presente. Questa è una posizione che abbiamo già provato ad esplorare con la nostra mostra Stalking With Stories - Pioneers of Unmemorable, che abbiamo curato ad Apexart a New York. Sembra che continuiamo a tornare in forme diverse alla concezione dinamica di Walter Benjamin del moderno e del non-lineare, interpretazione relazionale della storia come raffigurata nella costellazione che collega il passato al presente, e dove la sua formazione simula un flash di riconoscimento, un cambiamento istantaneo nella comprensione storica.
Si tratta di pensare agli eventi come separati nel tempo ma legati da una consapevolezza insurrezionale comune. Nello stesso tempo, la relazione nei confronti del passato che il Salon of the Revolution ha rivolto attraverso i suoi numerosi livelli di lettura, si trova lungo la linea di Badiou di 'fedeltà all'evento' e molti progetti in effetti si sono sviluppati intorno a queste coordinate poetiche e politiche.

Ad Ottobre nell'area balcanica c'è un altro, e forse più conosciuto, Salone dell'arte: l'October Salon di Sarajevo. Quanto pensate che la forma espositiva del Salone possa essere letta come un'eredità del passato di queste regioni, o meglio, quanto il persistere di questo “gesto paternalista”- come voi lo chiamate – dello Stato è sintomo di una produzione artistica ancora sentita come fortemente connessa a una fruizione esclusivamente pubblica?

Questa eredità persistente del format del Salon da XIX secolo, è una scelta meno consapevole e più un segno di ricezione passiva e di infinito ripetersi di formati anacronistici senza mai preoccuparsi se questi abbiano ancora scopo o significato alcuno. Persino quando non vengono chiamate “salons”, le mostre su larga scala in Croazia sono troppo spesso semplici rassegne senza obiettivo o argomento, dove il tema poi diviene semplicemente il genere di “cosa” che viene passata in rassegna: gli artisti giovani o “maturi”, i generi specifici – rassegne periodiche di produzioni nazionali, di architettura, pittura, scultura, arti applicate, o relative a specifiche aree geografiche – mostre che “raccolgono” tutti gli artisti rilevanti di una città ed impongono il mito delle “scene” specifiche (scena artistica di Dubrovnik, scena artistica di Fiume ecc.), il che è particolarmente ridicolo in un paese così piccolo come la Croazia.
Come nella forma tradizionale del Salon, i criteri di accettazione o rifiuto di qualcuno sono sempre vaghi e si basano solamente sul giudizio di una giuria che valuta la qualità soltanto dopo che i presupposti di appartenenza sopra menzionati sono soddisfatti. Così mentre nell'Europa occidentale il salon è stato da tempo abbandonato – con la Biennale che ha preso il suo posto in quanto a rappresentatività – nella ex-regione Jugoslava è rimasto il formato dominante e indiscusso durante tutto il XX secolo, ed è particolarmente interessante pensare al paradosso di come un paese socialista e comunista, che ha sempre dichiarato la borghesia come la sua maggior nemica, sia dedito a coltivare il fenomeno specificatamente borghese del salon.
Ai tempi del socialismo, l'espressione “la sinistra da salon” era usata come termine sprezzante per coloro che professavano i loro ideali comunisti e marxisti, ma che vivevano come la tipica borghesia, e ancora, l'espressione “principi del comunismo” era un'altra frase ossimorica con la quale questi venivano soprannominati.
Già nel passato ci sono stati degli sforzi per opporsi e discutere l'idea della mostra come Salon: dal 1975, per esempio, un'iniziativa del Centro culturale di Belgrado fu trasformata in opposizione diretta al Salone d'Ottobre di Belgrado: chiamarono la loro mostra October 1975 e nelle loro dichiarazioni criticarono ed ironizzarono continuamente l'eredità del Salone d'Ottobre.
Quindi, queste mostre sono semplicemente esistite per decenni e continuano ad esistere oggi, come se fossero un fatto acquisito che nessuno pensa di poter cambiare. Probabilmente ciò ha a che fare con il sostegno dello Stato, ma ha molto più a che fare con i consolidati ideali comunisti sulla questione dei pari diritti di partecipazione.
Il controllo culturale sul finanziamento è simile: dare ad ognuno più o meno lo stesso, secondo le dimensioni fisiche dell'istituzione e senza badare alla qualità del lavoro. Questo, tuttavia, mantiene solamente lo status-quo e non permette un avanzamento, non solo agli artisti ma anche alle iniziative curatoriali e culturali che hanno più potenziale rispetto ad altre.
Entrambe le recenti edizioni dell'October Salon di Belgrado e l'ultima edizione dello Youth Salon di Zagabria, che noi abbiamo curato, sono tentativi di mettere in questione ed abolire questa abitudine culturale improduttiva, estremamente e simbolicamente ben rappresentata dalla forma del Salon. Nel nostro progetto, rinominando (temporaneamente) il Youth Salon con il nome di Salon of the Revolution, mettiamo direttamente in dubbio questo. Il Salone d'Ottobre di Belgrado mantiene il suo nome, ma queste ultime edizioni sono state completamente diverse da prima, il suo carattere è stato rimpiazzato da un concept di rilievo internazionale, ideato da curatori sia locali che nazionali, cercando di avvicinarlo il più possibile al formato della biennale.
Interessante notare che, come noi stiamo cercando di sbarazzarci del Salon, sempre più progetti in occidente si stanno designando come saloni. Non ci riferiamo alle mostre su larga scala, ma più alle piattaforme discorsive, auto-educative, di dibattito, ovviamente traendo ispirazione dalla forma storica del conservare scambiando idee e sapere. Così il Salon pare essere tornato.

A questo punto non posso fare a meno di chiedervi una riflessione relativa al sistema dell'arte croato dove la maggior parte degli spazi sono gestiti come luoghi di produzione culturale pubblici e dove sembra che il potere delle gallerie commerciali, paragonato a qualsiasi altra realtà italiana, sia debole.
Penso che questo possa esercitare una forte influenza sul mondo dei giovani artisti che hanno la possibilità di fuggire la logica di un successo personale connesso ad una galleria privata, dove inevitabilmente il loro lavoro è spesso soggetto ad un'oggettificazione funzionale alla vendita e lo spazio per la sperimentazione è conseguentemente ridotto.


Non c'è un vero mercato dell'arte in Croazia, né diversamente succede nella maggior parte dei Paesi della ex Yugoslavia e della regione, e, come hai detto tu, la maggior parte delle gallerie sono spazi finanziati dal sistema pubblico. Il problema è che la maggior parte di questi mostra solo arte nazionale e non ha un profilo chiaramente definito. Inoltre, le più importanti rassegne che trovano spazio nelle istituzioni del Paese sono, nuovamente, a carattere nazionale e questo fortifica, ma rafforza lo status quo nello scenario artistico locale.
Queste rassegne sono al massimo mediocri: dimostrano la prevalenza di tratti formalisti e una carenza d'inventiva e di coinvolgimento dei lavori dei giovani artisti.
Sono anche segno di una mancanza di progetti espositivi concettualmente solidi, di pratiche culturali essenzialmente a-critiche e di approcci non selettivi alla curatela, che si vede affidata esclusivamente al modello di rappresentazione nazionale, e che viene quindi costantemente sostenuta dalle politiche culturali nazionali in genere.
Questa limitazione fra confini nazionali fa sì che la scena istituzionale apporti contributi a una sensazione di isolamento, evidenziando la sindrome croata dell'auto-sussistenza e una situazione nella quale i giovani artisti lasciano le accademie e le scuole locali per lo più disinformati circa il mondo al di fuori di quella particolare istituzione, non conoscendo nemmeno le immediate vicinanze, come la produzione artistica locale, la pratica espositiva e intellettuale (per non dire di un più ampio contesto, e delle sue ramificazioni politiche e sociali fuori dal mondo dell'arte).
In verità è difficile giudicarli per questo, sapendo quanto i curricula dei professori siano (con rare eccezioni), estremamente inadeguati, anacronistici e inadatti a preparare gli studenti a ciò che li aspetta nel “mondo reale dell'arte”. Ma questo capita, per quanto ne sappiamo noi, anche in altri Paesi europei.
Circa la mancata implicazione del mercato dell'arte, possiamo essere d'accordo sul fatto che questo crei una situazione più rilassata, nella quale giovani artisti non entrano nel mondo dell'arte sognando di diventare ricchi ma probabilmente con un interesse più genuino. Però non si dovrebbe essere troppo ottimisti, perché questo tipo di orizzontalità spesso sfocia nell'indifferenza e nell'autocompiacimento.
D'altro canto, è importante enfatizzare la presenza di una scena culturale indipendente e dei suoi progetti, che piuttosto spesso offre ai giovani artisti uno spazio per la sperimentazione ma anche interroga, in maniera attiva, il ruolo e la responsabilità della pratica artistica.
Nell'ultima decade hanno preso vita molte organizzazioni culturali non governative e nuovi network, sollecitando una sensazione di nuova collettività e solidarietà sulla scena a fronte di una situazione nella quale la mancanza di fondi è spesso compensata da una grande abbondanza di capitale sociale e da qualcosa che ci piace chiamare infrastruttura d'amicizia.
La “dinamica” della scena locale può essere quindi descritta in modo binario, nel senso che le istituzioni spesso supportano e sostengono un isolamento nazionale, ma allo stesso tempo esiste un grande dinamismo e un grande fermento nella scena indipendente. Un nostro amico artista che ha passato molto tempo nei Balcani negli anni scorsi, dice che Zagabria è la zona più dinamica della regione in termini di arti e cultura. A volte una visione esterna è più chiara di quella interna...

La scena dell'arte contemporanea di Zagabria, considerando anche la quantità limitata di abitanti, ha un gran numero di artisti e curatori che lavorano efficacemente su un livello sia nazionale che internazionale.
Potreste ripercorrere per noi gli eventi più significativi che hanno avuto luogo a Zagabria negli ultimi anni?


Pensiamo che possa essere più interessante nominare brevemente alcune organizzazioni e varie iniziative artistiche e culturali i cui progetti e il continuo impegno in tempi recenti, hanno creato un forte impatto sulle dinamiche della scena locale. Essendo consapevoli della possibilità di dimenticare qualcuno vorremmo menzionare Operation City e Urban Festival così come le attività del collettivo curatoriale WHW, del CDU (Centro per le arti drammatiche), Factum e la casa di produzione documentaristica Fade In, Kontejner , il Dipartimento di Animazione e di New Media dell'Accademia d'Arte, lo Student Center – Culture of Change e molti altri... Ciò che è davvero importante per noi nel pensare alla scena locale, è la continuità, la convinzione e l'infaticabile lavoro di tutti questi attori piuttosto che i singoli eventi, indipendentemente da quanto rappresentativi e imponenti questi possano essere stati.

Dopo la direzione di Branko Franceschi, che ha portato la G-MK, Galleria Miroslav Kraljevic, dall'essere un circolo dell'arte del dopolavoro ad un'importante realtà dell'arte contemporanea, nel 2005 tu, Antonia Majaca, sei stata nominata direttrice dello spazio ed hai lavorato per incrementare le possibilità della galleria come mediatore attivo tra gli attori del sistema dell'arte.
Considerato il cambiamento della situazione politica e sociale, possiamo tracciare una linea di continuità dal circolo dell'arte del dopolavoro alla piattaforma internazionale che è oggi la galleria? Come vedi il tuo lavoro di direttrice artistica di uno spazio per l'arte contemporanea indipendente e soprattutto non profit?


Oggi, nell'accelerazione globale, sotto l'impatto delle sempre più veloci tecnologie informatiche nella società del tardo capitalismo, i resti del circolo dell'arte socialista in Croazia sembrano essere una sorta di forma arcaica sopravvissuta, persino un modo semplicistico dei lavoratori di organizzare il loro tempo libero ma anche una forma di riunione tra lavoratori, promossa autonomamente, attraverso attività culturali e artistiche. Nel contesto locale della “complessa organizzazione del lavoro unito” (SOUR) socialista, la forma dei circoli d'arte era, senza dubbio, altamente incoraggiata. Oggi come Galleria Miroslav Kraljevic funzioniamo come una piattaforma d'arte contemporanea indipendente e non profit ma siamo auto organizzati e autonomi in termini di attività ed obiettivi programmatici, così come lo erano i lavoratori. Basandoci su un enorme capitale sociale e su qualcosa che abbiamo cominciato a chiamare 'reciprocità radicale' siamo riusciti a trasformare G-MK in uno spazio per la contestazione costruttiva sul proprio operato, sui ruoli che lo spazio dovrebbe interpretare, sulle sue responsabilità e sul suo contesto.
Nonostante le risorse limitate (in termini di infrastrutture, budget e forza lavoro) abbiano iniziato una pletora di progetti che sono aperti, esplorativi e volti ai processi, così come attività in cui anche gli artisti e il pubblico diventano parte del team curatoriale e organizzativo, in un clima nel quale spesso i 'consumatori' diventano 'produttori' e vice versa.
Diversamente dalla maggior parte degli spazi per l'arte contemporanea abbiamo un profilo molto definito e cerchiamo di promuovere progetti che siano ricettivi rispetto al contesto e che investighino le preoccupazioni sociali, politiche, etiche ed estetiche del nostro qui ed ora.
Dal 2005 abbiamo cercato di sviluppare nuove strategie di lavoro, basate sullo specifico contesto della galleria ma anche basate sulla situazione della scena dell'arte locale in generale. Partendo dal presupposto che per essere capaci di sviluppare pratiche curatoriali ed artistiche rilevanti che interroghino o influenzino una più vasta realtà culturale e socio politica è anzitutto necessario domandarsi e ridefinire le proprie posizioni e relazioni, ostacoli e vantaggi all'interno di un più ampio network di soggetti nel mondo dell'arte, G-MK ha sviluppato numerosi nuovi approcci, linee programmatiche e progetti.
Focalizzandosi prevalentemente sulle relazioni, sulla discorsività e la comunicazione piuttosto che sulla mera presentazione, fondando residenze/ricerche per artisti e programmi di scambio, la galleria funziona oggi come catalizzatore nello sviluppo di nuovi progetti artistici e di nuove modalità di collaborazione tra soggetti.
Puntando anche ad arrivare oltre la sua 'definizione' di 'white cube', lo spazio della galleria partecipa attivamente nei progetti di mediazione e di educazione all'arte contemporanea, ed è dedicato a costruire network e a lanciarne di nuovi in regioni non centrali e marginali della Croazia, così come a collaborare con numerose organizzazioni in regioni più vaste per la realizzazione di progetti a lungo termine, trattando questioni culturali e socio politiche specifiche.
Recentemente G-MK è diventata anche un avamposto visivo per la nostra nuova organizzazione DeLVe – L'istituto per la durata, la variabile e il luogo – che si svilupperà con progetti duraturi di tipo investigativo e le cui manifestazioni visibili potranno prendere la forma di una mostra o di una pubblicazione comunicando con il pubblico anche, ma non necessariamente, attraverso l'attività di G-MK. Quindi, G-MK non è completamente compiuta e predefinita. In realtà vediamo la sua forma, il suo ruolo e la sua posizione al pari della sua 'apparenza', forse più come il passaggio in una continua trasformazione piuttosto che come una reale piattaforma.


Da segnalare come link di approfondimento:
www.salonrevolucije.org
www.g-mk.hr

Si ringraziano Alessio Baù e Arianna Carcano.

Matteo Lucchetti è un giovane curatore laureato in Storia dell'arte contemporanea all'Università degli Studi di Firenze con una tesi sul "Cremaster cycle" di Matthew Barney. Attualmente frequenta il biennio specialistico in Visual Arts and Curatorial Studies presso la Nuova Accademia di Belle Arti a Milano. Dal 2006 collabora, in qualità di assistente, con Marco Scotini. Tra i suoi progetti curatoriali: "The Power of the Artist #"1 presso Spazio Dinamico P.M.E., all'interno del Cantiere Provinciale per la Cultura Contemporanea di Pisa; "Milanopoli – un'indagine sulla città di Milano" presso NABA, Milano; "Emergenze 5" e "Massaccesi Mullstadt" alla Spezia. Scrive su riviste e pubblicazioni di settore.

 

pdfQuest'intervista in formato PDF da stampare