Attraversare le contingenze allargando le prospettive

16/04/2009
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Charles Esche

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Elvira Vannini/Matteo Lucchetti: Pensi che la direzione che la curatela di una Biennale può prendere, possa permettere la costruzione di uno spazio per il dissenso e la sperimentazione di nuovi formati culturali, rispetto alla deriva mainstream del fenomeno di espansione delle Biennali stesse in ogni parte del mondo?
Nella tua opinione in che modo le biennali "post-coloniali", o cosiddette periferiche, possono apportare cambiamenti all'interno del display espositivo? Possono avere ambizioni geopolitiche? Quali scenari culturali tracciano?

Charles Esche: Lo spero, altrimenti le Biennali non sarebbero altro che eventi puramente assertivi senza una singolarità. Penso che il modo in cui ogni biennale cerca di reagire alle edizioni ad essa precedenti, quasi cancellando i predecessori, è utile per ipotizzare come si possano produrre nuovi format culturali. Raramente le biennali ricercano la continuità; più spesso optano per l'indifferenza e la rottura radicale... anzi, più radicale è la rottura più sono elevate le possibilità di successo.
É comunque ancora possibile correre dei rischi con le biennali - magari non con Documenta o Venezia - rischi che non potresti correre in un'istituzione. L'auto-preservazione di un'istituzione, il suo "ego" istituzionale, è spesso più incombente di ogni possibilità di inventiva da parte di chi lavora al suo interno - quanto meno ad essere più grande è la battaglia tra questi due soggetti. In una biennale, continuo a credere,  che le cose funzionino all'inverso, o almeno che ci sia un potenziale in questo senso - le persone che la dirigono hanno più controllo sulla direzione che questa può prendere (a parte nel caso di Venezia che, in ogni caso, è un anacronismo).
Le biennali hanno chiaramente specificità geografiche che sono implicate politicamente. Credo che alcune biennali abbiano maggiori ambizioni geopolitiche ma ciò dipende dall'impostazione dei curatori più che dal particolare luogo che le ospita. Ovviamente, i media seguono alcune biennali più di altre, ma penso che biennali con una scala minore, come quella recente di Tirana o quella futura di Taipei, hanno più risonanza a livello di pratica curatoriale che l'ultima Biennale di Venezia, per esempio. É importante ricordare che nella maggior parte dell'Asia orientale e sud-orientale una biennale è la principale piattaforma tanto per l'innovazione artistica quanto per l'incontro tra grande pubblico e mondo dell'arte. In milioni, per esempio, visitano la Biennale di Gwangju e così approcciano l'arte contemporanea. Le istituzioni nella Corea del Sud hanno un impatto decisamente meno incisivo.
Quindi, possiamo affermare che le biennali, così come oggi le intendiamo, sono state inventate al di fuori dell'Occidente e in città che hanno meno sviluppato un sistema istituzionale. Questo modello è stato poi re-importato a Berlino, Liverpool o New Orleans - tutte città che hanno avuto problemi nell'inserirsi nell'attuale ordine economico globale. In questo senso, probabilmente le biennali occidentali sono legate più a rimedi culturali omeopatici che ad urgenti questioni artistiche o politiche. Il fallimento della Biennale di Parigi è un interessante esempio a riguardo.

Elvira Vannini/Matteo Lucchetti: In una situazione, su scala internazionale, dove la produzione culturale è spesso sottoposta a pratiche di potere che si esprimono attraverso l'attività dell'istituzione, come può la pratica curatoriale mantenere il suo potenziale critico e trasformativo?

Charles Esche: Che domanda enorme! Dove pensiamo che risieda il potenziale critico e trasformativo? Nel sapere curatoriale in sè? Oppure nell'atto di un incontro riflessivo con un'opera d'arte collocata (e forse indebolita) dall'atto curatoriale?
Quali sono gli effetti di tale potenziale nella trasformazione della pratica curatoriale e nella trasformazione, attraverso modalità indocumentabili, del pensiero e delle emozioni dello spettatore? Credo che questa domanda indichi una confusione in ciò che l'atto curatoriale rappresenta rispetto all'atto della produzione artistica e a quello della ricezione del pubblico. In questo senso, la produzione culturale è in contrasto con la curatela e con l'istituzione che assoggetta un'opera d'arte al proprio potere e ai propri limiti.
Questa relazione agonistica può essere fruttuosa, ed è ciò che un curatore deve tentare di ottenere. In essa, il potenziale  del curatore risiede nel liberare il potenziale critico e trasformativo dell'arte.

Elvira Vannini/Matteo Lucchetti:
Relativamente alla tua esperienza diretta, come si intrecciano le dinamiche sopracitate nel tuo lavoro?

Charles Esche: Personalmente, non credo di avere intrecciato tutto ciò molto bene. Tengo le cose separate e sto imparando a creare connessioni tra museo, biennale, attività editoriale e insegnamento. A tenere insieme tutto ciò è l'impegno personale a condividere pubblicamente il potenziale di un'opera, per immaginare un mondo diverso e con ciò creare la domanda perché questa immagine si realizzi in qualche forma.


Biografia
Charles Esche  è direttore del Van Abbemuseum di Eindhoven e co-direttore dell’Afterall Journal e di Afterall Books.
Tra le sue recenti attività di curatela e ricerca: curatore alla Biennale di Istanbul 2005 (con Vasif Kortun, Esra Sarigedik  Öktem, November Paynter); direttore del Rooseum Center for Contemporary Art, Malmö, Svezia (2000-2004); co-curatore alla Biennale di Gwangju 2002 (con Hou Hanru e Song Wan Kyung); Curatorial Adviser presso la Foundation for Art and Creative Technology di Liverpool (1998-2001).


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