Attraversare le contingenze allargando le prospettive

14/04/2013
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Volevo soltanto dipingere



Alex Katz. Foto courtesy Barbara Fassler




Alex Katz, Ada in the Grass, 1963




Alex Katz, Sunset 2, 2008




Museum Haus Konstruktiv di Zurigo, veduta parziale della mostra




Alex Katz, Blizzard 1, 2005




Museum Haus Konstruktiv di Zurigo, veduta parziale della mostra




Alex Katz, Provincetown, 1959




Alex Katz, Seagull in Morning Sun, 2000




Museum Haus Konstruktiv di Zurigo, veduta parziale della mostra










Barbara Fässler intervista Alex Katz

Lasciandosi dietro questioni come figurazione e astrazione, superando temi come innovazione e tradizione, saltando il conflitto tra costruttivismo e realismo, Alex Katz indaga le problematiche pittoriche dall'interno.

Indipendentemente dalla dimensione o dai colori, i suoi dipinti possiedono una rara densità energetica e un'eccezionale concentrazione mentale, tradotte in vibrazioni metafisiche queste qualità si manifestano con grande rigore. Superfici che sprofondano. Pennellate che picchiano. Paesaggi che avviluppano. Colori che risucchiano.

Katz si autodefinisce un pittore post-astratto: da un lato dichiara che "non ha mai voluto dipingere in modo astratto", dall'altro che "la grammatica della sua pittura è astratta".
Una contraddizione?

Dorothea Strauss, direttrice di Haus Konstruktiv a Zurigo - dove si sta svolgendo la mostra "Landscapes" dell'artista americano - definisce nel suo testo in catalogo, questo momento specifico un "punto critico di capovolgimento" tra astrazione e figurazione, tra costruzione e sensazione, tra geometria e fluttuazione.
In effetti, Alex Katz vede la pittura come un fatto a parte, piuttosto che riflettere sugli oggetti che appaiono e spariscono e che ci illudiamo di percepire. Tematizzare la pittura stessa significa interrogare lo status di un'immagine, di una qualsiasi immagine.
Ebbene: che cos'è un'immagine? Come ci insegna Magritte, un'immagine di una pipa non è la pipa stessa, ma soltanto una riproduzione bidimensionale di un oggetto tridimensionale che chiamiamo "pipa". Una visione pragmatica ci dice che la pittura consiste di pigmenti colorati con un qualche legante posti su una superficie come la carta, il lino oppure il cartone.

Come ci spiega la fisica, una pittura è composta da una massa di atomi, costituiti a loro volta da elettroni, protoni e neutroni in perpetuo movimento. Ogni immagine è un'illusione, ogni rappresentazione è una mera apparenza, che ci invita a raccontare delle storie, a sognare e a viaggiare con la nostra immaginazione.

L'artista americano Alex Katz, classe 1927, è considerato uno dei più importanti pittori contemporanei.
Ha studiato tra il 1946 e il 1949 alla "Cooper Union School of Art" di New York e più tardi alla "Skowhegan School of Painting and Sculpture" nel Maine. Nonostante egli tratti da allora temi classici come ritratto, paesaggio o natura morta, spinge ognuno di essi oltre il proprio limite storico.
Il genere pittorico così come il soggetto rappresentato, funge in effetti da pretesto per far passare il vero contenuto di un'opera sconfinata: l'atto e l'esperienza del dipingere come una pratica e un processo di apprendimento continuo. La concentrazione sul produrre creativo stesso, porta a una comprensione e una traduzione molto particolare della tematica paesaggistica nell'oeuvre di Alex Katz: lo spettatore si ritrova a confronto con superfici di colore piatte, pulite e chiare, dipinte "all over", opere gigantesche che seguono una loro precisa composizione geometrica.

Questi paesaggi raggiungono una tale dimensione da essere in grado di avvolgere gli spettatori, di coinvolgere il loro intero corpo. Il concetto di "Land-scape" torna al suo significato originario: "land-shape", la forma del paese, concepita proprio dalla percezione dell'osservatore.

Nella "Convenzione Europea del Paesaggio", leggiamo la seguente definizione: "Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali o umani e dalle loro interrelazioni".
Questa definizione ci dice che un paesaggio non è un "oggetto" dato con un'esistenza a sé stante, ma piuttosto un "soggetto" che nasce dall'osservazione e dalla percezione umana: è una costruzione culturale. Ciò che chiamiamo "paesaggio" esiste soltanto attraverso il nostro sguardo: il concetto è nato in un momento storico preciso, in concomitanza con i primi paesaggi dipinti dagli artisti olandesi alla fine del Cinquecento. Prima, durante il Rinascimento, la campagna dipinta limitava la sua esistenza al ruolo di sfondo per rappresentazioni teologiche.

La parola "paesaggio" nacque con la raffigurazione pittorica dello spazio contadino in un'immagine che incorniciò la Natura: quando lo sguardo degli artisti discese dal cielo alla terra, dal divino al mondo sensibile; soltanto allora in quello spazio dove si svolge la vita quotidiana dei comuni mortali acquisì il diritto di cittadinanza nell'universo dell'arte. In questo senso, il "paesaggio" divenne una sorta di metafora per il processo del vedere in sé. Come Alex Katz dichiara in un'intervista per lo "Standard" austriaco: "il vedere è culturalmente definito" e alla Radio svizzera SRF 2 aggiunge, "tu pensi che ciò che vedi con gli occhi sia reale, ma in realtà è culturalmente costruito."
Ciò significa che quando ammiriamo una campagna, realmente presente davanti ai nostri occhi, vediamo questo spettacolo attraverso gli occhiali di tutta la tradizione paesaggistica, partendo dal Trecento di Giotto, passando dal Rinascimento di Leonardo, dal Cinquecento dell'arte olandese, dai romantici Corot, Constable o Turner fino agli impressionisti e postimpressionisti Monet e Cezanne.

Nella seguente conversazione, Alex Katz rivela le sue tematiche, le sue tecniche, le sue convinzioni, le sue lotte e i suoi dubbi: divertendosi parecchio, apparentemente...

Barbara Fässler: Nice to meet you! In passato, ha fatto interviste a colleghi artisti, ad esempio a Francesco Clemente o Richard Prince. Lei come si rapporta con gli altri artisti?

Alex Katz: Clemente è un amico e penso che lui sia stato la miglior cosa che è venuta fuori in Italia dai tempi di De Chirico.
Richard Prince era esplosivo con le parole e veniva sempre nel mio studio a parlare dei suoi lavori, così mi ha fatto un po' di domande e ne è uscita una bellissima intervista.

B. F.: Questo mi stupisce perché immagino il lavoro di un pittore come una condizione molto solitaria.

A.K.: No, per niente, lo esegui da solo, ma in fondo è un'attività sociale.

B.F.: Nella mostra c'è un "Homage to Monet" e si tratta dell'unica citazione esplicita al lavoro di un altro artista, ma quando io vedo i suoi lavori, mi vengono continuamente in mente diverse fasi della storia dell'arte. Si può dire che la sua opera sia piena zeppa di allusioni sottili e implicite, nonostante la sua indubbia unicità e originalità?

A.K.: Viviamo in un mondo postmoderno e si può usare qualsiasi sorgente si voglia. Una grande parte nel mio lavoro viene da me. Uso me stesso come sorgente perché ho fatto delle cose quarant'anni fa che sono altrettanto interessanti di una qualsiasi altra cosa. Questa domanda spiana la strada a tutto il discorso sulla tradizione. Penso che i miei dipinti abbiano un aspetto nuovo ma allo stesso modo contengano elementi tradizionali.

B.F.: Da una parte lei ha sostenuto che non le importa di essere tradizionale, ma non è detto che dipingendo paesaggi o ritratti lei sia necessariamente tradizionale.

A.K.: No, infatti la mia idea è fare una pittura nuova.

B.F.: Potremmo dire che gli oggetti rappresentati siano un pretesto per parlare della pittura stessa?

A.K.: Sì, certo, ma - visto che la maggior parte della pittura figurativa tradizionale ha un aspetto vecchio - si tratta di fare una pittura nuova. Io sono stato fortemente influenzato dalla pittura astratta. In questo senso, chiamerei la mia attività "pittura post-astratta".

B.F.: In un video su Youtube lei dice che la grammatica della sua pittura è astratta. E adesso ci troviamo a "Haus Konstruktiv", che ovviamente non è un luogo neutro, e come sempre il luogo influisce sulla lettura del lavoro.

A.K.: Certo, torna perfettamente. Qui si può leggere la "grammatica dei quadri".

B.F.: Ho notato che i suoi lavori sono costruiti con un'architettura molto razionale e geometrica e la figura rappresentata è qualcosa che appare e scompare...

A.K.: Infatti, ciò che vedi è variabile, sai? Cambia continuamente. Io penso che i miei quadri sembrino più realistici di quelli di Rembrandt. I suoi dipinti non sono realistici. Sono forse pitture grandiose, ma non sono più realistiche delle mie.

B.F.: Che cosa significa realistico per lei?

A.K.: Realistico è quando la tua visione domina la cultura. La nostra cultura è dominata in primis dalle fotografie e io sono in rapporto con esse e cioè i miei dipinti sono più realistici di una fotografia. Voglio dire che hai la sensazione di vedere qualcosa di più nelle mie pitture che in una foto. Una foto rimane una foto mentre io penetro molto di più il presente immediato. Ecco che cosa fa la pittura, in realtà.

B.F.: Potremmo parlare delle inquadrature delle opere e delle loro misure. I paesaggi sono praticamente a dimensione naturale e allo spettatore sembra di entrarci, di diventare parte dell'opera, di essere all'interno della superfice pittorica.

A.K.: Giusto, esattamente questa è la mia intenzione. Dipingere un ambiente avvolgente, anziché un'immagine che sembra un buco nel muro.

B.F.: Oppure una finestra...

A.K.: Non è una finestra, la pittura ti avviluppa. E deve avere una certa grandezza per riuscirci. Io cerco di farle più piccole possibile, ma il formato è un fattore importante. L'idea di una figurazione in grande scala non ha nessun precedente. È come calpestare terra vergine e non potevo nemmeno sapere all'inizio, se questo progetto poteva funzionare o no. Una volta fatto e ripreso da altre persone, non ha più questo effetto originario di novità.

B.F.: Mi sembra che per capire lo sviluppo del suo lavoro siano molto illuminanti i piccoli collages degli anni '50, visibili nella mostra. Di colpo capisci perché i colori siano così piatti, perché le forme siano così nitide.

A.K.: Dicono che la scala sia già stata sperimentata con i collages e che i quadri grandi siano stati facili da realizzare, dopo.

B.F.: Ma come fa a ottenere questa leggerezza e tranquillità in formati così enormi?

A.K.: Ecco dove sta tutto il segreto. Questa è la cosa della quale sono più orgoglioso: la superficie. E i pittori che si "rodono il fegato" non saranno mai capaci di farlo (ride...). È cominciato tutto quando ho deciso di provare una tecnica umido su umido. Una tecnica che di solito si usa per piccoli e brutti dipinti (ride...).

B.F.: "Bad painting"...

A.K.: Esattamente, "Bad painting". Si crea un'enorme superficie fluida, l'umido su umido, come nel caso del quadro con i fiori gialli. L'intera tela è stata ricoperta con uno sfondo bianco e immediatamente dopo è stato aggiunto il colore che si è mescolato alla pittura bianca.

B.F.: Come l'affresco "fresco"?

A.K.: Come l'affresco, sì, bagnato su bagnato ed è una cosa complessa e difficile, perché il colore dello sfondo deve essere pronto per ricevere la pittura del secondo strato e questa deve essere applicata nel modo giusto, sono le minime modulazioni a fare la differenza, si ottengono tantissime sfumature. Così ho realizzato molti quadri in cinque o sei ore.

B.F.: Da solo o con l'aiuto di qualcuno?

A.K.: Da solo.

B.F.: Fa dello sport? Perché è fisicamente faticoso...

A.K.: No, non è così faticoso, ma comunque io faccio tantissimi allenamenti.

B.F.: L'ultima domanda è un po' personale. Come ci si sente, quando si riesce a lavorare per quasi sessant'anni alla propria opera?

A.K.: E' una cosa fantastica. Sono davvero molto fortunato a dipingere da così tanto tempo. Fare il pittore a tempo pieno è stata una scelta che ho pagato cara da giovane, ma ho deciso che volevo proprio provare. Non è una scelta concettuale: prima devi imparare a disegnare, poi devi imparare a dipingere. Ci ho messo tanto tempo a imparare le tecniche. Non penso di avere particolarmente talento ma ci ho sempre messo molta volontà ed ho sempre lavorato molto duramente, più duramente di altri pittori.
Ho lavorato tantissimo ed ho anche distrutto migliaia di quadri dopo miei vent'anni.

B.F.: Davvero?

A.K.: Sì, davvero (ride). Mille quadri... Dipingevo ogni giorno e alla fine del mese pensavo che il mondo non avesse davvero bisogno di tutti quei dipinti

B.F.: Perché?

A.K.: Volevo soltanto dipingere. Vivevo nel presente immediato e dipingevo un quadro dopo l'altro, per due anni, alla fine mi è sembrato che l'unica cosa interessante fosse quanto avevo imparato. Il dipinto in sé non era interessante. Vivevo in un posto senza riscaldamento e quindi li ho fatti a pezzi e li ho buttati nel camino.

B.F.:Quindi era più interessato al processo che al risultato.

A.K.: Mentre imparavo sì. Ciò nonostante qualche lavoro di quei tempi è sopravvissuto.

B.F.: Come ha scelto?

A.K.: Non lo so. Li buttavo via quando sembravano troppo laboriosi, oppure se mi parevano semplicemente noiosi. Chissà cosa pensavo... (ride). Francamente, me ne infischio.

B.F.: Veramente forte!

A.K.: Dopo un periodo di circa dieci anni avevo acquisito una tecnica molto personale e mi accorsi di avere diverse audience per i miei dipinti. L'uomo della strada a cui piacciono le immagini, il venditore che cerca qualcosa da vendere, il curatore di museo che pensa siano quadri validi per essere appesi nelle sale, lo scrittore che vuole soggetti interessanti di cui scrivere e l'artista che è interessato alla pittura attuale.
Esistono tanti pubblici diversi che vedono nei dipinti oggetti diversi. Non si possono mai controllare tutti in una volta sola.

B.F.: Era stressato da queste aspettative per certi versi contradditorie? Voleva fare una sorta di preselezione consapevole di ciò che immaginava sarebbe stato accettato da questi diversi tipi di pubblico?

A.K.: No, veramente me ne fregavo. I dipinti mi parevano okay mentre li producevo, ma tre anni dopo magari mi accorgevo che non erano poi tanto interessanti (ride).
Qualcuno l'ho tagliato per utilizzarlo come supporto negli angoli delle cornici e poi ho spesso traslocato in nuove zone... Io non venivo da un'Accademia dove s'impara tutto, ero costretto a fare esperimenti. Mentre producevo quei quadri, sapevo che non erano convenzionali. Secondo me, la seconda generazione dei pittori astratti che furono miei coetanei dipingevano quadri bellissimi, ma erano convenzionali. Come Joan Mitchell che è un'ottima pittrice, ma la sua produzione è più convenzionale di ciò che io feci con i miei collages. Però non c'era verso di sapere se i miei fossero abbastanza buoni. Sono molto sorpreso ora che hanno scelto proprio quei lavori, perché non li avrei mai immaginati appesi al muro di un museo.
Sento ancora la stessa insicurezza di quando li ho realizzati...

Intervista realizzata il 18 marzo 2013

Maggiori informazioni sulla mostra Landscapes fino al 12 maggio Museum Haus Konstruktiv di Zurigo

Questo articolo sarà pubblicato anche sul prossimo numero della rivista Studija in inglese e lettone

Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.