Attraversare le contingenze allargando le prospettive

09/01/2015
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Dell'arte e della politica

Prendersi lo spazio e il tempo. Dell’arte e della politica



Beato Angelico, Cristo deriso, convento di San Marco, Firenze, 1438-1445







Aldo Carpi, La morte sulle spalle, 1911







Rudolf Schlichter, Potere cieco, 1937







Claudio Parmiggiani, Faro d'Islanda, 2000


Di Maurizio Guerri

La questione posta da Ermanno Cristini e sviluppata in diversi interventi su UnDo.Net verte intorno al ritorno del Sessantotto nell’arte contemporanea: siamo in presenza di un ritorno nell’arte di tutto ciò che quel periodo ha rappresentato in termini di partecipazione, liberazione, immaginazione, trasformazione della società nel suo complesso?
Vorrei intervenire in questo dibattito facendo un passo indietro, ovvero cercando di ragionare sulla seguente questione: in che modo oggi l’arte si rapporta alla politica? Come è possibile che l’arte sia politica?
Non parlo di un’arte al servizio del potere politico, bensì di un arte che è in grado di incidere nella politica, o è in grado di orientare le decisioni dell’uomo in merito alla sua libertà.

Fin dalla nascita del pensiero occidentale, il rapporto tra arte e politica è contraddittorio oltre che conflittuale.
Vorrei ricordare un solo episodio all’origine della filosofia la cui eco continua a risuonare fino a noi: Platone nella Repubblica descrivendo le tre grandi classi in cui lo stato ideale sarebbe stato suddiviso, non trova una collocazione per poeti, i quali con ciò sono di fatto esclusi dallo spazio politico.
Tale esclusione appare come l’intuizione di una eccentricità dell’arte rispetto alla politica e di una irriducibilità dell’arte alla politica.
Di certo, dagli inizi del XX secolo, questo rapporto si è complicato ulteriormente e si è stratificato di una serie di elementi di notevole importanza, così importanti al punto che oggi il rapporto arte/politica è uno dei nodi essenziali del nostro tempo.
A testimonianza della centralità della questione, basterebbe osservare che gli stessi ideali del Sessantotto nel volgere di pochi decenni sono divenuti materiale propulsivo per quelle forze contro cui quegli ideali lottavano attivamente, anche attraverso l’espressione artistica.

Quasi contemporaneamente al Sessantotto, Jean Baudrillard iniziava a individuare un processo di simulazione – cioè un processo di neutralizzazione di tutte le polarità e di tutte le contraddizioni dialettiche che hanno costituito la struttura stessa della storia – come elemento costitutivo della nostra epoca. Tutti gli eventi sono ridotti a segni e con ciò diventano compatibili con tutti i contesti, in quanto non rinviano più ad alcunché di reale.
Ciò per Baudrillard dipende dalla riduzione di tutti gli eventi storici a un insieme di segni perfettamente riutilizzabile dal sistema del denaro e del lavoro nel suo complesso. La simulazione rende commutabile ciò che era contraddittorio, piega al consenso ciò che esprimeva contraddizione, leviga illimitatamente le forze della storia fino a trasformarle in un prodotto ornamentale compatibile con la società dello spettacolo.
Con l’annullamento di ogni riferimento referenziale, ogni forma di giudizio diviene infondata, fino a farla apparire insensata. In modo diverso rispetto al passato le immagini simulatorie, i simulacri si confondono in un universo iper-reale che non si sovrappone e non si oppone alla realtà, ma a essa si sostituisce, pezzo per pezzo. In questo universo iper-reale tutto può diventare compatibile con tutto, perché l’unico criterio di valore e di esistenza è nell’iper-realtà mediatica.
E questo – lo abbiamo visto e continuiamo a vederlo – vale anche per tutto l’immaginario e i simboli cui il Sessantotto è connesso. Se Baudrillard ha ben descritto un aspetto della nostra condizione, allora non si tratta più di contrapporsi a qualcosa, ma di far inceppare il sistema dell’iper-realtà o di escluderlo. O di escluderci.

Allora la domanda che non solo ogni artista, ma anche ogni singolo dovrebbe porsi è: come eludere questo processo di fagocitazione della storia nel processo di simulazione? In che modo l’arte può continuare a costituire un’irriducibile forza alternativa all’estetizzazione della politica (o del mercato)?
Alcune preziose indicazioni possono venire da Jacques Rancière per il quale l’opera d’arte è «una forma sensibile che risulta eterogenea rispetto alle forme consuete dell’esperienza sensibile in quanto si dà in un’esperienza specifica che sospende le connessioni ordinarie non solo tra apparenza e realtà, ma anche tra forma e materia, attività e passività, intelletto e sensibilità».
Ogni esperienza estetica è dunque in nuce politica, in quanto «partizione del sensibile» e attraverso ciò «germe di un’umanità nuova, di una nuova forma di vita individuale e collettiva». D’altro canto «politica» non significa per Rancière «amministrazione della cosa pubblica», bensì la «configurazione di uno spazio specifico, la ripartizione di una sfera particolare d’esperienza».

Per Rancière, l’esperienza estetica pone «a distanza» rispetto alle strutture sociali, alle classi, alle espressioni identitarie che caratterizzano il mondo della sensibilità quotidiana.
L’arte è politica – scrive Rancière – non tanto per i sentimenti e i messaggi che trasmette circa l’ordine del mondo» quanto piuttosto per il porsi a distanza dalle funzioni dominanti nell’ordine del mondo, «per il tipo di tempo e spazio che istituisce, per il modo in cui ritaglia questo tempo e popola questo spazio».
La sfera estetica è il terreno sul quale l’uomo si sottrae alle funzioni ordinarie e conquista un nuovo tempo. La questione del rapporto tra ambito estetico e tempo è essenziale per Rancière: infatti la politica accade «quando coloro che “non hanno” il tempo se lo prendono, per porsi come abitanti di uno spazio comune e per dimostrare la capacità della loro bocca di emettere una parola che enuncia ciò che è comune, e non solo una voce che segnala il dolore».

Subito dopo la fine della dell’immane tragedia che aveva lacerato l’Europa e il mondo intero, Ernst Jünger in una delle analisi più lucide e penetranti del nichilismo ha colto nella dimensione spazio-temporale dell’opera d’arte uno dei motivi di resistenza all’uniformazione del sistema del lavoro: nella condizione di «organizzazione» che domina ovunque anche nel campo del «sapere e della scienza», la libertà dimora «nel disordinato e nell’indifferenziato, in quei territori che sono sì organizzabili ma che non appartengono alla organizzazione».
In questo senso l’arte costituisce per Jünger un’«oasi», un ambito spazio-temporale non regolato da sistemi di sapere, ma in cui anzi la «denominazione», la «finzione» poetica, il dare forma sensibile riacquista un valore determinante e vitale e con esse acquisisce un senso la parola «libertà».
Scrive Jünger: «La libertà è profondamente connessa con la vita dell’arte, che giunge a fioritura là dove la libertà interiore è felicemente associata a quella esteriore. (…)
In ogni creazione artistica, quale che sia il campo in cui essa si manifesta, si cela oggi un potente supplemento di razionalità e di autocontrollo critico – proprio qui essa testimonia la propria identità, questo è il sigillo temporale da cui si riconosce la sua autenticità».


Questo testo è parte del dibattito "Voglia di '68?" avviato da Ermanno Cristini sulle pagine di UnDo.Net, a cui stanno contribuendo artisti e curatori...

L'Attitudine di Nanà
La prima puntata con Ermanno Cristini (18/11/2013)

Azione e reazione
L'artista Chiara Pergola ci parla di "esprit d'escalier" ma anche di Azione e reazione... (06/12/2013)

Etant donnés
La terza puntata con la conversazione tra Alessandro Castiglioni e Jacopo Rinaldi (17/01/2014)

1968 o 2068?
La quarta puntata con Francesca Mangion (15/02/2014)

Che cosa è andato storto?
La quinta puntata con Lorenzo Baldi (7/03/2014)

Generazioni vittime di un equivoco
La sesta puntata con Andrea Naciarriti (10/04/2014)

Turbare il passato
La settima puntata: Marcella Anglani parla di mostre che fanno molto pensare...(10/04/2014)

Qual'è, se è, l'arte del Sessantotto?
L'ottava puntata con Stefano Taccone (7/06/2014)

La Rivoluzione in eccesso
La nona puntata con Matteo Innocenti (23/07/2014)

Tra le righe
La decima puntata: una storia articolata di Lorena Giuranna (30/10/2014)


Maurizio Guerri svolge attività di ricerca all’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia e insegna Filosofia Contemporanea e Storia della Comunicazione Sociale presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ambiti di studio: la filosofia delle immagini, i rapporti tra arte e politica, l’estetica del Novecento con particolare riferimento alla tradizione morfologica. Tra le sue pubblicazioni: "Immagini di distruzione, distruzione delle immagini" (in corso di stampa); "Filosofia della fotografia" (con Francesco Parisi), Cortina, Milano 2013; "Necessità dell’arte, potenza dell’estetica", Mimesis, Milano-Udine 2012; "La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in E. Jünger", Mimesis, Milano-Udine, 2012; "Bellezza e libertà. Il destino della civiltà occidentale in Oswald Spengler", Mimesis, Milano 2008; "Ernst Jünger. Terrore e libertà", Agenzia X, Milano 2007.
Ha curato l’edizione italiana di diverse opere tra cui: Petter Moen, "Diario", Quodlibet (in corso di stampa); Ernst Jünger, Friedrich Georg Jünger, "Guerra e guerrieri. Discorso di Verdun", Mimesis, Milano-Udine 2012; M. Heidegger, F.G. Jünger, W. Heisenberg, M. Schröter, "Le arti nell’età della tecnica", Mimesis, Milano 2010; Ernst Jünger, Edmund Schultz, "Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo", Mimesis-MetisPresses, Milano-Ginevra 2008; Oswald Spengler, Eraclito, Mimesis, Milano 2002; Friedrich Nietzsche, "La teleologia a partire da Kant", Mimesis, Milano 2000.
Ha curato la mostra "La violenza è normale. L’occhio fotografico di Ernst Jünger" (Accademia di Brera, Milano 2007) e sta lavorando alla mostra "Aldo Carpi"