Annalisa Cattani
Paola Di Bello
Armin Linke
Stefano Pasquini
Adriana Torregrossa
Armin Linke
Emanuela De Cecco
Il titolo, Breaking News, sottende un doppio significato, vale a dire le notizie che spaccano i tg ordinari e, contemporaneamente, la volonta' di rompere le notizie, semplicemente provare a raccontare in prima persona una situazione di cui spesso si parla e si sente parlare secondo stereotipi.
Dal 3 al 6 dicembre 2002 in mostra nello studio di Armin Linke immagini, video e riflessioni degli artisti:
Annalisa Cattani
Paola Di Bello
Armin Linke
Stefano Pasquini
Adriana Torregrossa
con Emanuela De Cecco
Il titolo, Breaking News, sottende un doppio significato, vale a dire le
notizie che spaccano i tg ordinari e, contemporaneamente, la volontà di
rompere le notizie, semplicemente provare a raccontare in prima persona una
situazione di cui spesso si parla e si sente parlare secondo stereotipi.
Sguardi incrociati dove le cicatrici e la sofferenza del presente si
intrecciano con la costruzione di un immaginario e la propaganda. C'è una
distanza enorme tra chi ha in mano le fila del potere e tutti gli altri e
ciò non vale solo per il popolo iracheno.
In Iraq sono rimasta stordita dall'esibizione del dolore, dalla visita
guidata all'ospedale dove i bambini muoiuono di leucemia, dall'esibizione
del potere, dalle giovani partecipanti alla manifestazione per il compleanno
di Saddam vestite come i martiri di Hamas ma anche dall¹essermi ritrovata
senza remore a fotografare tutto questo. L'ansia di essere in una città che
fino a poco prima era un buco nero nella carta geografica, l'ansia che
presto qualcosa può arrivare dal cielo e distruggere tutto, l'ansia di
essermi trasformata in una pedina di un gioco fuoriscala.
Solo dopo qualche giorno ho iniziato a guardarmi intorno, a guardare le
persone, a comunicare. L¹intensità di un incontro tra gli artisti italiani e
gli studenti dell¹Istituto d¹arte di Baghdad è stata una lezione,
l¹intensità dell¹esecuzione di un pezzo di Vivaldi da parte di un
giovanissimo violinista come risposta e segno di ospitalità non ha bisogno
di ulteriori commenti.
L'arte è un'arma che non uccide nessuno e sa essere molto efficace.
Dopo aver guardato negli occhi queste persone, l'opposizione alla guerra non
è più espressione di una convinzione politica ma è diventato un fatto di
sopravvivenza personale. Ho molto più paura della cultura di morte nella
quale siamo immersi che della morte stessa.
Emanuela De Cecco
È urgente. È necessario
La necessità di rompere l¹embargo, anche e soprattutto culturale, con un
popolo che da 12 anni subisce il ''massacro'' dell¹Occidente, ha visto
protagonisti un gruppo di artisti, fotografi, critici, che hanno voluto
manifestare in prima persona il loro dissenso.
Il workshop a Baghdad organizzato dall¹ONG ''Un ponte per...'' in
collaborazione con l¹Unione fotografi Iracheni, tenutosi tra aprile e maggio
di quest¹anno, ha voluto dar voce ad un popolo che silenziosamente, combatte
quotidianamente tra il desiderio di poter condurre una vita ''normale'' e la
necessità di sopravvivere.
Oggi, che ci troviamo in piena ''tempesta'' internazionale, vogliamo dire NO
all¹ennesima guerra insensata, imposta unilateralmente dal sistema economico
occidentale. Una guerra che in Iraq esiste da oltre 12 anni, con un embargo
che colpisce, non il sistema politico, ma bensì la popolazione più debole,
ridotta ormai alla sopravvivenza. Doppiamente colpita da una dittatura
interna, e dalla ferocia di un embargo internazionale.
Attraverso l¹arte e il nostro lavoro, ci è ancora possibile manifestare con
qualsiasi mezzo a nostra disposizione, il disprezzo verso un sistema che
aggredisce i più deboli e rafforza un potere perverso.
È urgente, è necessario, impedire ogni altra evitabile follia.
Adriana Torregrossa
La prima volta che Adriana mi ha chiesto di andare in Iraq, credo di averla
mandata ³a.....², poi però mi è partito il tarlo e ogni giorno mi chiedevo
se era il caso o no e per quale motivo l¹avrei fatto; se era un viaggio alla
Byron dei poveri o veramente qualcosa di sentito.
Una volta arrivata a destinazione, cosa di per sé già non facile (aereo più
dodici ore di taxi nel deserto, dogana tipo 007) l¹Iraq mi si presentava
ogni giorno il contrario di quello che mi aspettavo e ogni idea che cercavo
di farmene s¹infrangeva tra gli eventi, in una sorta di atmosfera kafkiana
mediorientale. Ciò che però è sicuramente chiaro è il senso di impotenza
della dittatura, la dignità e il senso dell¹umorismo.
Un giorno parlavo della difficoltà di reperire il cotone con una donna che
ha un negozio di tessuti e lei dopo poco è arrivata con una camicia
importata dall¹India e me l¹ha regalata. La voglia di contatto è enorme, uno
studente dell¹Accademia mi ha cercato per giorni per potermi regalare una
sua sceneggiatura affinché la potessi realizzare io se lui non trovava i
materiali. Attraverso questi episodi posso raccontare la mia Baghdad, quella
che ti fa sentire un giorno una rock star e un altro un carnefice, quella
che ti fa riflettere sull¹embargo che anche in Italia esiste e soprattutto
che mette alla prova e non ti permette di confondere il sentimento con il
sentimentalismo..
Annalisa Cattani
Prima di partire per l¹Iraq pensavo:
Alla Mesopotamia, alla mezza luna fertile, al Tigri e all¹Eufrate, alla
culla della civiltà e alla nascita dell¹agricoltura;
Agli Assiri e ai Babilonesi;
All¹Islam, alla cultura visiva geometrica e all¹iconoclastia;
Alla guerra del Golfo, a Apocalisse nel deserto di Herzog e ai pozzi di
petrolio;
Alla paura che l¹America potesse scatenare un¹altra guerra.
Quando sono tornata dall¹Iraq ho pensato:
Alle lunghe ore di attesa, ai mille diwan (divani) e poltrone su cui
sedevamo, al Divano occidentale-orientale di Goethe;
Alle foto ''rubate'' dai taxi, ai monumenti grandiosi e ai mille ritratti del
Presidente;
Al cielo sopra Baghdad;
Ai luna-park, ai suq, alle facce degli studenti, alle persone conosciute, a
Adel;
Al kebab, alla crema di datteri, alla ''bibsi'';
Ai bimbi che nascono deformi a causa della contaminazione da uranio
impoverito usato dagli americani nella Guerra del Golfo;
Che, nonostante tutto, diversi iracheni parlano e scrivono l¹inglese mentre
noi occidentali ignoriamo pressoché totalmente l¹arabo;
Che ogni nostra richiesta suonava fuori luogo e che spesso la loro risposta
era no (perché c¹è un regime? perché c¹è l¹embargo? perché noi siamo
occidentali? perché i nostri modi non erano comprensibili per la mentalitÃ
araba? perché, tra gli arabi, gli iracheni sono i più orgogliosi - perché
sanno di essere lì da 13 mila anni - e ''non è che tu adesso arrivi, chiedi e
tutto ti sarà dato''? perché spesso chi tra di noi ''chiedeva'' era donna e i
nostri interlocutori erano spesso uomini?).
Adesso penso all¹Iraq come ad un prigioniero sotto tortura che ha quattro
possibilità :
Se sa e parla, viene ucciso,
Se sa e non parla, viene ucciso,
Se non sa e non parla, viene ucciso,
Se non sa e si inventa qualcosa pur di parlare per accontentare il nemico e
far cessare le torture, viene ucciso.
L¹amico Adel mi ha scritto: "Paola, don't worry about us, we don't afraid
the war, we used to! Only death is the salvation of our miserable life."
Paola Di Bello
Quando mi è stato chiesto da ''Un Ponte Per...'' di partecipare ad una
spedizione culturale in Iraq mi sono sentito privilegiato di poter visitare
un paese il cui accesso è pressoché negato ai turisti e la mia curiosità è
stata tale che, benché tutti mi sconsigliassero il viaggio, non ci ho dovuto
pensare su tanto. Le mie aspettative erano veramente minime, e la curiositÃ
tanta: avrei visto un paese devastato da una guerra e da un embargo? Una
popolazione desolata e senza speranza? Un paese costretto alla fame
dall¹Occidente?
Gli iracheni che abbiamo incontrato (sia ufficialmente che per caso, per la
strada) sono stati semplicemente splendidi, di una gentilezza e generositÃ
rara, genuinamente desiderosi di sapere tutto su di noi e sulla nostra
cultura, e altrettanto vivaci nel raccontarci la loro storia e le loro
preoccupazioni.
Malgrado l¹embargo, sono stato colpito dalla ricchezza di una parte della
popolazione, tranquillamente impegnata a sbrigare le loro faccende
quotidiane a bordo di Mercedes nuove fiammanti, a passare serate in
ristoranti costosi anche per le tasche occidentali, a chiudere contratti
milionari sottobanco con società occidentali. Passeggiando per Baghdad
diventa ovvio che l¹embargo colpisce solo una parte della popolazione, e che
può essere una buona giustificazione a molte cose.
Pur non essendo un fotoreporter, mi sono sentito in dovere di documentare
tutto il più dettagliatamente possibile, e per quel che riguarda la mia
ricerca artistica, il risultato finale è stata una serie di video che ho
chiamato Iraqi Diaries, un diario visivo e musicale del mio soggiorno a
Baghdad, una sospensione di giudizio rispetto a un paese che tuttora non mi
sento di conoscere ma che comunque pullula di persone normali intente a fare
il possibile per avere una vita normale, come me e te.
Un paese che con immensa dignità sta, malgrado la difficile situazione
politica, tentando di riconquistare la sua normalità , e che l¹ultima cosa di
cui ha bisogno è di essere nuovamente piegato da una guerra in cui, di
nuovo, quelli che pagheranno il prezzo più alto saranno i deboli.
Stefano Pasquini
Io ho dei seri dubbi sui testi-diario.
Mi sembrano troppo personalistici.
Vorrei invitare dei giornalisti a raccogliere un archivio di
controinformazione da mettere a disposizione durate la mostra.
Forse invece dei nostri testi fare una raccolta di siti di
controinformazione.
Armin Linke
Rispetto al personalismo non condivido i dubbi ma non sono neanche rigida a
proposito. Sono più propensa a parlare di posizioni personali, il che è
proprio il punto sul quale credo che abbia senso ascoltare (vedere) i lavori
vostri, degli artisti.
Per come le cose stanno andando non credo che riusciremo ad avere notizie
più da dentro circa l'operato degli Ispettori, gli accordi tra l'ONU e il
governo degli Stati Uniti, la sincerità di Saddam nell'accogliere gli
Ispettori etc di quanto non si capisca per esempio dai bollettini di Un
ponte per, dagli articoli usciti su Le Monde Diplomatique o dagli articoli
della stampa estera tradotti pubblicati su L'internazionale.
Ma in ogni caso mi sento di dire che credo che l'obbiettivo di quello che
stiamo cercando di fare è sensibilizzare altri sguardi a dire no comunque a
risoluzioni che comunque prevedono altre morti, altre distruzioni, comunque
stiano le cose (che non ci è dato comunque sapere).
Il che non ha davvero la presunzione di fare a meno dell'informazione (o
della contro informazione anche più attenta e più critica) ma vuole dire
assumere rispetto a tutto questo una posizione laterale rispetto
all'atteggiamento di chi di mestiere va a caccia di notizie. Questa
posizione non è certo nuova ma è una disputa che ha numerosi precedenti
storici nelle relazioni tra artisti e reporter, mi viene in mente Herzog e
la guerra del golfo (di sicuro la madre con il figlio che si rifiuta di
parlare dopo aver subito violenze dai soldati dice di più di tutti i servizi
con i fuochi d'artificio, le foto di Sophie Ristelhueber sulle cicatrici del
paesaggio - Beirut ma anche il Kuwait, per non parlare del lavoro di Jeff
Wall sulle truppe dell'Armata Rossa durante la guerra in afghanistan che di
informazione non ha niente, cosi come il video Misure di Distanza di Mona
hatoum dove scorrono le immagini della madre che si fa la doccia e
ascoltiamo la voce della figlia che legge uno scambio di lettere tra le due
dove si parla della guerra del Libano ma anche dell'abbandono forzato da
parte della Palestina da parte di tutta la famiglia, le mappe dei territori
occupati di Boetti, saranno pure modelli alti ma se devo guardare in una
direzione rispetto alla situazione attuale mi piace fare i conti i grandi
artisti).... Io credo che questa sia semplicemente un'opportunità per
sottolineare che forse oggi proprio da questa chiamiamola "marginalità "
possa nascere un modo di comunicare capace di avere un impatto che i media
fanno fatica ad avere (in questi mesi ho registrato tre trasmissioni tv
sull'Iraq, tutte serie, interessanti ma così simili tra di loro)...
Forse è banale ma lo spostamento sull'attenzione che possono provocare le
tue immagini, le immagini di Paola e i video di Stefano e Annalisa credo che
sia efficace proprio nel NON volere essere strettamente informazione, senza
pretesa di oggettività o di svelare chissà che cosa, ma forse possono dire
qualcosa e dire molto della vita quotidiana, degli sguardi delle persone.
Da qui nasce la mia posizione che ripeto, senza nessuna chiusura, mi sento
di difendere.
Detto tutto questo che forse è scontato e che credo condividi (altrimenti
immagino che saresti tu per primo un reporter) il tono così diretto del
comunicato stampa calca la mano in questa direzione, volutamente, non si
tratta di qualcosa che è scappato di mano.
C'è un rischio sì ma non è una forma ingenua o naif, ma è il rischio di chi
prova a mettere in circolo una comunicazione che intenzionalmente prende le
distanze dai pacchi di comunicati stampa che si leggono tutti i giorni. Io
non leggo una forma di autocompiacimento ma paure condivisibili, incertezze,
perplessità , osservazioni molto dirette e con pochi filtri che nella loro
piccolezza danno un'idea di un clima che poi si riflette in quelle posizioni
personali che vengono fuori dai lavori.
Emanuela De Cecco
Immagine: Armin Linke, Afghan refugees, Swat Valley
Studio di Armin Linke:
via Curio Dentato, 1 Milano - tel 02 472 703
Orari: 3 dicembre 18-21 4, 5 e 6 dicembre 17-20.30
Mezzi pubblici:
tram 14 fermata via Giambellino-Largo A. Balestra,
bus 50, 61, fermata via Lorenteggio- piazza Frattini,
bus 98 fermata via Giambellino angolo via Bellini