Perugi artecontemporanea
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Alvise Bittente
dal 13/12/2002 al 10/2/2002
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Perugi artecontemporanea




 
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13/12/2002

Alvise Bittente

Perugi artecontemporanea, Padova

Pie' d'a terre e' il gioco di parole scelto da Alvise Bittente come titolo della sua prima personale. Una mostra di disegni dove, pero', non troverete paesaggi lirici o leziosi ritratti di figure umane intrise di turgori naturalistici, riferimenti questi, verso i quali Bittente non mostra alcun interesse. E neppure rimandi all'illustrazione o al fumetto pop, di cui Bittente certamente si e' nutrito (come del resto tutta la sua generazione); ma i cartoon, la musica, il cinema hanno agito alla radice del suo fare e pensare senza indurlo ad assumerli letteralmente o come tematiche.


comunicato stampa

pié d'a terre

a cura di Marco Altavilla

Pié d'a terre è il gioco di parole scelto da Alvise Bittente come titolo della sua prima personale. Una mostra di disegni dove, però, non troverete paesaggi lirici o leziosi ritratti di figure umane intrise di turgori naturalistici, riferimenti questi, verso i quali Bittente non mostra alcun interesse. E neppure rimandi all'illustrazione o al fumetto pop, di cui Bittente certamente si è nutrito (come del resto tutta la sua generazione); ma i cartoon, la musica, il cinema hanno agito alla radice del suo fare e pensare senza indurlo ad assumerli letteralmente o come tematiche. Diciamo pure, che il mondo artificiale e massmediale ha fatto piazza pulita dei rimasugli umanistici e della rappresentazione mimetica del mondo, consentendo a Bittente di disegnare a mano libera immagini, che invece, sembrano processate ad un plotter digitale, scannerizzate e schiacciate in una bidimesionalità formale e concettuale.
Disegno e manualità assumono un valore autonomo e sono ostinatamente privilegiate da Bittente come possibilità di afferrare le "cose" da cui distillarne esclusivamente delle forme: semplicemente la loro superficie.
Nessuna profondità psicologica o accenni emotivi, solo oggetti inanimati posti in primo piano, testimonianza della loro banale esistenza e della possibilità di poter essere utilizzati come ironiche e agili chiavi di lettura in grado di veicolare una personale e disincantata visione del mondo. Bittente ritrae, allora, gli oggetti direttamente nel loro luogo d'appartenenza senza adottare alcun artificio, spostamento o costruzione di set ma, assumendo inusuali punti di vista, li osserva, ne individua alcune tipologie per poi farli proliferare in gran numero immortalandoli con una penna su fogli di carta e collocarli, poi, in una dimensione installativa. In occasione della mostra la galleria si trasforma completamente colorandosi di celeste. Le pareti e il soffitto, come il "cielo in una stanza", danno vita ad un ambiente etereo e volutamente kitsch. All'altezza del battiscopa una serie di scarpe disegnate su fogli A4, meticolosamente resinati, si articolano in dittici e trittici perfettamente distanziati e pongono al nostro sguardo lo svolgersi di una possibile fenomenologia della calzatura. Sotto il nostro sguardo sfilano i mocassini, i sandali e le ciabatte, le classiche Clarks deformate dall'usura, quelle bianche da tennis: sono semplicemente scarpe ordinarie o sofisticate, che come in posa sembrano esauste di essere portate ai piedi. Alcune sono nere su foglio bianco avvolte da un bel giallo fluo netto e accecante che evidenzia le parti prive d'importanza e abbassa di tono il tutto per evitare toni triti e lirici. Altre poi, bianche su foglio nero, da ballerina si mettono in posa in vetrina: vorrebbero spiccare il volo, queste, ma inevitabilmente sono destinate a subire la forza di gravità ed in alcuni casi ad inciampare. Alvise Bittente, in questo caso, parte dalla calzatura per svilupparne un senso altro e traslarlo concettualmente rispetto alla manualità adottata attraverso titoli e sottotitoli composti di sottili giochi di parole ironicamente latineggianti e maccheronici: mai video coeli laddove video tantum pavimentum. Il mondo è visto dal basso e gli occhi sono quelli delle scarpe che calpestano quotidianamente il suolo brutto e sporco normalmente ignorato dalla nostra testa persa, com'è, nei suoi soliti pensieri.
Marco Altavilla

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Marco Altavilla: Come mai negli ultimi anni ti sei dedicato completamente al disegno? Ricordo che in passato hai fatto delle performances, installazioni e video...

Alvise Bittente: In realtà non lavoro s'una trovata, ma sulla pratica del poco fare per perderla (quella escogitata), lontano dal progetto e prevalentemente a favore dell'economia...d'impegno.
Le azioni performative sono belle e sepolte, senz'altro intollerabili e di sicuro demodé. Forse più delle giacche anni ottanta di "maicol gecson". Intrise di ricordi d'un tempo che fu. Imbarazza qualsiasi azione dal vivo tanto più, se contemporaneamente all'agognata vernice con ricreazione di ristoro, si viene distratti dallo strepito autoriale. Le installazioni sono già implicite -oltre al decoro interpersonale- alla necessità d'adattare i "pezzi al puzzle", ossia l'inserimento dei disegnini nello spazio dell'esibizione. Ogni esposizione è un'installazione.
Invece il video, pennello elettronico di noia destinato al ralenty anche fuori moviola, non eguaglia mai né il realismo poetico e patetico di Ciprì e Maresco né l'etica semplice e ridicola di Rezza, sensibili coordinatori dell'immagine tele...visionata. Di contro al patinato televideoclip, vera terapia omeopatica per insonni e nel miglior dei casi colonna sonora radiofonica per lavapiatti.
Il disegno -distrattamente- rimane ancora, proprio per le sue radici, il metodo più semplice e diretto per giocare l'immagine, senza tanto spreco di fatica organizzativa. Avvalendosi di minimi mezzi e modesto spreco di materiali e pratica di mano...valanza. Non me la sento di escludere -credo- comunque nessun tipo di scivolata in qualsiasi pista in futuro. Quel futuro che già è nel cestino più che in canestro.

M.A.: Disegnare è una delle prime azioni di presa sul mondo dell'uomo. Che tipo di relazione avverti tra te e gli oggetti che ti circondano?

A.B.:Il disegno preso alle sue radici è il metodo più immediato, senza rifiniture, per passare dall'idea alla realizzazione e stravolgere tutto perché ci si fa prendere la mano. Che va per conto suo. Come nel racconto di Nerval, il corpo dello spadaccino muore, ma la sua mano continua a volteggiare come se fosse dominata da uno spirito tutto suo. Non c'è nessuna relazione con gli oggetti, ci trova di fronte e ci s'ignora. La mano se ne frega e segue le linee di quello che solo sembra quello che si vede e in tanto ci si perde.

M.A.: I tuoi disegni erano semplicemente fatti su carta. Poi hai iniziato una ricerca sul supporto. Che tipo di limiti e difficoltà ti hanno portato a questo?

A.B.: Il foglietto rimane comunque perfetto perché esiste nella speranza che un filo di corrente se lo porti via. Ma il supporto -ben confezionato- è funzionale oltre al mantenimento e custodia del documento, a pacco regalo da presentar con biglietto d'auguri. Inoltre la resinatura lucida opaca trasforma il tutto in piastrelle, decoro azzeccato di qualsiasi locale da toilette dove incipriarsi il naso prima di baciare la mano.

M.A.: E la scelta di inserire il colore? Perché poi il giallo fluo?

A.B.: Il colore di solito è un inserimento funzionale all'oggetto disegnato. Il giallo fluo inacidisce corrodendo qualsiasi solletico di poeticità lirica del disegno nella sua accezione più tradizionalmente conservatrice. Sostituisce il foglio al caffè delle sanguigne miste biacca cinque sei settecentesche. Inoltre l'uso del fluo, per sana contraddizione, oltre alla funzione di evidenziare le parti di poca importanza, è maledettamente destinato all'incapacità cronica di qualunque riproduzione (fotocopia laser, plotter, scansione). Sottolinea con un ghigno di riso in bocca e un versaccio, la beffa della sua irriproducibilità impubblicabile.

M.A.: I tuoi disegni sono sempre accompagnati da un titolo che gioca con le parole generando così curiosi doppi sensi. In che misura t'interessa il testo letterario?

A.B.: Dal momento che nell'installazione dell'opera è compreso anche il titolo, è inevitabile la scardinatura di anche quel tipo di linguaggio, per fare il verso anche al verso. Per far esplodere le pratiche realizzate è necessario minare anche il testo, divenentando parte dell'operazione. Polvere da detonatore di quella bomba carta con materiale al plastico, che fa puff....o bleff.
Deconcentra, inoltre, l'eccessiva attenzione relegata inconsciamente alla superficialità dell'immagine disegnata al tratto. Il testo divérte ma non nel senso di sorriderci su, ma indirizza la fruizione verso altre strade, fuori del seminato.

M.A.:In genere scegli un oggetto e lo ritrai rintracciandone diverse tipologie. Sviluppi cosi una serie di disegni che poi adatti di volta in volta agli spazi espositivi. In "Pié d'a terre", invece, è stato lo spazio della galleria a suggerire il tema del progetto?

A.B.: Che sia lo spazio a fare i disegnini, o essi ad esser inseriti e incastonati il risultato non cambia. Perché ogni cosa scende, si eleva, tradisce, e viene tradita dal compromesso, incappando sempre nella trasformazione di quel mostro da mostrare recintato per metterlo in mostra. Di tanto in...tanto perché si deve.

M.A.: E l'idea del progetto?

L'idea me la scrivono in un post it i miei genitori prima di dormire e al mattino bello fresco la imparo a memoria e la ripeto. Mi espongo nudo o rivestito di decoro per mostrare e mettere in mostra la noia universale del mostrarla. Sputtanando l'esibizionismo dell'esporla. Il progetto della personale è un casuale calcio nel culo che le scarpe fatte coi piedi infliggono alla testa, considerata da sempre troppo "glande". Chini a testa bassa ci si accorge che l'operazione artistica o artritica che sia, non è un cielo sereno da meditare a naso all'insù ma un'attenzione umile, a testa bassa (penitenti) per evitare di scivolare calpestando un'eventuale fece di cane, peggio ancora se di cani umanoidi. Capo di piede, che mette i piedi in testa al capo. Una pedata delle memorie dal "sottosuola" alle pozzanghere d'acquitrino che troppe volte sì vedono le nuvole in cielo che riflettono e non quel fango di terra umida che sono.

M.A:...macchine, ingranaggi, e poi cassonetti della spazzatura, water, muletti, letti etc. Come mai invece in questo caso hai scelto la scarpa?

A.B.: Perché mi è scarpata di mano!

M.A.: La scelta di adottare per la prima volta il cartoncino nero?

A.B: Le altre scarpe sono tutte nero su bianco, concrete come una cambiale, ostinatamente coi piedi per terra. Le scarpe da ballerina tratte con penna bianca su nero sono al contrario: l'esser per aria. Tentano il balzo, librandosi nell'aria e il più delle volte proseguono avanzando con rovinose cadute. Poi bianco su nero rende le pratiche impiegatizie più ufficiose, distinte et ordinate. Quindi più credibili...

M.A.: Sei stato influenzato più da Jeff Koons o Joseph Beyus?

A.B.: Non mi è mai interessato più di tanto Jeff Koons, l'amministratore popolare del condominio che sottopone i condomini a regole da Fabbrica, nel rispetto del senso comune e quieto vivere 'senza sporcarsi le mani e con la scusa di non pulire il vialetto'. Eletto da tutti come stallone fottitore nel suo prender casa con Ilona Staller in arte Cicciolina. Vero capolavoro di Koons sarebbe stato, dopo la rottura matrimoniale inevitabile, farle da segretario di partito, magari dell'amore. E il proprio di partito preso, non ho mai sentito vicinanza con Joseph Beyus, troppo impanato nelle cotolette delle ideologie, del progresso, incantato dal cambiamento, e sostenuto dall'impegno. Ciclista della fatica senza "cambio sciamano", diverso dalla mia situazione paralitica.
Ho sentito una maggiore freschezza vedendo in televisione certe punizioni di Platinì imprendibili, invisibili, ma di un rigore balistico. Senza una piega. Poi, ho sempre esultato per quei momenti patetico, epico, ridicoli che si ritrovano qua e la negli spettacoli horror macabri di quell'Elvis degli anni '70. Imbolsito e con la voce impastata dai farmaci assunti. Sublime.

M.A.: Durante le mostre, si sa, accade di tutto. Raccontami un episodio che ti ha particolarmente colpito.

A.B.: Ho sempre lavorato dentro: allestimenti miei, disallestimenti di altri, ho assistito agli allestimenti d'arte, d'architettura, del cinema, di feste vip, dei salami e dei prosciutti. Non va mai tutto bene, mai, per fortuna come si spera. Trovo che gli imprevisti facciano tutto sommato molto comodo, servono e fanno gioco. S'aguzza l'ingegno e si scoprono gli imbecilli. Ed è incredibile: sono sempre le stesse medesime situazioni, non cambiano i personaggi, tanti seguono il loro copione e altri scopiazzano quello di altri. Tutto uguale, diverso è solo il libretto di lavoro per l'assunzione.
La cosa che quasi mi colpì è un pannello di cartongesso fissato alla buona da un architetto che di poco mi sfiorò.

M.A.: Ti è mai capitato di voler mandare tutto a quel paese?

A.B.: Ogni cosa che faccio è un continuo mandare a quel paese quello che faccio.

M.A.: Il tuo più grande fallimento?

A.B.: Il fallimento è vittima delle aspettative. Se non si presuppone aspettativa dettata dall'ambizione, non esiste il fallimento (nel senso tradizionale del termine). Il fallimento -comunque- riguarda i briganti e tutti coloro che devono riuscire.

Opening sabato 14 dicembre 2002 dalle ore 18.30 in poi

lunedì- sabato 17.30 - 20.30
mattina e festivi su appuntamento

catalogo disponibile in galleria

Immagine: "S.T." 21 x 29 cm., disegno a penna G.pilot high tech ed evidenziatore su carta e su legno resinato, 2002

Perugi artecontemporanea
via Altinate, 66
35121 Padova Italia
tel. & fax 0039 049.663.996

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