Galleria San Fedele
Milano
piazza San Fedele, 4 (Auditorium via Hoepli, 3a)
02 86352233 FAX 02 86352236
WEB
Nero Avorio
dal 15/2/2005 al 9/4/2005
02 86352233 FAX 02 86352236
WEB
Segnalato da

San Fedele Arte




 
calendario eventi  :: 




15/2/2005

Nero Avorio

Galleria San Fedele, Milano

La mostra comprende sette tele dell'artista americana Max Cole e un crocifisso in avorio, attribuito verso la fine dell'800 a Pierre Puget. Un viaggio dall'iconico all'aniconico, dal passato al presente, dalla figurazione all'astrazione, dalla pittura alla scultura. E viceversa. A cura di Manlio Brusatin e Andrea Dall'Asta S.I


comunicato stampa

Max Cole/Anonimo XVII secolo

mostra a cura di Manlio Brusatin e Andrea Dall'Asta S.I.

La mostra comprende sette tele dell'artista contemporanea americana Max Cole e un crocifisso in avorio, attribuito verso la fine dell'800 a Pierre Puget. Oggi alcuni studiosi (tra i quali Susanna Zanuso) pensano si tratti di un lavoro ottocentesco. Tuttavia, se l'attribuzione al Puget non risulta attendibile, la discussione sull'epoca di esecuzione resta ancora aperta.

Ormai da molto tempo l'arte 'sacra' appare come incapace di comunicare con un mondo sempre più attraversato da una forte inquietudine generata dalla crisi delle ideologie, da un relativismo che mette in discussione i valori fondamentali, da un indebolimento del senso della storia. 'Tempo di povertà', che è 'notte del mondo', direbbe Heidegger. Tempo di 'crisi del senso'.
La Chiesa, dopo secoli di una intensa ricerca linguistica ed espressiva motivata dal desiderio di comunicare attraverso le immagini i simboli della propria fede, fatica a fare una seria riflessione sul modo con cui è chiamata a dare risposte alle urgenze del proprio tempo. Si parla spesso della sua incapacità a inculturarsi nel mondo contemporaneo; della sua nostalgia verso un passato glorioso ma ormai sepolto per sempre; del fascino esercitato da seducenti manifestazioni 'commerciali' del 'sacro' che non esitano a proporre 'opere' sul modello degli oggetti industriali... Immagini legate a uno sterile e vacuo pietismo religioso.
Mostre come quelle recentemente presentate a Santa Maria degli Angeli a Roma confermano purtroppo questa tendenza. Il limite di quest'arte cosiddetta 'religiosa' consiste nella ripresa tanto semplificata e superficiale, quanto artificiosamente naïve della grande tradizione figurativa come veicolo di messaggi spirituali. Questa arte appare caratterizzata da una ingenuità ricercata, costruita, da un falso desiderio di verità che nasconde in realtà solo un vuoto, un'assenza di contenuti, un'incapacità di cogliere le preoccupazioni reali del nostro tempo. Si tratta di un'arte che è puro gioco formale, arte del nulla.
Come purtroppo si fa spesso, non si tratta tanto di 'aggiornare un linguaggio', di riprendere le antiche iconografie per poi 'modernizzarle', quasi fosse possibile interpretare un testo da una lingua all'altra, traducendolo parola per parola, senza tuttavia capire ciò di cui si sta realmente parlando, senza comprendere quella dimensione di senso che il testo è invece chiamato a incarnare. Occorre ripensare il rapporto tra arte e fede a partire da criteri che tengano conto di una serie riflessione antropologica e teologica. L'arte deve farsi interprete di una ricerca esistenziale.

Con questo spirito di ricerca, la Galleria San Fedele presenta una nuova mostra che unisce una serie di tele dell'artista contemporanea Max Cole con uno splendido crocifisso antico in avorio. Apparentemente nulla di più distante. Tecnica, tempi di esecuzione, soggetti, modalità espressive: tutto sembra fare pensare all'impossibilità di trovare una logica che giustifichi l'accostamento di opere che si mostrano così diverse tra loro. In realtà, la mostra è come un viaggio dall'iconico all'aniconico, dal passato al presente, dalla figurazione all'astrazione, dalla pittura alla scultura. E viceversa. Viaggio teologico che richiede sosta, riflessione, silenzio.
Da una serie di tele che procedono da toni scuri a toni sempre più chiari, attraverso il passaggio graduale dal nero al bianco, il cammino si conclude con il corpo di Cristo sulla Croce. Il percorso è dunque concepito simbolicamente come esodo dalle tenebre della morte alla luce della vita: passaggio che si condensa e si concentra nel corpo stesso del Dio crocifisso. Al momento della morte di Cristo, riportano i Vangeli, il sole si oscura. Tutto regredisce al caos originario. Il Cristo sta per consegnare il suo spirito. La sue labbra sono dischiuse. Ascoltiamo il suo grido di abbandono al Padre. Tutto è compiuto. Consummatum est. Si tratta dell'avvenimento dell'unità della vita e della morte perché la vita possa trionfare. Non c'è fecondità, apertura alla vita, senza attraversare la morte. E vita e morte appaiono intimamente unite, come la scultura in avorio esemplifica. Il corpo del Figlio di Dio è infatti come sottoposto a una torsione che già allude all'ascesa verso il cielo, alla resurrezione. Anche il colore stesso dell'avorio, il bianco, sembra alludere a questa luce di rinascita, di gloria. La morte sta per cedere il posto a un'esplosione di vita.
Questo termine del percorso ci obbliga tuttavia a ricominciare un altro cammino. E ce ne rendiamo conto se pensiamo a come le tele aniconiche della Cole sono realizzate. L'artista americana dipinge le sue tele attraverso un ordito di piccolissime aste orizzontali e verticali che disegnano una trama di linee infinite, come simulando il tracciato di una tela. Tutte le immagini sacre della tradizione cristiana si fondano sul gesto originario dell'impronta di Cristo su di una tela, destinata a presentare alla comunità dei fedeli l'eicon, la vera immagine. La traccia visibile di un Dio fattosi uomo. Si tratta dell'impronta di un corpo su di un lenzuolo, di un volto che lascia la sua impressione su di un velo, come tramanda la tradizione della Veronica non riportata dai Vangeli. Ma per accogliere la vera immagine, occorre sopprimere ogni immagine. L'azzeramento di ogni forma è la condizione per accogliere la vera forma. E le immagini senza immagini della Cole ci accompagnano verso questa rivelazione, verso questa apparizione di luce. Le tele si fanno come epifanie, veli di meditazione, diaframmi di contemplazione. Sacri lenzuoli pronti ad accogliere la traccia materiale del divino, per poterne custodire e trasmettere la memoria. Come se fossero in attesa di accogliere una realtà che va protetta, salvaguardata.
Abbiamo parlato di viaggio teologico. Infinite sono le linee che l'artista americana traccia sulla tela. Un gesto apparentemente senza giustificazione che sembra non conoscere termine, sosta. Come un gesto che si ripete indefinitamente, ma come per attendere l'irruzione di un evento che dia pienezza di senso ai gesti compiuti. Il dipingere si fa gesto di una ripetizione contemplativa, quasi fosse la recitazione della stessa preghiera. Come se fosse la preparazione alla verità di un incontro. Alla verità del proprio essere uomini di fronte a Dio.
Andrea Dall'Asta S. I.

Nero Avorio
Il nero della pittura non è il nero, non lo è mai stato.
Nella tecnica pittorica i neri, come ogni altro colore, si espandono nella loro immagine originaria calda o fredda.
Il nero d'ossa che proviene alla combustione di ossa di animali o di nòccioli di frutta mantiene la sua qualità rossastra. Il nero di vite che viene dalla frantumazione di tralci di vite ridotti a carboncino, una qualità grigio azzurrognola. Ancora bluastro è il nerofumo o nero di lampada cioè quella polvere appiccicosa che si formava sopra una lamina d'argento posta sopra lo stoppino acceso di una lucerna a olio.
Il nero più prezioso è il nero avorio che sembra una contraddizione, in realtà i frammenti d'avorio una volta bruciati producono una cenere che è il nero più prezioso in pittura. Mentre il nero di stampa, la materia prima dell'arte della stampa di Gutenberg, assieme alle virtù dei caratteri mobili, è qualitativamente il peggiore di tutti i neri per quanto possa raccogliere tutte le qualità del 'nero su bianco' che sono le promesse della modernità e la condizione più umile e necessaria della semplice carta stampata, per essere tale.
Nell'arte contemporanea il Quadrato nero di Malevic, chiamato quasi umanizzandolo, Quadrato nero su fondo bianco fu un quadro costruito in mezzo a una nuova teologia cromatica per la pittura astratta. Fu fin dall'inizio datato 1915 ma pensato e dipinto dopo la prima guerra (e la rivoluzione russa) almeno nel 1920, cioè dopo il periodo giallo, arancione e verde, quasi un inizio simbolico della conversione figurativa di Malevic che in realtà fu uno scherzo al regime e anche la ragione del suo oblio pittorico, resuscitato improvvisamente non prima degli anni Cinquanta del Novecento.
Oggi il quadrato nero di Malevic osservato al Museo russo di San Pietroburgo ha al suo interno fitte screpolature che manifestano una 'rottura' miracolosamente scoperta dal tempo come la gemmazione di una nuova figura. Il nero si è totalmente fessurato da far apparire un'immagine interna prima non visibile e ora quasi riconoscibile.
L'orizzonte convulso dell'Action painting americano è stato un'esaltazione per quanto patibolare del colore come mezzo espressivo, dall'anarchia del dripping di Pollock fino alla sintesi riduzionistica di Mark Rothko. Alcuni pittori come Ellsworth Kelly dopo gli anni Cinquanta e dopo una sobria ubriacatura cromatica hanno riproposto la condensazione basilare e originaria del bianco e del nero come punti di partenza e di arrivo della pittura. Ecco che la Minimal Art era diventata l'interfaccia segreta e nascosta della Pop Art che tuttavia ha guadagnato il Bingo artistico degli anni Sessanta e oltre.
La riduzione a zero e il raggiungimento del nero attuati dalla Max Cole risulta proprio dall'appassionata ricerca di una rinascita che parte dai gesti verticali e orizzontali e dalle materie originarie che servono, per esempio, a tessere una tela o una Sindone. Il velo della Veronica, pur non presente nei Vangeli, è soltanto un lino fittamente intessuto dove prevale il gesto sulla traccia del sacro volto, che può anche non apparire. Infatti la maggior parte di quelle immagini sacre chiamate 'Veroniche', suggeriva la storia della passione del Cristo indipendentemente dalla 'fotografia' stampata sul lenzuolo. Le linee, alternativamente verticali od orizzontali, 'intessute' dalla umile squaw Max Cole, pensando all'estrema precisione del loro tracciamento, diventano l'ordito e la trama per l'apparizione immateriale di un volto.
Anche i Preraffaelliti inglesi, che avvertivano le minacce di una nascente e già travolgente civiltà industriale, suggerivano accanto alla pittura e alla poesia, di praticare l'arte etica della tessitura, la 'sweet cross' cioè il gesto rituale del passaggio orizzontale della spola che si intreccia alla verticalità dell'ordito. E possiamo immaginare quanto questo potesse essere importante in mezzo al fracasso assordante dei telai meccanici della prima rivoluzione industriale.
L'orizzontalità e la verticalità delle linee della Cole non possono essere distaccate da un'estrema volontà, astratta quanto concreta, di ritessere una tela apparentemente inanimata, quasi metallica. Questa non sarà la semplice tela-rete di un quadro ma il grande lenzuolo che conserva in un rito estremo, l'ombra corporea della vita consegnandola all'immagine di una rinascita. Questo è nella pittura e nella vita delle arti che producono nell'assolutezza del nero e nella nudità del lenzuolo impresso, il processo teologico della kenosis. Si tratta dell'annullamento, dello svuotamento, del Consummatum est che porta a una resurrezione, come la cenere odorosa che diventa la concimazione più perfetta per l'orto delle viti, ma anche la miglior lisciva per un lavaggio purificatorio.
Il tessuto verticale e orizzontale portano alla mappa sindonica dell'incarnazione, all'icona del corpo nella sua tensione assolutamente vitale che lo accompagna e lo consegna alla fine della passione.
Il Cristo in avorio qui esposto (che ha per noi una difficile quanto fortunata difficoltà di attribuzione temporale), è stato messo al principio e al termine di un viaggio aniconico della Cole per affermare una propria materiale immaterialità. L'avorio nella metafora artistica e nel mito ha sempre riproposto la parte per un tutto, riportando l'immagine del mite e vittorioso elefante che ha vitalmente sviluppato un proprio sensus finis e sa quindi togliersi di mezzo e relegarsi in un luogo appartato senza incombere con la propria mole e il proprio peso animale.
L'avorio, questo particolare pezzo di avorio che è diventato l'icona di un Cristo sofferente ma quasi distaccato e risorgente dal legno geometrico della croce, mostra le piccole imperfezioni, le piccole crepe di ogni materia veramente preziosa e richiama a sé l'esito finale dell'arte e allo stesso tempo il suo principio. Perché i frammenti che sono stati apparentemente perduti dalla lavorazione dell'opera, come resti del tutto inutili, sono diventati con il fuoco la polvere preziosa del 'nero avorio' che ha reso altrove possibile un altro quadro, un'altra pittura, un'altra figura.
Manlio Brusatin

Nell'immagine un lavoro di Max Cole

Inaugurazione 16 febbraio, ore 18

San Fedele Arte
via Hoepli 3a-b 20121 Milano
orario: dal martedì al sabato dalle 16 alle 19 - mattino su richiesta (chiusa dal 23 marzo al 4 aprile)
ingresso libero

IN ARCHIVIO [223]
Conflitti
dal 10/12/2015 al 15/1/2016

Attiva la tua LINEA DIRETTA con questa sede