Museo Nazionale di Palazzo Venezia
Roma
via del Plebiscito, 118
06 699941, 06 6780131
WEB
Franz Borghese
dal 13/9/2005 al 16/10/2005
06 32810

Segnalato da

Danilo Sensi




 
calendario eventi  :: 




13/9/2005

Franz Borghese

Museo Nazionale di Palazzo Venezia, Roma

Antologica. La mostra evidenzia la capacita' dell'artista di distillare dalla realta' quotidiana umori e suggestioni intense, ma anche il malinconico dipanarsi di un filone narrativo sovente rivelatore di effervescenze introspettive piuttosto inquiete.


comunicato stampa

Mostra antologica

A cura di Giovanni Faccenda

Nella suggestiva sede del Refettorio Quattrocentesco di Palazzo Venezia, Roma, verrà inaugurata mercoledì 14 settembre 2005, alle ore 19 (conferenza stampa stesso giorno ore 12:00), un’importante mostra antologica di uno fra i maggiori artisti italiani contemporanei: Franz Borghese. Curata da Giovanni Faccenda, direttore della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Arezzo, la rassegna, che ordina una quarantina di opere scelte del Maestro dal 1969 ad oggi, si avvale anche degli illustri contributi del Prof. Salvatore Italia, Capo Dipartimento nel Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e del Prof. Claudio Strinati, Soprintendente del Polo Museale Romano.

Franz Borghese (Roma, 1941) è considerato dalla critica più autorevole una fra le figure di maggiore spicco dello scenario artistico italiano. La sua pittura, oltre ad incontrare il favore degli osservatori più sensibili, da sempre riscuote grande successo fra il pubblico e gli addetti ai lavori. Mostre significative di Borghese sono state organizzate in passato, come nel passato più recente, nei posti pubblici più illustri, sia in Italia che all’estero. Sue opere si trovano collocate in importantissime raccolte private, fondazioni e istituzioni pubbliche.

Nota esegetica:
Viene in mente Schopenhauer: «La vita è un pendolo che oscilla fra il dolore e la noia». Probabilmente perché una parte dell’espressionismo di Franz Borghese è compreso fra questi due poli, che, imprescindibili, sovente governano il destino di molti esseri umani.
In questo recinto virtuale, dove da sempre albergano verità e disillusione, vanità e cinismo, sono maturate le opere selezionate per questa mostra antologica ricca d’interesse e di significati.
Tante le chiavi di lettura offerte, a cominciare da un’analisi acuta sulla condizione dell’uomo contemporaneo, che si ritrova, confuso e smarrito, solo in mezzo agli altri e in un quotidiano che neppure gli appartiene.

Tornano, così, a imporsi alcuni capisaldi che hanno valorizzato la figura di Borghese fra quelle di maggiore interesse nel contesto artistico dell’ultimo trentennio: la sua capacità di distillare dalla realtà quotidiana umori e suggestioni intense, ma anche il malinconico dipanarsi di un filone narrativo sovente rivelatore di effervescenze introspettive piuttosto inquiete.
Questa oscura caratteristica, rimasta a livello embrionale nella non facile lettura di una pittura che certo affonda le proprie radici in esperienze passate – prima fra tutte quella dei grandi pittori espressionisti tedeschi, senza naturalmente dimenticare Attalo e Maccari – sembra infatti consolidarsi nel tempo come il denominatore comune di una realtà profondamente interiorizzata tanto nei protagonisti più dichiarati come nelle anonime figure, nella misurata presenza di tracce da leggere come segni di qualcosa che è stato e non può più essere.
Così, dinanzi a quel palcoscenico immaginario che è la vita, un autore tanto ispirato come Borghese arriva ogni volta a raccontarsi e a raccontare, attraverso gustose allegorie, una storia che non conosce l’inverosimile, scegliendo episodi, aneddoti, momenti che appartengono a un quotidiano fatto ora di noia ora di imbarazzante protagonismo, un tempo sempre sul punto di rivelarsi per quel niente che è, una farsa di ovvietà e situazioni spente, in cui, a pensarci bene, le uniche cose veramente accese sono i mozziconi delle sigarette che esibiscono, con invadente disinvoltura, i vari soggetti ritratti.

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Il curatore:
Giovanni Faccenda è nato a Firenze nel 1967. Dal 2000 è direttore artistico della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Arezzo. Critico e storico dell’arte, collabora dal 1998 con «La Nazione» e con altri periodici a carattere nazionale. Fra le numerose esposizioni che ha curato, accompagnate più volte dall’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, si ricordano le antologiche di de Chirico, Morandi, Rosai, Utrillo, Ligabue, Maccari, nonché le grandi rassegne «Da Picasso a Botero. Capolavori dell’arte del Novecento» e «Da de Chirico a Ferroni». Il Novecento fra epoche, ipotesi e provocazioni». È anche autore del saggio «Da Böcklin a de Chirico, la lunga alba della pittura metafisica».
Nell’ultimo periodo, grande successo ha avuto una sua mostra dal titolo “Toscana del ‘900. La Toscana dell’Arte”. Persino il Louvre ne ha chiesto il catalogo.

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Sui vizi e le virtù dell’essere umano
di Salvatore Italia*

Da oltre trent’anni Franz Borghese traduce in opere caratterizzate dai segni della più assoluta originalità la storia e i personaggi di una società visti attraverso una lente che si sofferma con acuta ironia su abitudini, movenze, mode, stili di vita, manie e debolezze, vizi e virtù dell’essere umano.
Dei personaggi che animano spesso scenari affollati dove ognuno si distingue dall’altro, Borghese delinea i tratti somatici con impareggiabile tecnica disegnativa e con sapiente dosaggio dei colori.
Ma dove l’arte di Borghese raggiunge le vette più elevate è nella sua straordinaria capacità di far vivere sensazioni ed atmosfere di pungente attualità attraverso profili e volti apparentemente immobili nella loro grottesca figurazione.
Così l’artista romano esprime i suoi messaggi dall’alto di un osservatorio attento ed intelligente dei fenomeni di una società che si muove tra effimeri compiacimenti e perfide ambiguità.
Certamente Borghese è uno tra i protagonisti più autentici dell’arte italiana del dopoguerra e gli si deve anche riconoscere il merito di un linguaggio sempre limpido e coerente legato ad una dimensione culturale di eccezionale e significativo spessore qualitativo.
Sono lieto, in occasione della mostra di Palazzo Venezia, di poter testimoniare non solo l’attenzione delle pubbliche istituzioni per l’arte di questo grande maestro, ma anche il mio personale ed ammirato apprezzamento per le doti umane di Franz Borghese, per la sua cultura e la sua profonda sensibilità.

*Capo Dipartimento nel Ministero per i beni e le attività culturali

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Un affabulatore fra incanto e disincanto
di Claudio Strinati*

Artista celeberrimo e molto amato, Franz Borghese espone adesso nel Refettorio di Palazzo Venezia e la sua presenza appare tanto più significativa rispetto alla politica culturale che, da un paio d’anni a questa parte, cerchiamo di realizzare in questo spazio restituito a una sua peculiare attività espositiva proprio nel nome di un sondaggio costante sui nostri tempi, sia verso maestri affermati sia verso giovani e giovanissimi a diverso titolo connessi con i temi del classico e del confronto antico-moderno.
Borghese è un figlio di quell’epoca che oggi si denomina, in maniera generica e spesso cronologicamente impropria, «il Sessantotto». In realtà in quell’anno Borghese non era un esordiente e aveva già dato notevole prova di sé, ma l’effetto dirompente e incalzante della sua pittura assume senso ed efficacia, anche oggi, soprattutto se rapportato a quella situazione artistica che, in effetti, cominciò a configurarsi come tale già qualche anno prima, e da molti punti di vista.
Borghese è l’inventore di quelle figure che potremmo chiamare i nostri «Biechi blu», per affiancarli ai formidabili e indimenticabili personaggi creati, tra il 1967 e il 1968, da Heinz Hedelmann nel film Yellow Submarine di George Dunning, ma, sostanzialmente, dei Beatles. Nei trucidi e innocui disegni animati del memorabile film si percepisce una idea creativa, mista di buffo provincialismo e di grandioso e universale impatto, che è proprio tipica, su un altro versante e certo con intenti in parte diversi, di Franz Borghese.
Uno dei punti, infatti, di cui sempre si discute su Borghese è il senso dei suoi personaggi che, per dirla con lui, sono o, piuttosto, sembrano in larghissima parte fisionomicamente appartenenti a quella singolare categoria, creata dal maestro stesso, che sono gli «analogici», «tipologia comparsa nel nostro tempo, scoperta dal Borghese e da lui studiata per primo assoluto» (da Franz Borghese, Il manuale della fisiognomica, Il Gianicolo, Perugia, 1993, p. 86). E così sono pure i Biechi Blu e, per restare in area Beatles, così sono i musicisti immortali che compongono la pseudoottocentesca Orchestra del «Sg.t Pepper Lonely Hearts Club Band», anch’essa inventata appena prima di Yellow Submarine, tra il 1966 e il 1967.
Tempi eroici in cui la via del gioco combinatorio e l’orgoglio di condividere , in piena avanguardia, la goffa fascinazione di un Ottocento ipotetico, nutrirono l’immaginario di quattro ragazzi di Liverpool che sono stati tra i più grandi musicisti del nostro tempo, e un romanaccio perennemente divagante e stralunato che, per prima cosa, si sradica dalla propria epoca e muove le fila del suo pensiero da vero burattinaio, come quelli che deliziavano i ragazzini della generazione nata a cavallo o dopo la Guerra nei giardini del Pincio a Roma, quando i pupazzetti finivano sempre (e forse finiscono ancora) a darsi un sacco di botte.
L’aerea fantasia permette a un affabulatore di questo livello di dipanare una schiera di personaggi che marciano tutti in fila, romantici e astrusi protagonisti su una scacchiera che li rende e li renderà sempre uguali a se stessi, pur impersonando, ogni volta, questo mondo e quest’altro. L’ironia c’entra e non c’entra e tutti i possibili riferimenti che sono stati (e spesso giustamente) evocati per Borghese vanno bene ma non si sovrappongono mai a questo narratore perfettamente incantato e disincantato, che ha, fin dalle sue prime cose e ora più che mai, un talento acutissimo di scrittore e descrittore con una sorta di innato gusto «zen», come tanto piace al nostro tempo, per cui plausibile e impossibile sono spiegati nella stessa maniera.
Ne ricava una esperienza estetica che è molto più sottile di quanto non possa sembrare alla prima e di quanto il maestro stesso, uomo di somma sostanziale discrezione, vorrebbe far credere di essere poco o nulla consapevole, mentre, a dire il vero, la sua capacità di comprendere e spiegare il proprio immaginario è pari a quella di tenerlo sottilmente occultato.

*Soprintendente per il Polo Museale Romano

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Dell’apparire, e di altri, trascurabili, vizi
di Giovanni Faccenda*

«Tra chiaro e oscuro c’è un velo sottile»
Eugenio Montale, Diario del ‘72

Tanti anni fa, un disegno sistemato in una cornice d’epoca, riposto a mezz’altezza nella ricca vetrina di un antiquario fiorentino di via Maggio, suscitò in me un certo stupore, a tal punto che, senza neppure guardarne la firma, entrai nel negozio che lo esponeva per avere qualche informazione. Un commesso gentile e scrupoloso, dai tratti somatici molto simili all’uomo con i baffi ritratto in quel foglio, mi spiegò che poteva trattarsi di uno schizzo di fine Ottocento realizzato da un italiano vissuto in Francia che si chiamava Borghese, forse un nome d’arte oppure, chissà, quello vero.
Il prezzo, un po’alto per le mie risorse di allora, arrivò alla fine della cortese spiegazione, e io, ringraziando, proseguii con un chiodo di rimpianto verso via Tornabuoni.
In quella strada all’ombra del Duomo, fra le vetrine luccicanti delle case di moda, passai per caso di fronte a una piccola galleria d’arte che proponeva dipinti di autori contemporanei. Fra questi, curiosamente, spiccava un soggetto simile al disegno che avevo poco prima apprezzato. Bastò guardare meglio e notare, dopo un istante, come proprio la firma fosse la medesima: Borghese. Non era, allora, un artista dell’Ottocento… D’accordo, ma chi era? Fu il titolare di quella galleria a dirmelo: un pittore romano anche abbastanza noto.
Cominciò, così, fra elenchi telefonici, amicizie nella capitale, mercanti sospettosi, la ricerca di un artista che tanto e fin dal primo momento mi aveva incuriosito.
Dirò un’altra volta di come ebbi poi modo di incontrarlo e di conoscerlo giusto dieci anni fa; ora è il momento di un altro genere di riflessione.

Lo stimo, fra le altre cose, per il suo temperamento, che è dei più originali, e perché è un uomo che, pur avendo una precisa visione del presente, in realtà, insieme a qualche trascurabile vizio riferibile al quotidiano, si distingue per un apprezzabile numero di virtù antiche. Molto diverso da come in molti lo immaginano o lo presentano, Franz Borghese è più che altro un tipo con le idee chiare. Capace di dire quello che pensa e pensare quello che dice. Sempre con estrema coerenza, qualità da annoverare fra le sue maggiori come fra le più rare.
Artista di acuta finezza intellettuale e incisivo spirito di osservazione, ha saputo proseguire, con indiscussa autonomia e senza debolezze di sorta, per un sentiero spesso male interpretato, che nel tempo ha visto avvicendarsi, con esiti più o meno singolari, i molti epigoni della lezione espressionista tedesca di Grosz e Dix e di quella italiana del geniale e poliedrico Mino Maccari.
Nulla di tutto questo è invece accaduto a Borghese, il quale, percorrendo a ritroso le orme di certi formidabili autori di inizio Novecento – Attalo, per esempio –, è riuscito a consolidare un impianto espressivo originale e di gran pregio. Una pittura, la sua, densa di grottesche allusioni, che potrebbe accettare, didascalico, un pensiero di un celebre personaggio creato da Bernanos: «Quando sarò morto dite agli altri che io li ho amati più di quanto non abbia mai osato dire.»
Sotto il profilo contenutistico, a guardare certi minuziosi ritratti legati ai tic della civiltà tecnologica e a certo edonismo tipico del contesto moderno, l’errore che sovente si è commesso è stato quello di ritenere insito a questo particolare genere di narrazione un improbabile giudizio morale. Doveva, invece, considerarsi più che sicura la pacifica confessione di un convinto assertore della categoria dei fallaci, segretamente attratto dalla grande ribalta dell’esistenza, il proscenio dove, una volta salito il sipario e accese le luci, si può ogni giorno assistere ai soliti personaggi senza canovaccio e perennemente in posa, e alle consuete, scontate repliche. In altre parole un teatrino delle vanità e delle opere buffe in cui conta soltanto apparire e niente essere.
Le scene, sigillate in un contesto stereotipato, diventano così ideali per una commedia umana colma di archetipi e scorie, nella quale una luce insistente, a tratti enigmatica, guadagna in modo verticale i corpi dei vari soggetti raffigurati.
Non esiste concessione al superfluo in questo esercizio espressivo votato alla verità ultima e dunque al rigore più essenziale, sorretto da una riflessione continua, talvolta esasperata, sulla realtà e i mille meccanismi, vaghi e indecifrabili, che ne determinano il corso. Ma è questo, del resto, il grande merito di un artista che si è mantenuto, instancabile, entro quelle zone d’ombra in cui, neanche tanto taciuto, si diffonde il più diffuso vizio appartenente al genere contemporaneo: l’insopprimibile desiderio di apparire.
Una tale esigenza diventa terreno fecondo di espressione per Borghese, tanto che i suoi personaggi, a cavallo o sui trampoli, sembrano sempre rifarsi all’icona del funambolo, il cui precario equilibrio dovrebbe suggerire, dinanzi a ogni convinzione, il beneficio di qualche ragionevole dubbio. Lo stesso, con ogni probabilità, che gestisce la trama gustosa di ogni dipinto, dove i vari soggetti – al solito colti nella seriosa fissità tipica di una posa fotografica – paiono sempre gli stessi, e sempre in cerca della medesima cosa: il loro momento, la più effimera gloria. Non importa il luogo o l’ora: è buona una colazione all’aperto come la coperta della nave dei folli, una passeggiata con la moglie e il cane o l’irrinunciabile gita a bordo del bolide rosso… Per ognuno di loro si potrebbe anche usare la battuta malignamente riferita a Malaparte: ha sempre bisogno di fare il neonato al battesimo, la sposa al matrimonio o il morto al funerale. Il tempo che spetta alle comparse – suggerirebbe ridacchiando il Gastone di turno – è fuori dalla storia.
Diresti così che i dipinti raccolti in questa mostra antologica, generosa di sorprese, riescono a mostrarsi come fogli strappati ad un album immaginario, dove, oltre all’evoluzione espressiva dell’artista, si snoda un vero e proprio documentario sugli usi ed i costumi nazionali di oltre cinquant’anni. Un caleidoscopio dal quale attinge Borghese, ultimo narratore, a colori e in bianco e nero, di una storia «smarrita», di un’Italia che non c’è più. Di un’epoca, però, che egli non vuole smettere di guardare. Curioso di come un giorno semmai potrà finire.
Anche per questo, nel tempo, la sua pittura si è conservata tonica e incalzante; così il suo pensiero, autonomo e controcorrente, la sua analisi cinica, e mai, tuttavia, spietata, dinanzi a quelli che sono i comportamenti peccaminosi e le abitudini meno nobili della civiltà moderna. Una disamina che sembra sempre sul punto di assumere le fattezze del giudizio definitivo.
E invece, quando meno te l’aspetti, ecco accadere, imprevisto, il contrario: benevolenza e tolleranza si fanno largo, e l’appello a coloro che sono senza peccati vieta a chiunque di raccogliere il sasso e scagliare la prima pietra. Perché, in fondo, l’unico peccato davvero imperdonabile è quello di non avere peccati.
Ti accorgi, allora, senza averci mai pensato, come, in punta di piedi, anche nell’oscura profondità di una pennellata veloce, di un volto baffuto appena accennato, possa dissolversi il sale dell’ironia più intrigante. Ma non la partecipazione di Borghese. Il quale resta – sigaretta accesa in bocca, in procinto di un’interminabile sfida a scacchi – quasi a ricordarci una battuta di Guido, il regista di Otto e mezzo di Fellini: «La felicità sarebbe poter dire la verità senza far piangere nessuno.» Un esercizio difficile, che a lui, però, molto spesso riesce.

Fra gli artisti che in questi ultimi trent’anni hanno guardato con attenzione al genere umano, Franz Borghese ha il merito di essere uno dei pochi protagonisti autentici. Di certo, nessuno, finora, gli ha potuto contendere la palma del più graffiante.

Firenze, 2000-2005.

*Direttore della Galleria Comunale d’arte Moderna e Contemporanea di Arezzo

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Segreteria organizzativa:
Franco Ristori - Firenze
Tel. 055 486392

Ufficio Stampa:
Sveva Fede (Tel. 0575 24841)

Inaugurazione: mercoledì 14 settembre ore 19

Palazzo Venezia
Sala del Refettorio Quattrocentesco
Via del Plebiscito 118 - Roma
Orario: 9 - 19 (lunedì chiuso), ingresso libero

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