Fondazione Lanfranco Baldi
Pelago (FI)
piazza Ghiberti, 34/36
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Marcello Maloberti
dal 12/5/2006 al 29/6/2006
339 7765593, 335 7620792

Segnalato da

Anna Lucia De Luca




 
calendario eventi  :: 




12/5/2006

Marcello Maloberti

Fondazione Lanfranco Baldi, Pelago (FI)

Serie di ritratti, disegni a pennarello di uomini e donne arabi eseguiti in diverse citta' italiane ed europee con Video istallazione site specific. A cura di Daria Filardo. Residui di Andrea Papi, Davide Rivalta, Italo Zuffi, Addo Lodovico Trinci.


comunicato stampa

Serie di ritratti, disegni a pennarello di uomini e donne arabi eseguiti in diverse citta' italiane ed europee con Video istallazione site specific.
A cura di Daria Filardo.

Residui di Andrea Papi, Davide Rivalta, Italo Zuffi, Addo Lodovico Trinci

A volte comincia dagli occhi.

‘Il capitano e il suo equipaggio vi danno il benvenuto a bordo. Ci scusiamo per il ritardo, la pista e' stata solo ora resa praticabile. La temperatura al suolo e' di -6 gradi centigradi. Il volo durera' un’ora. Le condizioni meteo sono buone.’
Bene, speriamo. Non mi piace tanto volare, il decollo soprattutto. L’atterraggio invece mi piace, mi rilassa.
‘Informiamo i signori passeggeri che abbiamo iniziato la discesa; atterreremo tra 15 minuti. Il tempo e' buono; la temperatura al suolo e' di 12 gradi centigradi.’
Finalmente. La luce inondava la piana che accoglieva l’aeroporto, lo iodio impregnava l’aria. Non c’era nessuno, solo dieci persone avevano diviso con me il volo, tutti raggruppati al centro dell’aereo, per equilibrare il peso. Ricordo, anni fa, di un amico che mi tenne tutto il volo impegnata nei i suoi racconti, che tentavano di dissimulare la paura: ogni rumore, ascoltato e analizzato con precisione ingegneristica. La dovizia di particolari, spiegava come si distribuisce il carburante, gli strumenti di precisione, le ali, gli alettoni che si aprono o non si aprono. Io agivo piu' fisicamente di cosi': niente analisi o delicati equilibri, isolavo la mente tappando le orecchie. Non sentivo piu' i rumori e le variazioni di pressione, e quando dentro l’abitacolo (della mia mente) tornava la pace, potevo riaprirmi ai suoni , prendere il giornale e sfogliare le meraviglie di parchi sottomarini e ville palladiane. Carta lucida, articoli bilingue, consigli su ristoranti e hotel, e naturalmente, in fondo, la composizione della flotta e le sue rotte. Rassicurante. Meno rassicurante che i tagli delle tariffe hanno portato anche alla sparizione del caffe' che davano a bordo. Niente piu' caffe', niente caramelle, salviettine profumate, giornali. Solo acqua. Viaggio spesso da sola.

Il silenzio mi accolse, mattina presto e nessuno all’aeroporto. Pochi passeggeri; tre valigie che spuntarono sul nastro. Grandi ambienti dominati dal grigio e dall’azzurro. Un finanziere annoiato, un addetto alle pulizie. Nient’altro. Il sole, caldo. Il caldo che penetra, e ti entra dentro. Sembrava una citta' di confine, vuota di gente, un’attesa carica di eventi a venire, il silenzio del mattino calmava il caos di voci e suoni continuamente confusi, violenti e vitali appartenenti a quel luogo. Sorprendente come la massa umana possa essere l’ago che definisce la percezione dei posti.
Ritirai la mia valigia e uscii fuori. Il motivo per cui ero li' era insolito. Dovevo trovare piu' o meno cinquanta fra donne e uomini arabi che posassero per un ritratto realizzato a tratti veloci, schizzato ma riconoscibile nei lineamenti. I ritratti sarebbero stati realizzati in luoghi pubblici, dove si incontrano le persone.
Mi occupo di arte contemporanea. Sto lavorando con Marcello, e per lui.
La visione di Marcello a me sembra come attraverso uno specchio, uno sdoppiamento di un pezzo di realta': la' dentro, gli elementi della quotidianita', i luoghi e le situazioni marginali sono deformati in poesia.
In questa trasformazione (dallo stato della realta' allo stato dell’opera) Marcello rende liricamente necessari i differenti elementi che si mescolano nelle sue opere: quelli piu' transitori e vivi, sia altri piu' plastici e formali.
La sintesi che ne risulta e' una continua corrispondenza di senso con lo spazio attraversato dall’artista, spazio che diventa esperienza estetica. Questa esperienza e' per Marcello connotazione essenziale sia al processo artistico, sia allo spazio di relazione dove vive l’opera e la persona.
I ritratti sarebbero diventati un modo per indagare il concetto di identita', di idea di se', appartenenza, luogo, margine della provincia.
Partendo da dati autobiografici, Marcello esplora il concetto di appartenenza a una comunita' e della separazione da essa. La ‘provincia abitata’ e la ‘citta' spezzata’ diventano le metafore della sua ricerca. Il suo sguardo si posa sull’idea del ‘fuori’ come separatezza, sia culturale e metropolitana che, al contrario, vicina e omogenea per identita', ma ugualmente lontana.

Io ero li' per risolvere quello che di solito non si sa e non si vede, cioe' tutte le richieste, le necessita' senza le quali quelle idee non potrebbero prendere quella forma.
Mi avviai verso il trenino che porta in citta', respirando profondamente.
La citta' era un luogo familiare, avevo amici che mi avrebbero ospitato nella mia permanenza, non avevo bisogno di un albergo.
Il viaggio sul treno metropolitano fu breve, scesi dove sapevo; era ancora presto, ma la citta' si era svegliata. Andai a fare colazione nel bar dove avevo appuntamento con i miei ospiti, che mi avrebbero accolto e lasciato le chiavi di casa perche' potessi fare quello che volevo senza intralciare i loro impegni.
Entrai in casa, un piano alto che dava sulla citta' gialla: case, tetti, tufo, tanti alberi.
La stanza degli ospiti era chiara e luminosa. Posai la valigia su una sedia e la vuotai. Sparsi i miei oggetti in giro, un po’ di vestiti sul letto, libri e carte su un tavolo vicino al balcone, accesi il portatile. Avevo un po’ di tempo prima di recarmi al mio primo appuntamento, decisi quindi di fare con calma.
Quando sei in casa altrui, sola ti guardi in giro, un po’ furtiva provi quel sottile piacere di violare lo spazio degli altri. Vai curiosando, senti lo spazio che ti circonda, misuri affinita' e differenze, cammini di stanza in stanza annusando come un animale per dare confini al luogo sconosciuto, cosi' da trovarne le coordinate e saperti muovere.
Avevano comprato un divano nuovo, bianco largo e morbido, mi tolsi le scarpe e ci saltai sopra. Affondavo, i cuscini mi avvolgevano.
Mi alzai e curiosai nei cd, la musica definisce i luoghi e le persone. I miei amici non avevano i miei stessi gusti musicali, ultimamente mi ero dedicata molto alla contaminazione fra generi. Il mio gruppo preferito avevo scoperto essere uno strano artista portoghese che da solo, a casa sua aveva inciso un cd in inglese. Melodie e testi scivolavano dentro le orecchie strappandoti un sorriso per l’acutezza semplice delle parole, e, come niente, ti ritrovavi a canticchiare le canzoni.
Non ne conoscevo il nome. Poco tempo prima, avevo invitato amici a cena chiedendo loro di portarmi nuova musica. Avevo bisogno di saturare la mia casa con nuovi suoni, perche' cio' che ascolto dopo un po’ si attacca alle pareti e sento il bisogno di liberarmene. Periodicamente devo rinnovare. Cosi' quella sera avevo sei o sette cd nuovi. Succede, a volte, che copiando quelli degli amici, di mano in mano esso si svuoti delle informazioni che conteneva inizialmente: spariscono i titoli delle canzoni, a mala pena sai l’autore. Dischi argentati con un nome, nient’altro. Cosi' doppiai gli ‘animal collective’, chi erano? E poi gli ‘art ensamble of chicago’, quelli si', lo sapevo, e poi altri, e infine ‘mustang y la negrita’, chi?
‘mustang y la negrita’ divento' la mia colonna sonora per un periodo. Ero certa che fosse un ricercato gruppo inglese, mi piacevano davvero tanto.
Scoprii in seguito che era il vicino di casa di una delle amiche presenti alla cena, quel signore portoghese che aveva fatto tutto da solo e registrato a casa.
Fra i cd dei miei amici cercai qualcosa che mi ispirasse, che facesse da sottofondo al mio ambientamento, al relax di quelle prime ore, mi accompagnasse mentre facevo un caffe', una doccia calda, mi vestivo e mi preparavo al mio primo appuntamento di lavoro.
Le note di un tempo passato riempirono l’aria; confortata lasciai scorrere l’acqua.
Quando uscii il mondo intorno a me aveva preso forma, camminai per raggiungere il locale di Karim, l’ingegnere palestinese; gestiva un bar aperto giorno e notte dove si mangiava ottimo cibo arabo. Il locale si espandeva in piccole sale intorno ad uno spazio centrale. Tavoli da pranzo in alcune stanze, e tavoli bassi da te', con narghile' riempiti di tabacco profumato, in altre.
Karim mi dava una mano, il suo locale era diventato il punto di collegamento. Ali', un ragazzo che vi lavorava mi aveva aiutato a mettermi in contatto con varie persone.
Il ritratto sarebbe stato un primo piano del viso, frontale, realizzato a pennarello nero, con uno schizzo veloce ma accurato. I volti e i loro tratti si riconoscevano chiaramente.
Marcello chiedeva, alla fine, di scrivere con un pennarello rosso il loro nome, in arabo, sulla bocca del proprio ritratto. Un incontro di segni e significati.
Il locale di Karim non era l’unica mia risorsa. Anche Mohamed, che conoscevo da tempo, mi diede una mano:con lui andai alla macelleria araba, e da Djamal al salone di bellezza ‘california dream’.

Marcello a volte comincia dagli occhi, quasi sempre. Anche il segno cambia, ora piu' spigoloso, pieno di angoli, ora piu' rotondo e pieno di linee curve.
Ci siamo visti al locale ‘kebab beirut’, poi con Ali' siamo andati in giro. Non e' facile conquistarsi la loro attenzione, hanno sempre altro da fare e non capiscono cosa tu voglia da loro.
Marcello era arrivato con il treno; per qualche giorno si sarebbe fermato qui.
La zona era quella del mercato; Marcello era un po’ intimidito. Non e' facile convincere qualcuno a farsi ritrarre.
Si lavora per strada. Naturalmente non c’e' modo di andare da qualche altra parte, in un luogo calmo. Si deve cogliere al volo la disponibilita' e la curiosita' di essere ritratti. Ali' avvicino' una sedia a Marcello, una la prese per se; scherzava con i suoi amici. Fra le righe trapelava una grande timidezza, e insieme la gratificazione di essere stato scelto dall’artista, il narcisismo a volte supera la delicata questione della rappresentazione. Seduti in mezzo al marciapiede Marcelllo gli disse di guardarlo, di fissare un ‘punto di fuga’ sulla sua fronte, una piccola cicatrice: risate e poi si comincio'.
Il segno si arrotola su se stesso, cerca di creare un campo separato dal vociare confuso dell’esterno, all’interno del quale trovare una corrispondenza, una somiglianza.
C’e' una grande aspettativa, diversa dalle due parti , ma uguale in intensita'. Ali' vuole che la sua figura appaia con definita chiarezza, e' attento a cosa Marcello capisce del suo viso, della sua espressione. Forse vorrebbe i capelli piu' lisci, come, senza esitare, aveva chiesto il giovane Tamer a Marcello, ma lui non lo chiede. E' piu' timido, ed e' curioso di come faccia Marcello a centrare con un segno fatto di mille linee che si mischiano il carattere principale di chi ha davanti.
Alcuni dei suoi amici sono rimasti delusi: ‘non mi hai fatto bello, questo non mi somiglia per niente’. Marcello non e' interessato alla perfetta somiglianza, cerca di capire, intuisce. Usa tutto il poco tempo che ha a disposizione per approfondire. Qualcuno si e' abbandonato al suo sguardo e si e' lasciato ritrarre piu' e piu' volte, posando come lui suggeriva, muovendo poco la posizione.
Bisogna essere veloci. E' come se Marcello avesse un certo senso. Sa riconoscere cosa cerca nei caratteri di un viso, quando lo ha davanti.
Il disegno in questa occasione e' il tramite di un incontro.
Io spiego cosa succede, sono li' per mediare, raccontare, a volte rassicurare. Guardo nei loro occhi un po’ perplessi e parlo di una mostra che si basa sull’idea del ritratto, dell’identita', delle persone, che c’e' Marcello con un suo autoritratto fotografico, che ci sono loro, e che ci sono anche io che scrivero' di quello che succede.
E' interessante l’incontro. Siamo tutti affamati di raccontare la nostra storia. Ibrahim mi ha detto che lui e' giordano, esule palestinese, sposato con una donna irakena, e emigrato in italia. Ognuno di quei visi racconta lontane lacerazioni. E poi hanno la nostra eta', mia e di Marcello, anzi spesso molto meno, ma il loro sguardo e la loro pelle sono piu' segnati delle nostre.
Scherziamo per creare un’atmosfera serena. Marcello li guarda e va oltre la sua timidezza. Bisogna essere concentrati perche' tutto avviene in pochi minuti: nessuno puo' dedicarti molto tempo.
Marcello guarda; comincia a volte dagli occhi, a volte da un altro segno del viso: capisce ogni volta una cosa diversa. Questo e' un lavoro sul segno mai finito, sull’incontro mai concluso, sulla forma che cambia fisionomia tutte le volte che pensi di avere capito. Il segno di Marcello dipende anche dall’impazienza di chi ha di fronte, perche' spesso loro si alzano, si muovono; non capiscono che ci vuole calma e tempo. E' una questione di imbarazzo. Non sempre pero', a volte abbiamo bevuto il te’ insieme, parlato e raccontato cose. E' un incontro fra due persone, non un gesto meccanico di riproduzione. Si vede subito se si stabilisce un filo che unisce. Se non avviene la scintilla, il segno si fa piu' indeciso e frettoloso. C’e' bisogno di un’intesa profonda, come di un amore a prima vista, che unisce - seppure per poco. Marcello deve rispecchiarsi nell’altro, ritrovarsi e definirsi per assonanza o differenza. Questo lavoro sul disegno non e' un esercizio formale, chiuso su se stesso, indifferente al soggetto; e' invece il segno dell’apertura all’altro. Lo spazio poetico di Marcello si ‘sporca’, riempiendosi di elementi che provengono dallo spazio esterno. E' un’immersione nella realta' che accoglie e trasforma, non uno spazio neutro, ma uno carico di umanita'. Devi continuamente negoziare per trovare la sfumatura che definisce la tua identita', il tuo dettaglio. Sulla bocca, quando ha finito, Marcello chiede di scrivere il proprio nome, in arabo, con il pennarello rosso. La linea sinuosa della scrittura araba diventa un disegno sul disegno, un incontro di culture che descrivono e danno il nome alle cose, rappresentando figure o affusolando la linea in ornamento astratto. Il nome e' gia' un volto, il volto contiene il suo nome. Sulla bocca la parola e' quella che parla di se stessi. Il nome si solidifica, da suono a grafia. Il segno rosso intensifica lo sguardo, sembra voglia dirti ‘hai capito come mi chiamo?’. Marcello ha realizzato una parte, l’altro, il resto.

La mattina dopo decisi di prendermi un attimo di pausa, e andai in spiaggia.
La gente era stranamente piu' silenziosa; il vociare dialettale si era trasformato. La coppia accanto a me, sotto l’ombrellone colorato portato da casa, commentava notizie di quel giorno. Leggi regionali portavano benefici da sempre sperati, nuovi asili nido avrebbero aperto nelle strutture statali, perche', come diceva il rettore dell’universita': ‘Considerare il lavoratore una persona e' diventato indispensabile. Un gesto di civilta'’.
Il rettore avrei dovuto incontralo anch’io, il lunedi' successivo. Era curioso che la sua foto apparisse sul giornale del giorno e che i miei vicini parlassero animatamente di sue affermazioni. Curioso, piu' che altro, per il fatto che io quel rettore lo conosco da quando sono nata. E' il papa' di una di un gruppo di cinque bambine, nate nello stesso anno, che hanno passato l’infanzia insieme, in una comunita' di amici e genitori.
Il forte vento di maestrale copriva il vociare rumoroso o davvero le cose stavano cambiando? Un’altra famiglia, non lontano da me, rideva modestamente. Niente piu' grida esibite e cocco sulla spiaggia? Che era successo?
In effetti quasi mancava la spiaggia…il mare si agitava mangiando lo spicchio di terra, sassolini piccolissimi rotolavano e danzavano con l’acqua, e noi indietreggiavamo rifugiandoci sulle rocce bianche divertiti.

Carlo Scarpa e' stato un architetto fine, i suoi interventi sono cosi' stupefacenti da abbagliare e allo stesso tempo sparire nell’agglomerato che li ospita.
Il territorio non esiste in natura, e' una costruzione culturale, una stratificazione di pratiche, di abitudini che plasmano.
Uscii la mattina prestissimo, l’aria era spazzata dal vento di maestrale che non abbandonava la citta'. Il sole pulito e le strade piuttosto vuote rinnovarono la sensazione che qualcosa stava cambiando. Di nuovo niente voci caotiche, niente rumori assordanti che confondono le percezioni. Come al mare, il vento rendeva silenziose le strade ampie.
L’appartenenza al territorio si misura nella capacita' di fare risuonare l’immagine interiore con quella esteriore. Quando succede questo la simbiosi fra i diversi pezzi del se' fa registrare l’esperienza dell’interezza.
Io quel giallo lo conosco, il tufo poroso che assorbe e emana.
Arrivai nella grande piazza, prima dell’ora stabilita. Gli enormi alberi facevano ombra, radici a vista, la metafora perfetta.
Un gruppo di donne sull’angolo della piazza parlava: questioni sindacali, credo. Diritti e strategie per non cedere al ricatto. Alle otto e un quarto si parlava di lavoro.
Incrociai pochi sguardi, osservavo. Il carabiniere stava chiacchierando nel piccolo balcone in ferro battuto del primo piano.
Il palazzo, romanico e magnificente, aveva una lunga storia di continue riutilizzazioni. Sede regale, carcere e luogo di tortura dell’inquisizione, rettorato. Le segrete stanze ancora conservavano scritte delle recluse sui muri, sofferenze, ‘cavuru e friddu’, spasimi di febbri antiche.
Poi Carlo Scarpa, il bianco, il giallo i chiostri, le sale e un enorme portone inutilizzato perche' un blocco di cemento con uno spigolo vivo formava una feritoia profonda due metri e non lo lasciava aprire in sicurezza. Il rettore mi disse che ci sarebbe voluto un concorso internazionale per risolvere la questione architettonica. Gli architetti consultati fin ora non erano riusciti. Avrebbe provveduto a bandirlo prima della fine del suo mandato.
Entrai nell’ufficio. Una sala di enormi dimensioni con un soffitto di legno a cassettoni dipinto. Una lunghissima scrivania, un divano di design moderno di velluto raso azzurro, due poltrone dello stesso tipo. Ci accomodammo li. Non ci fu troppo spazio per convenevoli, ma una conoscenza antica permise subito una familiarita' accogliente seppure adesso ci si incontrava vestendo ruoli diversi, professionali.
La sera prima, cenando, la memoria familiare aveva ripescato pezzi a me sconosciuti e allo stesso tempo esperienze che sulla mia pelle avevano il sapore della cosa nota.
I miei mi raccontavano che in un certo momento, insieme a un gruppo di amici con i quali si viveva di legami strettissimi, avevano pensato di formare una comune. Si era prospettata l’ipotesi di prendere una grande casa insieme. Erano gli anni settanta, e quelle cose erano esperienze possibili. Alcuni caldeggiavano l’ipotesi, altri si trovarono in disaccordo, piu' che altro perche' in quel momento una delle coppie stava attraversando un momento difficile che sfocio' nella separazione, e la maggior parte del gruppo non volle trovarsi coinvolto e, in un certo senso, complice, di quella trasformazione.
Si parlo' delle comuni, di cosa poteva succedere, del legami e della possibilita', o meglio del tempo limitato che queste esperienze riescono a sostenere.
Non presero una casa comune, ma andavamo per meta' settimana in una colonica dove vivevamo insieme. Non c’era sera che non fossimo tutti. La casa dei giochi era composta di due stanze, ed era il regno di noi bambini (il gruppo delle cinque, piu' i fratelli arrivati dopo); qui i genitori, a due per volta e non appartenenti alla stessa coppia, ci accudivano ogni pomeriggio. Naturalmente niente televisione. Vacanze collettive, stessa classe e stessa scuola, genitori con lo stesso lavoro e nello stesso luogo. Non presero alloggio insieme, ma le case dei singoli nuclei familiari erano luoghi quasi collettivi, usati dalla famiglia che ne aveva la proprieta' solo per un tempo marginale. Era insomma, quasi, lo stesso. Nella mia percezione, l’infanzia passata in comune a quel gruppo aveva costruito con quelle persone legami cosi' cementati che non c’era bisogno di rinnovarli costantemente.
Entrai nell’ufficio spazioso e ritrovai tutto questo.
Lavorare con Marcello significa anche questo: cercare le radici dell’appartenenza attraverso l’altro da se', e anche attraverso lo spazio che viviamo, sia esso fortemente urbanizzato o piu' naturalmente decentrato. Ho parlato e ho raccontato delle mie aspettative e dell’intenzione di fare del territorio un’esperienza viva e criticamente pensata.
L’arte deve porsi come immagine pubblica, specchio del tessuto umano e urbano?

Squillo' il telefono, era Marcello. Aveva avuto una nuova idea.
‘Ciao, mi dai di nuovo il tuo indirizzo mail? Ho fatto la foto di Casalpusterlengo e te la vorrei mandare. Mi sa che ci siamo’ ‘Si', ecco segna la mail. Si', aspetto la foto e ti richiamo’.
Appeso al cartello stradale Marcello penzola. Il corpo e' a piombo, perpendicolare al suolo, attaccato al luogo di origine. Marcello deve fare un salto per staccarsi e lasciarsi cadere dal cartello, bloccato in aria sembra aggrappato li', perche' arrivato in volo dall’alto, ma in fondo a casa...
Daria Filardo

Inaugurazione sabato 13 maggio ore 18

Fondazione Lanfranco Baldi onlus
Piazza Ghiberti 34/36 I-50060 Pelago Firenze

IN ARCHIVIO [14]
Lori Lako e Arber Elezi
dal 1/7/2013 al 24/7/2013

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