Casarita Show Food
Taranto
via Berardi, 81/83
099 4535935
WEB
Ezia Mitolo
dal 22/9/2007 al 21/10/2007

Segnalato da

Vito Caiati



approfondimenti

Ezia Mitolo
Vito Caiati



 
calendario eventi  :: 




22/9/2007

Ezia Mitolo

Casarita Show Food, Taranto

Cibo&Arte. In mostra installazioni-sculture, disegni, documentazioni fotostatiche e video-performances, accomunate dall'esigenza di accordarsi con l'Ombra dell'artista.


comunicato stampa

Cibo&Arte

I principi canonici che hanno tradizionalmente definito l’opera d’arte, quello della figurazione, della gerarchia dei generi, delle regole del finito, dei canoni della rappresentazione sono stati trasgrediti dall’arte contemporanea che, trasgredendo le frontiere, ce li ha mostrate rendendocene consapevoli. L’impressionismo, il fauvismo, il cubismo, l’astrattismo, l’impressionismo astratto hanno invertito i criteri del valore artistico. Quest’ultimo non risiede più nell’attestazione della qualità tecnica, nel controllo dei codici estetici, ma nell’ossessione di una fuga in avanti nel “sempre meno”, nella spoliazione minuziosa dell’oggetto artistico. I momenti inaugurali di tale spoliazione sono da ravvisarsi nel “Quadrato bianco su fondo bianco” di Malevic e nei “Ready made” di Duchamp.

Malevic supera i limiti della figurazione, della composizione, dell’illusione prospettica, della tecnica rappresentativa, del colore, aprendo le porte ad ogni genere di minimalismo. Duchamp dribbla la nozione stessa di creazione introducendo il dadaismo che eleva, paradossalmente, l’assenza di tecnica a tecnica, il ricorso al caso a sistema. Serietà, gusto e ragione sono stati oltrepassati perché si è intuito che ogni gusto, ogni ragione fondavano un obbligo, una necessità, dunque un canone condizionante. Art Brut, Op Art, Pop art, Le Nouveau Realisme hanno continuato a trasgredire l’imperativo della competenza tecnica, dell’impatto emozionale, della personalizzazione dell’opera. Si è anche trasgredito il nuovo imperativo della trasgressione.

L’avanguardia contemporanea ha ancora molto a che fare con gli imperativi trasgressivi. Support surface, iperrealismo, arte povera, happenings, land Art, body art, performances, installazioni, sfuggono agli imperativi della perennità e dell’esponibilità museale: si potrebbe andare all’infinito. Ma questo rincorrere la negazione si rivelerebbe un gioco follemente nichilistico ed autodistruttivo se non ci fosse un crescendo della preoccupazione ermeneutica tesa a ripristinare una operazione di senso. Il vuoto creato dallo scarto crescente tra gli oggetti del mondo comune e gli oggetti artistici, la distanza tra artisti e gente comune postula la necessità di un riempimento, di un allargamento delle frontiere. Reintrodurre il senso, i valori dell’arte, offrire criteri di riconoscimento dove questo è stato precluso, rivestire il re che ha scoperto i suoi abiti inesistenti. Come? Con l’architettura che fornisce involucri di qualità all’effimero proponendoci contenitori raffinati di eventi artistici, e con le parole scambiate dai visitatori fino agli innumerevoli testi stampati su cataloghi, nei prospetti, nelle riviste specializzate.

Sicchè l’inflazione linguistica attorno all’arte contemporanea testimonia da sola la deflazione assiologica delle opere che ne costituiscono l’intenzione. E se il vuoto è generatore di glossa, questa non può ridursi ad un riempimento colto. Per adeguare lo scarto tra i mondi del non senso e del senso, per riportare alla ribalta l’anima del mondo ed estendere la realtà psichica dal soggetto all’oggetto, alla realtà delle cose e degli eventi del mondo, non è sufficiente una glossa colta che giustifichi i nuovi confini dell’arte. Anzi, essa rafforzerebbe il processo di distanziamento ed astrazione del prodotto artistico. L’arte è vita, ed è vita quando provoca una risposta estetica al mondo e quindi mette a freno l’imperialismo dell’Ego che tende a trasformare la realtà nelle proprie aspettative certificate da una cultura globalizzante, dunque disumanizzante. Per affinare la percezione dell’arte contemporanea in questa rincorsa, per abituare alla consuetudine, ad una consapevolezza critica, il cibo può avere un ruolo suggestivo. Il cibo può essere lo strumento per avvicinare il maggior numero possibile di persone all’arte che esclude il pubblico dei non addetti in due modi: uno diretto ed un altro indiretto.

Basti ricordare l’arazzo di Bayeux capolavoro unico al mondo, documento storico artistico realizzato nel XI secolo, commissionato ad artigiani anglo-sassoni da Odon di Conteville, vescovo di Bayeux, fratellastro di Guglielmo il Bastardo, per celebrare la conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni. Su 70 metri di lunghezza e 50 centimetri di altezza di una tela di lino ricamata con lane di diversi colori sono rappresentate immagini di banchetti luculliani. Carbonade de beuf à la flammade, che si otteneva rosolando in una grande padella di ferro sul braciere, cipolle tagliate su cui venivano accomodati e fatti arrostire bocconi infarinati di manzo annaffiati da vino “fatto”, ottenuto riscaldando sul fuoco vivace vino rosso corposo insieme a cannella, bacche di ginepro e chiodi di garofano, versato in cocci di terracotta con piccoli pezzi di mela dolce. Annibale Carracci con il “Mangiatore di fagioli”, Vicenzo Campi con “I mangiatori di ricotta”, dove è espressa la mediocrità di un approccio al cibo superficiale ed irriverente. Non a caso nella sua Fisiologia del gusto Brillat–Savarin, gastronomo “filosofico” francese dell’ottocento sottolineava i poteri meditativi del bere e del mangiare e dunque quanto potrebbe essere “nutriente” non solo per il corpo ma anche per lo spirito instaurare un rapporto passionale e sensorialmente consapevole con l’atto del cibarsi.

Una consapevolezza che traspare in “Petit dejeuner” di Claude Monet e nel “ Il “buffet” di Paul Cezanne, nelle “ Torte diverse” di Wayne Thiebaud e in “The Big Candy” di Franco Assetto. L’intimità tra corpo e cibo si completa in Giuseppe Arcimboldi, quel pittore del cinquecento che componeva i suoi ritratti ritraendo i lineamenti dei volti mediante accostamenti di cibi vari. Frutti, verdure e pesci, disposti in maniera originale e fantasiosa, appaiono sulle sue tele come nasi, labbra e occhi. In Daniel Spoerri che aveva fatto con i resti dei suoi piatti l’oggetto delle sue opere. La tavola così come si presentava alla fine di una cena tra amici veniva trasformata in quadro. Piatti sporchi posate, bicchieri, bottiglie vuote, croste di pane, il portacenere pieno di mozziconi: tutto veniva incollato sulla tovaglia esattamente come era stato lasciato alla fine del pasto e il tavolo privato della gambe veniva appeso alla parete ed il tempo fermato in un momento di comunione e familiarità tra persone. In Rirkrit Tiravanija il rafforzamento del rapporto tra pubblico ed opera d’arte attraverso il cibo diventa più radicale. I suoi lavori consistono in installazioni in cui egli letteralmente prepara da mangiare e successivamente distribuisce ai presenti riso e spaghetti orientali.

L’intento di Tiravanija è quello di promuovere l’autentica partecipazione del pubblico inteso non solo come spettatore. Infatti secondo questo artista il pubblico deve essere inteso come elemento vitale dell’opera, una sorta di scultura vivente.

In una città come Taranto in cui l’Anima del mondo si è momentaneamente eclissata, dove l’incalzare dei bisogni quotidiani è diventato il substrato del sentire e del pensare e quindi una risposta estetica alle cose ed all’arte non è il problema dominante, occorreva questa raffinata iniziativa di “CasaRita” che riannoda tra il cibo e l’arte le fila di un rapporto diverso da quello, pure suggestivo, descritto nelle note precedenti. Qui il pubblico non gode il piacere estetico del cibo attraverso quadri che lo fondono direttamente con l’arte, non diventa protagonista diretto ed inconsapevole di performances guidate da altri, non si improvvisa estemporaneo esegeta di rappresentazioni che lo trovano e lasciano a secco di sensuosità artistiche interiorizzate e di percezioni elaborate. CasaRita fa di più. Sollecita una coscienza identitaria nel cliente una consapevolezza del gusto.

Qui, a CasaRita, non ci si confronta ciecamente con ciò che si mangia e che si acquista affidandosi a consolidate e nocive consuetudini della civiltà dei fast food. Qui il cliente trova delle articolate corrispondenze con se stesso in prodotti che egli compara con una rinnovata coscienza della sua individualità di gusto. Introducendo in questo contesto di consapevolezza eventi artistici di spessore che trovano asilo in una coscienza ritrovata in una abitudine ad interpellare se stessi. Infatti i prodotti di questo rivoluzionario Show Food sono narrati attraverso l’indicazione puntuale del luogo di provenienza e che non trascura la descrizione delle connesse garanzie eziologiche dei prodotti. La preoccupazione di questo particolare luogo di ristoro, quello di rapportarsi all’identità gustativa del pubblico, arriva a preoccuparsi a chi presenta intolleranze alimentari per riattivare anche in questi ambiti angusti piaceri forti, desideri rimossi, piacevolezze insospettate. E per rendere più intimo e personale il rapporto con i prodotti offerti, CasaRita accontenta anche le richieste inconsce della ragione applicando sui prodotti etichette che descrivono con cura certosina gli ingredienti e la loro modalità combinatoria nonché i modi e le procedure della loro conservazione. Una identità a tutto campo.

Non a caso la mostra di Ezia Mitolo che questo promettente show food ospita, in occasione della sua inaugurazione, è un riuscito tentativo di questa artista di riproporci il problema dell’identità e quello del corpo. Questo problema può essere affrontato in vari modi ma si riduce sempre ad un tentativo di colloquiare con la propria Ombra, con la parte inconsapevole di sè che bussa alla porta della coscienza per riconquistare un proprio ruolo nella consapevolezza del soggetto. E mentre Casa Rita cerca di riannodare i fili di questa consapevolezza con la narrazione delle eziologie culinarie che essa propone, Ezia Mitolo si affida alle emersioni di un simbolismo raffinato. Rendendo parlante il suo corpo con la proiezione di simulacri in cui si addensano quelle irrisolte problematiche esistenziali, che sono il materiale privilegiato su cui galleggia l’attenzione di ogni artista poeta, narratore, pittore, scultore che sia e che non ha dimenticato che è l’oblio del fondo mitico della mente a costituire l’essenza del conflitto che affligge la coscienza della contemporaneità. Ezia Mitolo sa bene che l’ambivalenza del corpo, con cui si esprimeva nelle società arcaiche e l’equivalenza a cui è stato ridotto nelle nostre società dai codici che le governano e dal corredo delle loro iscrizioni, ce lo rende estraneo.

Sommerso com’è dai segni con cui la scienza, l’economia, la religione, la psicoanalisi, la sociologia l’hanno di volta in volta connotato ha subito delle moltiplicazioni alienanti. E che esistono tanti corpi quanti sono i referenti esterni a cui ogni corpo è obbligato a conformarsi: in ossequio alla logica ed alla struttura dei vari saperi, come organismo da sanare, come forza-lavoro da impiegare, come carne da redimere, come inconscio da liberare, come supporto di segni da trasmettere. Ezia Mitolo cerca di recuperare la sua ambivalenza che incurante del principio di identità e differenza con ogni codice, esprime la sua peculiarità ambivalente, dice di essere questo ma anche quello. Le opere di Ezia Mitolo che vanno da installazioni-sculture a installazioni – disegni a documentazioni fotostatiche e video-performances ovvero performances dal vivo, hanno, dunque, come comune denominatore l’esigenza di accordarsi con la sua Ombra che giace imprigionata nel suo corpo intonando variegati peana ai suggerimenti espressivi di quest’ultimo. Un peana alla sua bocca, un accesso cosmico, il luogo di transito dell’interiorità nell’esteriorità e viceversa, ad una vita che lascia tracce emozionali su spiegazzamenti pulsanti di cuscini ricolmi di pathos.

Al suo volto che sapientemente deformato ed affilato tenta di assestare un fendente alla realtà trapassandola con un sibilo loquace per riannodare le fila di un dialogo interrotto fra l’adulto che si adatta al mondo e il bambino che continua ad urlare il suo dolore e il suo disorientamento. Le urne –sarcofaghi luoghi del dissolvimento del corpo ma anche involucri della sua resurrezione come quelli egiziani che transitavano i defunti nel futuro di una vita più intensa e vitale. Le sue ossa perdono il sapore cadaverico per diventare, nelle pieghe di una carne equivoca, nelle sinuosità di anfratti corporei sapientemente costruiti, messaggeri di eros, grifi sibilanti. Nei nidi vita e morte si rincorrono. Il bianco della morte ed il pene onnipresente della vita. Insomma Ezia Mitolo è alla ricerca del Logos nella psiche, quel logos intriso di pathos che non si compie nella sola dimensione orizzontale della vita ma in quella verticale e per questo reca in sè l’azzardo del volo e la pena dello sprofondamento. Un azzardo che Ezia Mitolo mette a segno in quelle teche senza vetro riempite di materia lanosa, una sorta di metafora pubica. Non a caso, il latino pubes significa “lanugine”, “peluria”.

Significato che l’artista ribadisce con protuberanze falliche che evocano il mito priapico. Al fondo di questo eros problematico scopriamo un cuore fitto di rotaie, tracce sofferte per arrivare ad una autenticità in agguato ed il suo battito più intimo e più vero. Le cui tracce demoniche si vestono di verde rosso, rosa e bianco, in pellicole in cui occhi naso e bocca contengono nelle loro deformazioni la spinta ad una rappresentazione tragica della vita. In “Adesso sciogliti” lo sforzo a connettersi con la propria ombra raggiunge l’acme problematico. Infatti da una scultura gocciola acido che dissolve l’immagine fotografica dell’artista icona delle certezze fornite dalla mente ed i suoi affascinanti atletismi, la chiusura sintattica del suo linguaggio. I grifi sono bozzoli che invece di accettare le loro trasformazioni ed abbandonarsi ad esse hanno una loro vita, un proprium esistenziale: in una via di mezzo che tenta di emanciparsi dalla trasformazione restando sospesi nella ambiguità.

Tanto che l’artista tenta con essi una respirazione bocca a bocca per garantirne la sopravvivenza nel loro stato. Questa tendenza a fissare l’esistenza in zone ambigue per attendere l’emersione della coscienza Ezia Mitolo la manifesta nei calchi di gesso del suo busto. L’esigenza di questa resurrezione si affaccia nella sua bocca inerte ed scorniciata dal corpo, in cui affiora l’ossessivo bisogno di un intimo rapporto con il logos pluristratificato dell’anima dimenticata dalla mente razionale, dietro di sé, come una casa vuota e pericolosamente in rovina. Un logos alla ricerca di una rimossa totalità psichica, prende forma in sette corpi provenienti da altri mondi che vogliono essere accolti e riconosciuti. Materia archetipica e mitica. Altri messaggeri dell’Ombra sono le urne che si manifestano come entità appartenenti a mondi di un’altra dimensione. Urne in processione dirette verso la luce della consapevolezza e della resurrezione.

L’esaltazione del processo misterioso di incubazione e di rinascita, il desiderio di innestare l’anima nel mondo letteralizzato delle cose risplende in quelle foto che ci narrano l’attività dell’artista che sta murando delle uova per rendere viva e vitale quella casa. Questo proposito di estendere con un Logos rinnovato i confini del corpo viene essenzializzato ed esaltato nelle “Nutrici”. In queste sculture il corpo si riduce ad una sfera che riassume tutte le sue ambivalenze espresse da una bocca carnosa che diventa la metafora del dialogo dell’uomo con il suo “oltre”. Un “oltre” che deve essere ritrovato all’interno di una cifra esistenziale che ha bisogno di calore ed incubazione.

Questo processo ritrova la sua metafora in bozzoli ovoidali, dove l’epistrofè dell’esistenza, di ogni esistenza, deve essere coltivata, riattivata, formalizzata prima di diventare il luogo di ricongiungimento con il Sé che ci domina inconsapevolmente con il suo fondo mitico ed archetipico. Per giungere a quella performance in cui l’artista si dona ad uno specchio puntato al centro delle sue gambe in una sorta di rituale in cui Eros, demone mediatore, è intravisto, censurato ma desiderato ed esaltato con il pudore di una mano premuta sulla bocca che forse mette il silenziatore ad un urlo di sorpresa e stupore per aver osato spingersi lì dove sentiamo risuonare le parole del poeta. “L’eros è il luogo in cui Satana lotta con Dio, ed il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. Ed il cuore è il motore estetico del corpo, come ci raccomandava Marsilio Ficino!

Casarita Show Food
via Berardi, 81/83 - Taranto

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Lavinia
dal 11/3/2010 al 19/4/2010

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