Palazzo Bricherasio
Torino
via Teofilo Rossi (angolo via Lagrange)
011 5711811 FAX 011 5711850
WEB
Juventus
dal 25/10/2007 al 1/12/2007
Lunedi' 14.30-19.30; martedi' - domenica 9.30-19.30, giovedi' e sabato fino alle 22.30

Segnalato da

Paola Varallo




 
calendario eventi  :: 




25/10/2007

Juventus

Palazzo Bricherasio, Torino

110 anni ad opera d'arte. L'esposizione, curata da Luca Beatrice e organizzata in collaborazione con la Juventus Football Club, attraversa 110 anni di storia per mezzo di molte opere d'arte accostate a figure simbolo, cimeli e trofei particolarmente significativi nella costruzione dell'immaginario bianconero. L'iniziativa propone una lettura complessa e articolata del fenomeno Juventus secondo punti di vista trasversali.


comunicato stampa

110 anni ad opera d'arte

a cura di Luca Beatrice

In occasione del 110mo compleanno della Juventus, la Fondazione Palazzo Bricherasio ospita nelle Sale Storiche del Palazzo, la mostra “JUVENTUS. 110 ANNI A OPERA D’ARTE”.

L’esposizione, curata da Luca Beatrice e organizzata in collaborazione con la Juventus Football Club e grazie al contributo di Alfa Romeo e AirOne, attraverserà 110 anni di storia per mezzo di opere d’arte vere e proprie, accostate a figure simbolo, cimeli e trofei particolarmente significativi nella costruzione dell’”immaginario Juve” e si articolerà nelle cinque Sale Storiche di Palazzo Bricherasio e nella saletta adiacente ad esse.

Ogni sala sarà dedicata ad un tema: “Classe, estro e fantasia” in cui le opere di Lucio Fontana, Kleine, Pinturicchio, saranno accostate a filmati di Boniperti, Sivori, Platini, Zidane, Del Piero, anche essi “artisti” sedotti dalla bellezza e dal gesto tecnico e passati alla storia per la loro classe; l’agonismo del calcio diventa un paradigma visivo nella sala dedicata a “I gladiatori”, dove affiorerà il confronto tra l’omonimo tema di de Chirico o le possenti figure di Sironi e le immagini di Benetti, Tardelli, Cuccureddu, Boniek, Davids o Nedved, giocatori che hanno esaltato il senso della lotta fisica, dell’agonismo comportamentale. La terza sala – “Estetica del bianco e nero” – sarà la testimonianza, nella storia della Juventus, di uno stile che passa dall’avvocato Agnelli a Boniperti fino a Chiusano, sottolineato dalle opere di Clemente, Michael Scott, Mario Consiglio e Andy Warhol.

E ancora “Torino siamo noi” con i quadri di Paulucci, Casorati, Ruggeri, fino ai tempi moderni rappresentati da Mondino, Salvo, Daniele Galliano: grandi artisti tutti rigorosamente juventini. Una passeggiata in centodieci anni di storia di Torino attraverso l’arte, la cultura e naturalmente il pallone, che si ritrova nei filmati selezionati dalla redazione di Juventus Channel. In ultimo la sala dedicata ai “Trofei”, dove saranno esposte, direttamente dalla sede della Juventus, le coppe più rappresentative vinte in Italia e nel mondo. Infine maglie e altre testimonianze di incontri fondamentali, cimeli, pagine de “La Stampa” dedicate ai successi bianconeri nella sezione intitolata “L’Appartenenza. Le belle bandiere”. Inoltre la suggestiva installazione di Marco Lodola trasformerà la facciata di Palazzo Bricherasio in una sorta di campo da calcio, con le silhouette luminose di undici giocatori in maglia bianconera.

Un’esposizione quindi che propone una lettura complessa e articolata del fenomeno Juventus secondo punti di vista trasversali: una storia in bianco e nero tendente al bello, alla sintesi di bello e buono, che secondo la concezione ellenistica rappresentava l’equilibrio ideale dei valori fondamentali nello sport.

L’intero incasso della mostra sarà devoluto alla Fondazione Crescere insieme al Sant’Anna ONLUS

La vita è a colori, ma il bianco e nero è più realista.
Luca Beatrice

Raccontare una squadra di calcio attraverso la cultura, qualcosa che rimanga nella memoria personale e collettiva oltre la consumazione dell’evento, aldilà dello spazio e del tempo. Così lo sport può diventare leggenda. Un mito trasposto nelle pagine di diversi scrittori –da Osvaldo Soriano a Manuel Vasquez Montalbàn, da Nick Hornby a Colin Shindler, da Tim Parks a Pippo Russo (giusto per citarne alcuni) e nelle note di quei musicisti cimentatisi con gli inni (ahimé, in Italia il più bello resta pur sempre quello di Antonello Venditti composto per la Roma). Più frequentemente il calcio è stato oggetto di rappresentazioni teatrali e cinematografiche, tanto che il film sul pallone è diventato un vero e proprio sottogenere della commedia all’italiana (Gli eroi della domenica, Mario Camerini, 1952, Il presidente del Borgorosso FC, Luigi Filippo D’Amico, 1970, L’arbitro, sempre D’Amico, 1974, Eccezziunale…veramente, Carlo Vanzina, 1982, L’allenatore nel pallone, Sergio Martino, 1984) salvo sfiorare autori sensibili come Pupi Avati (Ultimo minuto, 1987) e Andrea Barzini (Italia-Germania 4-3, 1990).

Più difficile con l’arte, poiché raramente l’immagine statica può rappresentare il senso compiuto di un’azione dinamica. Nel XX secolo alcuni grandi autori si sono cimentati nel loro omaggio al gioco del calcio: durante il Futurismo, tra gli altri, Enrico Prampolini, Fortunato Depero, Carlo Carrà, Gerardo Dottori, nella Scuola Romana degli anni Venti Alberto Ziveri ed Ezio Sclavi (che giocò qualche partita da portiere della Lazio), quindi negli anni Quaranta il più importante pittore realista Renato Guttuso. Nicolas De Stael realizzò all’inizio degli anni Cinquanta una serie di quadri in cui studiava i movimenti degli atleti, tra figurazione e astrazione. Ad Alberto Burri, tifoso del Perugia e simpatizzante juventino, venne commissionato il manifesto ufficiale di Italia ’90.

La ragione di questa mostra, Juventus. 110 anni a opera d’arte, è però un’altra. Festeggiare il compleanno della più amata e titolata società italiana di calcio attraverso le opere d’arte, cercando eventuali similitudini tra un gol e una pennellata, tuffandoci nelle suggestioni che allo stesso modo proviamo ammirando un dribbling in campo o un capolavoro in un museo, lasciandoci andare tra le sensazioni di piacere estatico, rapiti dalla bellezza di un dipinto o di una scultura ma anche di una discesa sul fondo, di un tackle, di una veronica, di una parata impossibile.

Una parola unisce perfettamente due mondi distanti solo in apparenza. Empatia. In origine, la capacità di comprendere cosa un’altra persona sta provando, il termine viene usato nel teatro greco per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che lega l’autore-cantore e il suo pubblico; allo stesso modo, un feeling che si ricrea a ogni partita tra gli attori in campo e la spinta che proviene dagli spalti. Si deve al filosofo inglese Robert Vischer il significato specifico di “simpatia estetica”, ovvero il sentimento sfuggente che si prova di fronte a un’opera d’arte. Non tutti possono dirsi artisti ma parlandone o scrivendone la si può raccontare a molti. Allo stesso modo, se pochi diventeranno campioni, molti potranno condividere la passione, il tifo, per lo sport. Nelle scienze umane empatia è lo sforzo di comprensione intellettuale dell’altro, l’attitudine a essere disponibile, concentrandoci sulla comprensione dei sentimenti senza per forza analizzare la ragione di un comportamento. Se si amano le stesse cose, se si gioisce e si soffre per lo stesso motivo sarà più facile ridurre le distanze tra sé e gli altri. Anche quando chiama in causa atteggiamenti non del tutto razionali.

Chi cercasse qui una ricostruzione filologica dei cento e dieci anni di storia juventina, forse potrebbe rimanere deluso. Inutile scovare mancanze, omissioni, giudicare il merito delle scelte. Meglio, molto meglio, invece, rintracciare le similitudini, i contrasti, i paragoni talora azzardati tra imprese in bianconero e capolavori dell’arte. Questa falsariga è la chiave di lettura della mostra. Un gustoso antipasto di quel “museo permanente” dove sia l’arte sia la Juventus si stagliano come valori assoluti nella storia del Novecento e di questo breve tratto di Terzo Millennio dove già molto è accaduto. Tra passato, presente e futuro. Oltre il tempo, a eterna memoria.

Classe, estro, fantasia

La più grande rottura, il gesto definitivo e irreversibile, nella storia dell’arte contemporanea italiana, lo si deve a Lucio Fontana. Nato a Rosario de Santa Fé (Argentina) nel 1899, Fontana fu il primo “oriundo” a ottenere affermazione e successo nel nostro Paese. Dall’invenzione dello Spazialismo (1948) la pittura non sarà più la stessa: prima il buco poi il taglio spiegano il desiderio di voler vedere, di andare oltre, abbandonando la superficie bidimensionale in direzione del “Concetto”. Uomo raffinatissimo, esperto in veroniche e repentini cambi di marcia, Fontana rappesenta nell’arte ciò che Omar Sivori è nel calcio: l’ingresso nella contemporaneità. Pur avendo entrambi piena consapevolezza del proprio ruolo, lo eseguivano in punta di piedi, saltellando sul velluto, tagliando o dribblando. E tutti dovettero riconoscerne il talento.

C’è invece uno scultore italiano che ha percorso esattamente il cammino inverso. Antonio Trotta, nato in Cilento, ha vissuto a lungo e studiato in Argentina. Il suo background è dunque sudamericano, così come i ricordi d’infanzia legati alla visione, per lui estatica, del Cabezon. Aire de Buenos Ayres, la lapide marmorea realizzata nel 1995, suona letteralmente (infatti è un’opera piena di voci) come un monumento alla Tanghedia, omaggio nostalgico alla classe d’antant, a quel po’ di antico che permane imprevedibile e fuori tempo nel calcio muscolare e atletico di oggi. Lo penso come un omaggio a Mauro German Camoranesi, ai suoi calzettoni abbassati, alla maglia ribelle all’elastico dei calzoncini, ai capelli al vento. Ovvero, la continuità nella differenza.

Prima c’è il nulla, poi c’è un nulla profondo, infine una profondità blu.

Almeno quanto Fontana e Piero Manzoni, Yves Klein è considerato uno degli artisti più estremi del secondo Novecento. La sua ricerca, interrotta da una fine prematura a soli trentasette anni (nel 1962), andava verso il vuoto, in netto anticipo rispetto alle esperienze concettuali. Tutti ricordano il suo “monochrome bleu”, il celebre e irriproducibile IKB, ma c’è un altro Klein, ironico, leggero, decadente, un dandy che si aggira per l’Europa consapevole che il “vivre (et mourir) d’artiste” è importante come (se non più) dell’arte stessa. Praticava lo judo, disciplina sportiva che imparò in Giappone all’inizio degli anni ’50 e che insegnò a Madrid e in seguito anche a Parigi. E resterebbero tante cose da dire sull’insistita ricerca di suggestione che anima altra parte della sua opera e, infine e soprattutto, del fascino nei confronti del vuoto, dello sconosciuto e quindi della morte, sintetizzate in una sola immagine, la fotografia Saute dans la vide, dove sta in bilico, pronto a spiccare il volo, verso dove non si sa.

Un blu simile torna, non è un caso, sull’altra maglietta (quella della loro nazionale) indossata da Michel Platini e Zinedine Zidane. Capolavori di classe immensa, certamente i più grandi creativi del pallone apparsi davanti ai miei occhi. Le Roi Michel è stato un’opera d’arte, non c’è bisogno di spiegare perché. Zizou lo è diventato davvero, protagonista del film d’artista Zidane. Un ritratto del XXI secolo diretto da Philippe Parreno e Douglas Gordon, esposto nei principali musei del mondo.

Si chiamava Bernardino di Betto il pittore nato a Perugia nel 1454 e scomparso a Siena nel 1513, conosciuto ai più come Pinturicchio. Allievo del Perugino, con lui impegnato agli affreschi della Sistina, realizzò il suo capolavoro alla Biblioteca Piccolomini nel Duomo di Siena, dove si possono apprezzare le variazioni di registro stilistico, il talento compositivo, l’estro visionario. Un artista oggi considerato tra i maestri nel passaggio tra fine Rinascimento e inizio Manierismo, il suo nome è stato accostato, come tutti sanno, alle gesta pedatorie di Alessandro Del Piero dall’Avvocato Agnelli, uno che di arte se ne intendeva e che non sarebbe mai scivolato sulla scelta banale di un nome troppo popolare e inflazionato. Un paragone che regge soprattutto per gli esperti (soprattutto chi capisce di calcio raramente ha messo in discussione il nostro Alex). Per ciò che riguarda Pinturicchio, che di maestro assoluto si tratti è visibile nell’opera qui esposta, il Bambin Gesù delle mani (datazione 1492-93, attribuzione definitiva del 1912, di proprietà della Fondazione Guglielmo Giordano con sede a Villa Spinola nei dintorni di Perugia), dipinto murale staccato a massello e inserito in una cornice di legno del XVII secolo.

Gladiatori

Indiscutibile la bellezza del tocco di classe, della fantasia al potere. Altrettanto, se non più esaltante, quella dello sforzo, dell’agonismo comportamentale, del temperamento mai domo. Nell’antichità l’atleta più vicino agli dei risultava quello capace di lottare, di soffrire, di farcela ad ogni costo. I cento e dieci anni di storia della Juventus sono punteggati da campioni di questa specie. Campioni del tackle, del contrasto, del corpo a corpo, dell’inseguimento, della difesa, ma anche del gol di forza. Per ogni fine dicitore servono infatti diversi polmoni, gente che si esalta nella lotta, che si identifica nella maglia e che i tifosi amano in maniera viscerale. Furino e Charles, Parola e Davids, Ravanelli e Iaquinta, Gentile e Vialli, Tardelli e Benetti, Torricelli e Di Livio. E quanti altri, ancora…

L’arte moderna ha più volte trattato il tema della sfida e del combattimento rifacendosi, talora con evidenti citazioni, alla memoria dell’antico, andando a ripescare le radici dello spirito olimpico. Durante i primi decenni del secolo XX, nel momento di massimo fulgore delle avanguardie e della sperimentazione, c’è chi, maliziosamente, guarda alla tradizione e al classicismo, prova che il Novecento è l’epoca della coesistenza stilistica e culturale. Finita l’era metafisica, negli anni Venti Giorgio de Chirico spiazza i surrealisti francesi e gli alfieri della modernità in direzione del classicismo: soggetto privilegiato, quello dei Gladiatori, eroi senza tempo, enigmatici, inquietanti, la cui iconografia classicista è messa in discussione da tratti di evidente modernità. Ed è anche l’omaggio del Pictor Optimus alla Grecia, sua terra d’origine, e al mito su cui continuerà a riflettere nei decenni successivi.

Per Mario Sironi l’immagine del lottatore è indisslolubilmente legata all’enfasi del lavoro e dell’operosità, tratti distintivi dell’autore sardo durante il ventennio fascista. Dopo l’adesione al Novecento di Margherita Sarfatti, Sironi farà suo il motivo del primitivismo (ovvero l’interesse per la pittura pregiottesca in una visione deliberatamente antimoderna) che negli anni Trenta fiancheggerà la propaganda del regime nella scenografia e nella pittura muraria. Nonostante il pesante vincolo celebrativo, è indiscutibile il talento visionario sironiano, anche nelle opere più monumentali e retoriche.

Negli anni Sessanta e Settanta, da quando Body Art e Performance sono entrate a pieno titolo nelle forme d’arte più avanzate, la rappresentazione del corpo si è trasferita dall’immagine fissa a quella dinamica. La prova di resistenza diventa perciò una sfida per capire i propri limiti, il più delle volte forzandoli in maniera drammatica. In questo senso arte e sport dimostrano molti punti di contatto, fisici ed esistenziali. Tra i non numerosi pittori che ancora si misurano con questo tema, limitandosi a una mera azione rappresentativa, va segnalato il pittore-scultore genovese Alfonso Bonavita (poco pù che quarantenne), che lavora su volumi e forme senza identità precise, anime guerriere in un corpo di pietra. Immagini di grande temperamento gladiatorio.

Estetica del bianco e nero

L’unione di bianco e nero rappresenta il top dell’eleganza asciutta e minimale. Questione di stile, appunto, della sobrietà creativa che ha attraversato la storia visiva degli ultimi cent’anni. Nel segno del bianco e nero vanno interpretati il cinema delle origini e la fotografia del Novecento, le atmosfere brumose della Torino metafisica, il film noir americano, l’Optical Art e la London Swinging degli anni Sessanta, la Parigi di Simenon e Marcel Carné degli anni Trenta/Quaranta. A parziale conferma, Wim Wenders ne Lo stato delle cose faceva dire al vecchio regista Sam Fuller, attore nel suo film: “La vita è a colori, ma il bianco e nero è più realista”. Fin dalla sua fondazione la Juventus è stata depositaria di un’estetica assai particolare, in campo e fuori, capace di sintetizzare la componente artistocratica e quella elitaria, la nobilità con il popolare, il portamento signorile al sudore proletario.

E poi, a ben vedere, in diversi casi l’undici bianconero dimostra palesi coincidenze con gli accadimenti del tempo: non è stata forse beat, imprevedibile e senza leader la Juve di Heriberto Herrera, vittoriosa nel 1967, quasi un anticipo estetico del ’68? E l’italianissima e muscolare compagine del Trap, vittoriosa a Bilbao nel 1977, una Juventus resistente e tenace, come era necessario in quegli anni tragici? Oppure, lo straordinario gruppo di fenomeni messo insieme dopo i mondiali del 1982, sulla strada della globalizzazione e del superamento delle frontiere, che prese il via proprio negli anni Ottanta?

Testimonial di stile inimitabile è stato soprattutto l’Avvocato Agnelli, tanto originale da risultare irripetibile. Ma l’estetica in bianco e nero è altresì riconoscibile nel temperamento di Giampiero Boniperti e nella sobria pacatezza di Vittorio Chiusano, tra i numerosi intellettuali-tifosi e nella bellezza delle tre Miss Italia bianconere, Cristina Chiabotto, Edelfa Masciotta, Chiara Andreatti.

Divi del cinema, rock star, potenti del mondo, guru dell’economia e della finanza, protagonisti del social life e dell’underground: Andy Warhol, il re della Pop Art, ha ritratto il “who is who” del jet set internazionale. La sua galleria di personaggi è l’esatto specchio della cultura e della società dagli anni Sessanta agli Ottanta. Nel 1972 Warhol reallizza un intenso ritratto di Gianni Agnelli (all’epoca aveva cinquant’anni) cogliendone in pieno lo spirito nobile e trasgressivo, un Avvocato oltre la veste professionale, capace di emanare quel fascino particolarissimo che lo ha reso celebre in tutto il mondo, testimonial d’eccezione dell’Italian Style. Rispetto a diverse celebrities che Warhol ha immortalato in giacca e cravatta, con il loro abito migliore, metafora del loro potere, Agnelli connota il proprio understatement snob e ricercato: una dolce vita nera, non guarda “in macchina”, una sigaretta gli pende dalle labbra.

Di pochi anni successiva (1978) è l’opera di Mimmo Paladino dal titolo Pieno di neve, pieno di stelle, che del bianco e nero riprende il simbolo per eccellenza, ovvero la zebra. Un dipinto molto bello, un cielo stellato che quasi evoca un destino di vittorie, realizzato dall’artista campano ancor prima della fondazione della Transavanguardia. Completano la sala due lavori “astratti”. Il primo un abbacinante “black and white” dell’americano Michael Scott, in pieno Optical Revival, difficile persino sostenerne la visione dopo alcuni secondi. Il secondo un Target del perugino Mario Consiglio, ovvero il bersaglio, lo scopo, la mission. La tecnica adoperata è un mix di vernici fluo e materiali catarifrangenti.

Torino siamo noi

Un vecchio luogo comune vorrebbe la nostra squadra meno amata nella sua città, così come un’altrettanta abusata diceria coniuga il tremendismo atletico e agonistico all’altra squadra, carattere forse presente un tempo, non certo negli ultimi vent’anni, quando invece grinta e determinazione in campo, di non mollare, di giocarsela fino all’ultimo istante, sono tipici tratti della juventinità.

A Torino, invece, si respira Juventus un po’ dovunque: la panchina di corso Re Umberto, il Liceo d’Azeglio, le varie sedi (Galleria San Federico, piazza Crimea e ora corso Galileo Ferraris), gli stadi (da piazza d’Armi al Comunale, dal Campo Combi al Delle Alpi che in molti cominciamo a rimpiangere), e poi le strade, i quartieri, da Mirafiori alla collina, da San Paolo alla Crocetta, c’è tanta Juve nella storia della capitale sabauda, un percorso che attraversa, decennio dopo decennio, l’arte e la cultura del Novecento. In questa sala si raccontano alcune presenze artistiche cittadine fondamentali, cosa è cambiato negli stili pittorici e cosa invece permane della tradizione. A cominciare da Enrico Paulucci, appartenente al Gruppo dei Sei, che fu addirittura portiere della Juve nei primi anni ‘20, prima di appendere un po’ malinconicamente guanti e scarpette al chiodo, come testimonia l’Autoritratto giovanile dove riporta in calce la scritta “Paulucci 1919-20. Portiere Juve. Non sarà mai più così bello il gioco”. Di Paulucci è presente un’altra opera più matura, il Cappotto rosso del 1950, tipica scena d’interno: si fa subito notare la poltrona a righe bianconere.

Torinesissima è la classicità brumosa e malinconica di Felice Casorati, e del suo notturno del 1950, dove ammiriamo la simmetria di strade e quartieri visti dall’alto, cui fa da contraltare l’enfasi creativa e gestuale di Piero Ruggeri, esponente di punta del nostro Informale. Entriamo così in piena epoca contemporanea, con il Pop e la Nuova Figurazione. Qualche parola in più va spesa per Aldo Mondino, che era l’archetipo dell’artista juventino: dandy, bon vivant, raffinato, colto, ma soprattutto ironico, pungente, sarcastico e leggero. Amante del doppio senso, si divertiva a giocare con le parole (si veda il titolo dell’opera Food Ball, infatti il pallone è di zucchero!), collezionava autografi di scrittori e intellettuali (quello di Michel Platini va annoverato in tale categoria). Se ne è andato il 10 marzo 2005, la mattina dopo Juventus-Real Madrid. Si informò sul risultato, sorrise felice per la vittoria e si addormentò per sempre.

Due paesaggi contemporanei, infine: quello di Salvo, siciliano emigrato a Torino fin da bambino, protagonista della stagione pittorica dagli anni Ottanta in poi, è l’Autostrada A4 Torino-Milano con il Monviso sullo sfondo. Quello di Daniele Galliano è una sua tipica visione notturna, specchio dell’altra anima, nera e misteriosa, che pervade la nostra città e non poteva non avere come scenario le magiche rive del Po.

Trofei

Davanti ai trofei veri, tutti conquistati a testimonianza di imprese che il tempo non potrà mai scalfire, anche il potere naturalmente seduttivo dell’arte può entrare in “crisi di rappresentazione”. Di trofei la Juventus ne ha vinti tanti, anzi li ha vinti tutti, in ogni epoca, in Italia fin dal 1906, in Europa e nel mondo, conquistando tutte le coppe dal 1977 in poi. Alcuni di questi storici “cimeli” escono eccezionalmente dalle bacheche di corso Galileo Ferraris e approdano nelle sale barocche di Palazzo Bricherasio. Ad accettare un’altra sfida, altrettanto ardua, quella del museo.

Di vittorie e successi parla il dipinto di Francesco Clemente, eroe nomadico della pittura, protagonista della grande stagione artistica degli anni Ottanta: undici bianconeri come eroi-dei paradigmatici di un’impresa non scevra da misticismo, come è nello spirito dell’autore. Il torinese Nicola Bolla ha realizzato una nuova scultura a forma di pallone tempestata, come di consueto, da cristalli Swarowski. Sottotitolo dell’opera è Vanitas, che invita a riflettere sulla caducità delle cose del mondo. “Tutto è vanità e un inseguire il vento”, recita un verso dell’Ecclesiaste. Se tutto scorre, rimane l’eco delle imprese eroiche e della bellezza dell’arte. Sono cose che restano e non muoiono mai.

Appendice
110 e Lodola

“L’ispirazione di quest’opera viene dalla ricorrenza dei cento e dieci anni della Juventus e dal mio nome che ho associato alla laurea a pieni voti. I giocatori li ho immaginati sulla facciata del Palazzo Bricherasio come in un campo da gioco, tutti bianconeri luminosi e illuminati con i colori delle seconde maglie usate nella nostra storia”. Così Marco Lodola racconta la nascita dell’opera simbolo di Juventus. 110 anni a opera d’arte: un’installazione luminosa di straordinario impatto, un omaggio sentimentale declinato in un lavoro molto impegnativo e complesso. Due stili inconfondibili, il bianconero juventino, il techno pop di Lodola.
Pavese, classe 1955, Lodola è uno dei protagonisti dell’arte italiana fin dagli anni Ottanta, juventino di fede granitica, ha recentemente dichiarato di riconoscere tra i suoi maestri Balla, Matisse, Depero, Wahrol, Sivori, Platini e Del Piero “perché in ognuno di loro ho visto poesia e movimento, condizione fondamentale per attraversare l’esperienza della vita”.

Palazzo Bricherasio
via Teofilo Rossi (angolo via Lagrange) - Torino
Orari: Lunedì: 14.30 – 19.30; martedi-domenica: 9.30-19.30; giovedì e sabato fino alle 22.30
Biglietti: intero euro 3, ridotto euro 1

IN ARCHIVIO [76]
Carlo Zauli, scultore
dal 13/5/2011 al 27/6/2011

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