Fondazione Mudima
Milano
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Ugo La Pietra
dal 9/1/2008 al 7/2/2008
lunedi' - venerdi' 11-13 e 16-19,30, sabato e festivi chiuso

Segnalato da

Cristina Pariset




 
calendario eventi  :: 




9/1/2008

Ugo La Pietra

Fondazione Mudima, Milano

Dal minimo sperimentale simbolico alla nuova territorialita': 1962-2008. La mostra e' una raccolta di opere che raccontano cinquant'anni di attivita', attraverso diverse discipline e l'uso di differenti mezzi espressivi: dalla pittura al cinema, dalla fotografia alla performance, dall'oggetto all'installazione.


comunicato stampa

Ugo La Pietra, artista eclettico, ha attraversato con le sue ricerche, in cinquant’anni di attività, diverse discipline usando molti mezzi espressivi dalla pittura al cinema, dalla fotografia alla performance, dall’oggetto all’installazione.

La sua attività di pittore è già nota alla fine degli anni Cinquanta: nel 1962 è uno dei fondatori del Gruppo di pittori segnici “Il Cenobio” (con A. Ferrari, E. Sordini, A. Verga, A. Vermi). La sua ricerca segnica “per un minimo sperimentale simbolico” si svilupperà a metà degli anni Sessanta attraverso componenti di disturbo e di azzardo definite, da Gillo Dorfles nel 1964, “randomiche”.

Seguiranno esperienze più concettuali e di impegno etico e sociale, attraverso esplorazioni in territori urbani ed extraurbani sostenuti dalla teoria del “sisterma disequilibrante”. Un contributo originale che lo collocherà negli anni Sessanta tra i protagonisti dell’Architettura Radicale Europea.

Verso la fine degli anni Sessanta le opere di La Pietra si esprimono soprattutto attraverso collage e fotomontaggi, espressioni vicine alle esperienze dello stesso periodo della “narrative art”, a cui si aggiungeranno i films che per tutti gli anni Settanta e i primi anni Ottanta faranno parte del movimento “Cinema d’artista” teorizzato e divulgato da Vittorio Fagone.

«Nel lavoro di Ugo La Pietra l’analisi critica dei media, la verifica di un uso liberatorio e creativo degli spazi, la richiesta di una umanizzazione della città, si può dire sono sempre state tematiche ricorrenti e continue. La Pietra approda al cinema dopo un cammino ricco di positive esperienze, sempre ai margini di uno specifico confine disciplinare, anzi appostato sulle linee di interscambi vitali.» (Vittorio Fagone, 1975)

Con lo slogan “Abitare è essere ovunqua a casa propria”, La Pietra affronta temi legati all’uso dello spazio urbano, al rapporto tra spazio pubblico e spazio privato, mettendo a frutto tutte le sue esperienze di ricerca visiva. Oggetti, installazioni, video e films, troveranno la massima espressione nella Triennale del 1979 nella sezione “Spazio Reale Spazio Virtuale”, curata dallo stesso La Pietra.

«L’attività di La Pietra è connotata da una metodologia di riappropriazione il cui esercizio, più che direttamente partecipativo, nel caso per esempio di quella che si chiama correntemente “animazione”, è inteso ad intervenire, sia in senso progettuale, sia in senso analitico, entro il sociale e i suoi livelli di codificazione comunicativa con suggerimenti individuali di proposizioni o indicazioni disequilibranti.» (Enrico Crispolti, 1977)

Seguì negli anni Ottanta e Novanta una lunga stagione dedicata alle tematiche della “territorialità” in cui La Pietra proporrà spesso, attraverso il suo sensibile tratto, le conflittualità tra il genius loci e la globalizzazione, attraversando inoltre nei primi anni Novanta temi come “pulizia etnica”, “l’Europa unita”, per finire in una appassionata ricerca della “propria territorialità”.

Ha realizzato più di 900 mostre personali e collettive partecipando alla Biennale di Venezia nel 1970, 1978, 1980, alla Triennale di Milano nel 1968, 1972, 1979-80-81, 1993, 1996, 2007; ha esposto inoltre al Museo of Modern Art di New York, al Centro Pompidou di Parigi, al Museum of Contemporary Craft di New York, alla Galleria Palazzo Galvani di Bologna, alla Neue Galerie di Graz, a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, alla Fortezza da Basso a Firenze, alla Fondazione Ragghianti di Lucca, al Museé Departemental di Gap, al Museum Für Angewandre Kunst Colonia, al Museo Nordio Linz, al Museo della Permanente di Milano, al Royal College of Art di Londra, alla Biennale di Chaterauroux, alla Biennale di Albisola, alla mostra “Masterpieces” - Palazzo Bricherasio, Torino, alla Fondazione Umberto Mastroianni di Arpino (FR), allo Spazio Oberdan (Cineteca Italiana), al Museo di Villa Croce a Genova, alla Fortezza da Basso a Firenze, alla Fondazione Orestiadi di Gibellina.

Una testimonianza critica di Vittorio Fagone

Gli anni trascorsi dalla prima pubblicazione di questo testo su l’opera di Ugo La Pietra (Edizioni Mazzotta, 1994) non ne hanno, a mio avviso, esaurito pertinenza e validità. Al contrario, nel clima attuale di interesse verso le innovative sperimentazioni di arte, architettura, design, cinema d’artista e nuovi media realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta, possono acquistare un particolare interesse per la costante attenzione di chi qui scrive verso le non casuali progressioni dell’opera di Ugo La Pietra. Le dettagliate indicazioni che seguono vanno considerate note complementari a un testo che ritrova senso e significato nell’ampia e articolata mostra che la Fondazione Mudima dedica al produttivo e singolare quarantennio di attività creativa di Ugo La Pietra.

UGO LA PIETRA. DISEGNO, DESIGN E RIDISEGNO

Se si considerano gli anni Sessanta, certo tra i più creativi del XX secolo, oggi essi appaiono segnati nel mondo della cultura visuale (1'arte e l'architettura, il design e l'emergente contesto dei media tecnologici) da contrapposizioni che allora si definivano piuttosto che insanabili, "dialettiche". Da una parte risultava assai forte la pulsione verso una rigorosa e fredda concettualizzazione che privava l'oggetto d'ogni attributo decorativo, dall'altra sembrava non meno urgente la necessità di dare fisionomia a un nuovo orizzonte di immagini figurali, manifestazioni epifaniche dell'inedita dimensione del mondo della comunicazione affermata dai grandi media, tecnologici e non. Rispetto a queste due insovrapponibili prospettive Ugo La Pietra, che avvia il proprio lavoro creativo in quel periodo, riesce a muoversi senza inciampare in condizionamenti consumistici e paralizzanti limiti ideologici, spostandosi con sagacia da un campo all' altro di diverse discipline artistiche e progettuali, apprese in anni di continuo e fruttuoso esercizio, e scartando, ogni volta, le concettualizzazioni enfatiche o solo "a priori" a favore di una "messa in evidenza" della relazione tra materiali e oggetto, tra complessioni dei linguaggi e contesto antropologico.

E’ dagli anni Sessanta che Ugo La Pietra, artista, designer e architetto, esplora le mutazioni degli oggetti che segnano l'esistenza quotidiana, i comportamenti condizionati, le abitudini di percezione dello spazio costruito e di relazione, l'evoluzione incessante delle tecniche strumentali convenzionali e delle tecnologie dei nuovi linguaggi visuali. In un lavoro assiduo di prospezione immaginativa e critica, egli mette insieme complessi e ordinati inventari figurali dei modi di vivere più comuni ed emblematici, divisi per categorie di mode, consuetudini, minime mitologie domestiche.

Estraneo, per stile e convinzione intellettuale, al "fuor di sé" iracondo e presuntuoso delle avanguardie, Ugo La Pietra da sempre preferisce affidare il profilo di queste riconoscibili topografie a una struttura figurale nitida e veloce, in cui oggetti, prospettive, interni, paesaggi e figure si dispongono come in un film, cadenzato ma senza interruzioni. La chiave di questa inconfondibile scrittura figurale, quasi ideografica, è una ironia garbata e ridefinitoria: oltre il confine paralizzante delle abitudini e dei luoghi comuni irrinunciabili, è possibile e necessario costruire un "mondo nuovo". Esso ha bisogno comunque, per essere abitato, di una immaginazione ragionevole, prima che di proclami e gridate enunciazioni.

Nella corsiva scrittura per immagini sequenziali di cui si è detto, Ugo La Pietra ha registrato con costanza e naturalezza le diverse tappe di un itinerario che lo ha visto attraversare da posizioni non gregarie i territori della ricerca artistica visuale, dell' architettura radicale e del design postmoderno con riconoscibile coerenza e consapevolezza. Se la riflessiva scrittura per immagini sta alla base di ogni ricerca, come deposito o traccia ma anche slargo di immediate proiezioni progettuali quasi a contrappeso, nel lavoro di Ugo La Pietra c'è anche un' attitudine a utilizzare diversi strumenti, tecniche ed aree. di intervento secondo il principio di una decisa contestualità e pertinenza di linguaggi.

La sensibilità verso gli oggetti che nella vita quotidiana si rivelano suppellettili indispensabili e insieme fabbriche simboliche dove si addensano le memorie di una stratificata e sempre primaria cultura decorativa, anima un particolare "disegno" affabile nelle sue lineari e colorate produzioni. All' altro estremo, la curiosità verso i nuovi mezzi elettronici che invadono il nostro spazio domestico, spostando abitudini e percorsi di relazione, lo·sollecitano a studiare sia le nuove immagini immateriali caricate di una difensiva e comunicante ironia, sia i possibili nuovi assetti del tradizionale arredo borghese. Il vasto scenario operativo è unificato da una chiara "filosofia" che unisce veloci tracciati immaginativi di artista e calibrata progettazione di architetto e designer. Cardine di tale filosofia è una concezione dell'abitare che privilegia la capacità plastica di ogni uomo di dare fisionomia all' ambiente di vita secondo sentimenti, convinzioni individuali, necessità di esperienze personali al di fuori di impostazioni di gusto.

Da qui derivano due attitudini costanti nell' opera di Ugo La Pietra: un' attenzione ai modi dell' abitare segnati dalla presenza attiva del soggetto e una carica di colloquiale riconoscibilità e affabilità conferita a ciascun oggetto progettato. E’ per questa ragione che egli ha esplorato con assiduità le espressioni dirette della versatile cultura materiale non metropolitana e l'evoluzione interna dei repertori ornamentali come collegati a una necessità primaria di dare orientamento estetico e fisionomia allo spazio di vita. E’ chiaro che un tale convinto punto di vista sposta i parametri della pratica progettuale concepita spesso come regola astratta obbligata soprattutto a una interna incontrovertibile ragione estetica.

Da qui anche l'attenzione di osservatore partecipe verso gli sviluppi non convenzionali dell'architettura nelle sue dimensioni più dirette e minime, testimoniata dalle analisi minuziose che ha dedicato ancora di recente alle architetture e agli arredi balneari, paradisi per una sola stagione a tutti accessibili, obbligati a una felicità sociale e colorata. Nessuna intonazione nostalgica in questa operazione di intelligente recupero, ma una ironia soft e una capacità acuta di percezione delle brevi costanti di attivazione simbolica. Poi la capacità di spingere fino al presente più prossimo, sino al futuro ragionevolmente ipotizzabile, questo "paesaggio domestico" e di virarlo nella dimensione di una tecnologia tanto sofisticata quanto addomesticata, provocando ogni possibile e produttivo scarto di senso nei percorsi abituali del "pensare", "disegnare" un oggetto per la vita degli uomini, minimamente variabili nella dimensione sensibile e nei bisogni essenziali, ma inclini a moltiplicare per infinite varianti l'individuale scena esistenziale.

L’ITINERARIO CREATIVO DI UGO LA PIETRA

Perchè Milano?
Quando nell’autunno 1999 potevo presentare al Sogetsu Museum di Tokio la prima grande retrospettiva, realizzata oltre i confini del nostro paese, di Gianni Colombo, Hiroshi Teshigahara, originale cineasta sperimentale e caposcuola dell’antica arte giapponese dell’Ikebana, mi aveva chiesto di spiegare le ragioni che facevano di Milano una città privilegiata da molti artisti come sede di attività e sicuro punto di riferimento. Teshigahara - che avevo presentato a Milano nel 1995 per una grande esposizione al Palazzo Reale dove, nella vasta e suggestiva Sala delle Cariatidi, veniva costruita una serie di straordinarie e fascinose installazioni vegetali utilizzando le risorse offerte dal più classico dei materiali dell’arte orientale: il bamboo - aveva avuto modo di visitare a Bergamo la grande esposizione che la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea dell’ Accademia Carrara, di cui allora ero direttore, aveva dedicato ai fratelli Joe e Gianni Colombo. Come Theshigahara stesso spiegava presentando la mostra di Gianni Colombo a Tokio, l’aveva colpito profondamente l’energia, oltre che l’uso sapiente dei nuovi materiali e il coinvolgimento del pubblico che ogni opera dell’artista milanese provocava. Quello che scrivevo a proposito di Gianni Colombo sulle ragioni che agli inizi degli anni ’60 facevano di Milano una sede di lavoro ideale per chi fosse interessato in modo creativo o critico al mondo dell’arte, può ben valere per Ugo La Pietra e per chi qui scrive, entrambi decisi e impegnati in quel periodo a stabilire a Milano la sede, mai poi abbandonata, della propria attività.

Milano,l'arte e l'Europa
Quando il giovane pittore Paul Klee nell' aprile del 1914 torna dal pellegrinaggio che ha compiuto in Africa "verso il colore e la luce" ed è obbligato a fermarsi, per un cambio di treno, un paio d'ore nella stazione ferroviaria di Milano, dove può osservare l’andirivieni e i garbati comportamenti di molte persone, sente la necessità di annotare sul suo diario "certamente qui comincia l'Europa". Le slanciate e profonde arcate dove si allineano i binari gli appaiono come una vera e propria "porta dell'Occidente".

Negli stessi anni Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del futurismo, inneggia a Milano come autentica "caffeina d'Europa" per sottolinearne il fervore delle iniziative. Milano è "la citta che sale" del maestro dell'avanguardia Umberto Boccioni, centro dinamico delle più avanzate intraprese culturali e industriali.
Città operosa e ottimista, Milano ha conservato per tutto il ventesimo secolo questa attitudine fondamentale; a una ancora più decisa e aperta prospettiva europea essa affida oggi la propria capacità di iniziativa economica e il proprio incisivo ruolo culturale.

Non è certo per un caso che Milano è stata, negli anni Dieci, la città del futurismo, movimento che ha proposto una radicale modernizzazione di tutte le forme artistiche, e tra gli anni Venti e Trenta, capitale del razionalismo e dell'architettura moderna italiana. Nell'immediato dopoguerra essa è ancora la scena principale della grande "ricostruzione", una sede privilegiata per le manifestazioni della ricerca artistica internazionale.
Lo scambio tra industria, economia e cultura è senza dubbio uno dei tratti caratteristici di Milano: il design e la moda oggi ne costituiscono un' espressione universalmente riconosciuta. La trama che lega creatività artistica, progettualità e mondo produttivo è però più estesa e continua. Un diffuso collezionismo d'arte, la vicinanza non occasionale tra imprenditori, artisti e progettisti, la raffinata e trasmutante elaborazione di una fisionomia estetica del mondo delle produzioni industriali e delle piccole serie artigianali, è affidata a una cultura del design assai attiva e vivace. Il profilo originale e composito della cultura e dell'arte di questa città risulta in questo modo costituito.

Si è accennato a Milano come alla città del futurismo di Boccioni, ma anche di Carrà; bisogna ricordare che questa, nel clima internazionale del dopoguerra, è stata la sede naturale dello "spazialismo" innovatore di Lucio Fontana, delle proposte ridefinitorie di comportamenti artistici e di acute concettualizzazioni avanzate da Piero Manzoni e, a partire dagli anni Sessanta, delle rigorose scansioni percettive e delle ardite strutturazioni dello spazio ambientale di Gianni Colombo.

L'altra faccia di Milano
Da tutti gli studiosi di Leonardo da Vinci è registrato un dato sulla città di Milano che, a oltre cinquecento anni di distanza, conserva una sempre operante attualità. Leonardo, chiamato a Milano nell'estate del 1482 da Ludovico il Moro come ingegnere ducale per lavori di idraulica, di bonifica e di sistemazioni urbane di nuove architetture, come pittore riuscì a relizzare subito solo la prima versione della Vergine delle rocce mentre per dipingere quello che sarebbe stato uno dei suoi capolavori assoluti, autentico caposaldo della pittura occidentale, Il Cenacolo, dovette aspettare il 1495. Si sa che al Vasari che potè definire Il Cenacolo "cosa bellissima e meravigliosa" quel tempo di attesa non sembrò in una città come Milano in alcun modo giustificabile e che nei tre anni di realizzazione dell'opera Leonardo si scontrò spesso aspramente con gli stessi committenti che lo sollecitavano a fare presto. Milano stabiliva, allora come oggi, dei ruoli individuali di attività che non devono essere varcati. Ugo La Pietra artista, architetto, ceramista, cineasta autore di ardite prospezioni critiche sulla città di Milano, ha ogni volta dovuto faticare per affermare una più ampia libertà immaginativa. Questa mostra che documenta un quarantennio di attività di Ugo La Pietra ne illustra con efficacia ragioni e risultati caratterizzati sempre da una ben evidente consapevolezza creativa e critica.

La ricerca artistica a Milano negli anni Sessanta
Gli anni Sessanta a Milano registrano l’affermazione di una nuova generazione d'artisti in grado di affrontare un attivo confronto internazionale, dopo i decenni d'isolamento imposti o conseguenti al fascismo, oltre le infruttuose e insistite polemiche tra pittori realisti e pittori astratti degli anni dell'immediato dopoguerra. Della articolata e particolare topografia della ricerca artistica a Milano in quegli anni assume un rilievo particolare l‘attività della Galleria Cenobio di via San Carpoforo tra Brera e il Castello Sforzesco, nella quale opera con un suo singolare profilo Ugo La Pietra. Ne ricordo nitidamente una mostra del febbraio 1967 suggestiva e impregnata di una visione originale del clima non solo culturale ma anche ideologico di quel difficile momento. Sono in questo assolutamente d’accordo con Gillo Dorfles che da di questo lavoro una interpretazione che qui può bene essere ricordata per le connessioni con tutta la complessa opera dell’artista-architetto-designer: “Il La Pietra architetto, cineasta, designer, arredatore, non sarebbe concepibile senza il La Pietra pittore. Ma anche viceversa: la sua pittura acquista interesse e significato proprio per la presenza d’un così vasto e ricco sottosuolo di attività ideative di cui l'artista, da sempre, è interessato e partecipe (e forse non sarebbe neppure sbagliato accennare a una sua attività in un campo lontano da quello delle arti visive come quello musicale: il clarinetto, uno strumento tutt' altro che semplice di cui da molti anni il pittore-architetto è appassionato cultore).

Questo brevissimo preambolo soltanto per giustificare il fatto come, tanto nei disegni che nei dipinti, sia sempre possibile avvertire la presenza di alcune componenti che vanno dal semplice edonismo figurativo ai sempre frequenti riferimenti ambientali fino ad una impostazione che rivela la sua continua partecipazione alla conoscenza e critica della disciplina architettonica. Ma, se vogliamo soffermarci, ora, sull' opera, più decisamente pittorica non ci sarà difficile constatare come si possa grossomodo suddividere in cinque fondamentali raggruppamenti: 1) I disegni e dipinti degli anni Sessanta basati su minuti segni variegati e su preziose tessiture materiche appartenenti al periodo in cui l'artista partecipò al gruppo del ‘Cenobio’ (assieme a Sordini. Verga, Vermi, Ferrari) ricercando un "minimo sperimentale simbolico" e, successivamente, certe componenti segniche da me definite ‘randomiche’: di disturbo e di azzardo. 2) I collages e fotomontaggi (di cui è tipico esempio Recupero e reinvenzione, 1968-69) dove è già evidente la presenza di quelle preoccupazioni architettoniche-territoriali, in parte vicine alle tendenze coeve del concettualismo e della "narrative art". 3) Il periodo di cui La Pietra ebbe a dedicare particolarmente impegno alla creazione di filmati e video, spesso legati a implicazioni sociologiche, e di cui un' opera palesa è quella sua ‘massima’ divenuta poi paradigmatica Abitare è essere ovunque a casa propria (1972-79). 4) Un successivo periodo che vede La Pietra interessato soprattutto al recupero ambientale e al rapporto ‘interno/esterno’, vuoi attraverso progettazioni di design che attraverso schizzi e disegni, e di cui è un ottimo esempio l'insieme delle opere organizzate nell'operazione "riconversione progettuale" progettate e in parte realizzate con oggetti e strumenti di fornitura stradale urbana riconvertiti in oggetti di uso domestico (mobili della serie Paletti e catene, lampade Arcangeli metropolitani, 1979). 5) E finalmente, nella serie di tele e carte che vanno dal 1979 al 1992 il ritorno, o meglio il recupero, della mai abbandonata prassi pittorica "sopravvissuta" alle molte esperienze di quegli anni in cui La Pietra si era dedicato all’uso di diversi mezzi espressivi (extra media), e che vede il suo segno arricchirsi di espressioni sempre più ironiche e allusive.”.

Il cinema
Nel lavoro di Ugo La Pietra l'analisi critica dei media, la verifica di un uso liberatorio e creativo degli spazi, la richiesta di una umanizzazione della città, si può dire sono sempre state tematiche ricorrenti e continue. La Pietra approda al cinema dopo un cammino ricco di positive esperienze, sempre ai margini di uno specifico confine disciplinare, anzi appostato sulle linee di interscambio più vitali. Il cinema di La Pietra s'impadronisce di queste tensioni. La grande occasione (1973) è una ‘recitazione’ dello spazio agibile, disponibile e moltiplicabile. Lo spazio vuoto si carica di utopie quantizzate e però improbabili, l'uomo, disorientato nello spazio come in una vertigine, perde la sua identità creativa, rischia di essere vanificato con ogni suo progetto. Per oggi basta (1974) mentre ipotizza una fuga dalla città, una fuga dello spazio di relazione, una fuga in assoluto, ricorda il contrasto città-campagna, il lavoro dell'artista calato in una dialettica dalla quale è impossibile (inutile) fuggire.

Nel Monumentalismo (1974) le contraddizioni tra lo spazio architettonico e l'uso quotidiano che di questo viene fatto esplodono con uno stacco netto e violento: la selva di altorilievi classici, di sfingi silenziose e di austere colonne e lesene non è un antico mausoleo abbandonato, ma la Stazione Centrale di Milano con il suo flusso di vita inarrestabile e continuo. In La ricerca della mia identità (1974-1975) La Pietra mostra invece attraverso una serie di mutazioni naturali, ricavate da diverse sequenze di fotografie personali, come la libertà e la vita non hanno modelli preordinati; come le vere, reali mutazioni sono quelle che risultano continue, connaturate. Anche qui l'appello alla libertà dell'artista, del suo lavoro è dichiarato dentro una metafora trasparente. Si può dire che il cinema è uno strumento assai congeniale alla ricerca di La Pietra, un mezzo “per tentare di ‘disequilibrare’ mediante 1'analisi e la verifica delle condizioni ambientali e sociali, all'interno delle quali ci troviamo ad operare con una fisicità critica, e soprattutto con l'uso dell'immagine intesa come strumento disvelatore delle situazioni in cui l'utilità e l'abitudine hanno creato una struttura di comportamento molto rigida” secondo il piano più ampio che egli ha formulato ne I gradi di libertà (Milano, 1975).

Di particolare rilievo per i rapporti con una nuova dimensione della città e della cultura urbana, non solo architettonica, risultano i due film che Ugo La Pietra realizza alla fine degli anni Settanta: Attrezzature urbane per la collettività (1979) e Interventi urbani per la trasformazione della città di Milano (1979). Nella grande mostra ‘Cine qua non’, dedicata al cinema d’artista e sperimentale italiano e francese del 1979, che insieme ad altri colleghi riuscivo a realizzare in quegli anni nella prestigiosa sede della Cappella di Santa Apollonia di Palazzo Capponi a Firenze, ancora oggi ricordata come una delle più complete ricognizioni del cinema sperimentale e d’avanguardia degli anni Settanta, a proposito delle sue produzioni filmiche presentate nella rassegna Ugo La Pietra teneva a precisare: “Attrezzature urbane per la collettività è finalizzato alla analisi e decodificazione dello spazio urbano di Milano in riferimento alle attrezzature per la collettività. Il film costituito da una somma di immagini di attrezzature che si possono trovare oggi in Milano, vuole dimostrare quanto sia lontana l'immagine di una città in cui attrezzature e spazio sono organizzati per un ‘coinvolgimento’ e non per la ‘separazione’ e 1'‘emarginazione’ dei gruppi sociali. Interventi urbani per la trasformazione della città di Milano ironizza sulle mancate operazioni di trasformazione dello spazio urbano, operazioni che si arrestano quasi sempre nella collocazione di ‘paletti e catene’, segnali di una ipotetica e mai raggiunta trasformazione della città!

Attraverso le analisi che vado conducendo da diversi anni sul territorio urbano ho riscontrato che il grado di intervento e la possibilità di un atteggiamento creativo, nei confronti dello spazio all'interno del quale viviamo, sono quasi tutti ridotti a zero; e quando è possibile ritrovarli, li si scopre in poche espressioni che spesso sono più atti di ribellione e di disperazione che veri e propri atteggiamenti di auto definizione e di partecipazione creativa. Il ‘processo di riappropriazione dell’ ambiente’ deve passare necessariamente attraverso la radicale trasformazione delle ‘situazioni repressive’ del nostro sistema, delle attrezzature urbane collettive che esprimono solo separatezza ed emarginazione. L'installazione ‘Paletti e catene’ che è possibile vedere nel film Interventi urbani per la trasformazione della città di Milano fa riferimento alla compresenza e contaminazione di due categorie comportamentistico-spaziali: spazio privato e spazio pubblico, ciò per indicare che la riappropriazione dell' ambiente passa soprattutto attraverso la distruzione di una barriera che esiste tra queste due categorie. Questi due spazi sono rappresentati in modo ‘compromissorio’ a tal punto che l’‘arredo’ dello spazio domestico in cui si sviluppa l'ultima parte del film (tavolo, sedie, cassettiera, letto, ecc...) è realizzato con attrezzature che normalmente vengono usate per la segnaletica urbana (paletti, basi in cemento, catene).”.

Fuori dalle città: i nuovi percorsi dell’architettura radicale
Osservando il lavoro di Ugo La Pietra e dei suoi compagni di strada di quegli anni tra i quali non possono non essere ricordati Claudio Costa, Riccardo Dalisi, Toraldo Di Francia, Adolfo Natalini, Michele De Lucchi, Superstudio, Gruppo A3, A. Poli, P. Frassinelli, L. Netti, in una grande esposizione al Centro Internazionale di Brera del maggio 1979, così tenevo a precisare: “Non ho mai creduto che l' ‘unico’, il ‘nuovo’, l’‘irripetibile’ fossero il solo criterio possibile per individuare i fenomeni che agiscono la nostra cultura specificandola. Anche per questo mi trovo d'accordo con Andrea Carandente quando si dichiara convinto che dietro l’opposizione retorica ‘arte e non arte’, ‘originale e ripetuto’ che ha condizionato gli ultimi vent’anni di riflessione estetica e di ricerca artistica e storiografica, si perpetui la futile opposizione crociana ‘poesia e non poesia’. Mi hanno sempre interessato le ‘arti tradizionali efficaci’ delle tecniche, gli utensili, la cultura che questi producono. Non esiste opposizione tra ideale e reale dove la tecnica esprime in modo diretto la propria processualità in ogni momento finalizzata e creativa. Fuori dalle città segna una riflessione speculare sui processi del ‘fare arte’: il compasso che usano questi operatori (C. Costa, R. Dalisi, Gruppo A3, U. La Pietra, C. Taraldo Di Francia, A. Natalini, M. De Lucchi, P. Frassinelli, L. Poli) con i quali sono lieto di accomunare anni di fitte ricerche considerate ‘eccentriche’, non ritorna automaticamente al centro, a chiudere e confermare l'esattezza circolare di una pratica e di una teorizzazione, ma scopre creative diseguaglianze, percorsi obliqui non riconducibili alle lucide e scivolose linee curve dei nostri ragionamenti, delle nostre abitudini visive. Non è il ‘colore’ di questi fenomeni che oppongono la propria storia e realtà alle complessioni della vita urbana che può colpire: anzi oggi dobbiamo dire che le altre culture non hanno ‘colore’: colorati sono stati gli occhiali affumicati del nostro esotismo minimo. Può valere oggi registrare ragioni, esiti, permutazioni, silenziose e non vendicative rivincite di queste culture altre che a qualcuno è parso potere già rubricare come culture sconfitte. L'incrocio tra strumenti affinati di un' analisi non vincolata, ma in nessun punto indeterminata o passiva, è la realtà produttiva degli altri modelli di vita produttiva e sociale, di comunicazione e di espressione che la città ha cercato di sopprimere o riformare, apre punti di vista inediti, prospettive diverse.”.

La ceramica
E' da almeno ottant'anni che la cultura visuale moderna italiana (l'arte e l'architettura, il vasto mondo della decorazione e le nuove discipline progettuali) si trova obbligata a confrontarsi con una questione non facile e che, per storia e sviluppi produttivi, le è peculiare. Nel 1923, quando nasceva la Biennale Internazionale di Arti Decorative di Monza (poi Triennale di Milano), Carlo Carrà, che ne compilava una Guida assai dettagliata, raccomandava di saper cogliere nel vivace e permutante gioco di quelle che egli amava definire "arti tradizionali" piuttosto che decorative lo "spirito estetico dell’Europa vivente". A Carrà l'incrocio tra produzione artistica e economia pareva una irrinunciabile risorsa, "una sorgente perenne" del nostro paese.
E' certo nella convinta adesione a questo clima culturale che Giò Ponti, architetto e designer; maestro di ogni fisica elegante leggerezza, assumendo l'incarico di direttore artistico della Manifattura Richard-Ginori di Doccia negli anni tra il 1923 e il 1930, recupera due secoli di alta e non generica cultura decorativa dentro inediti modelli di esemplare efficacia moderna. Ugo La Pietra che, va sottolineato, è stato un puntuale esegeta dell'attività di Giò Ponti, ha affrontato la stessa tematica con la consapevolezza di un artista-architetto maturato alla fine degli anni Sessanta e che ha quindi sperimentato problemi e limiti dei criteri della progettazione industriale soprattutto quando orientata verso quegli "oggetti d'arte", immessi nella vita quotidiana, in cui valori d'uso e simbolici risultano costantemente sovrapposti se non coincidenti.
Da almeno vent'anni La Pietra si misura con le concrete possibilità di un ridisegno delle espressioni artistiche dell'artigianato non solo compatibili con gli sviluppi della produzione industriale ma in grado di risultare vantaggiosamente concorrenti.

Ciò che distingue il lavoro di La Pietra nel campo della cultura ceramica è l'attiva coniugazione tra la raffinata progettualità di un designer, rispettosa non solo delle tecniche e dei materiali ma della specificità di contesti e generi di produzione, e un'invenzione creativa insieme liberata e ironicamente riflessiva. Le diverse manifestazioni delle multiformi attività di La Pietra, hanno tutte una "source" dichiarata. Sono gli sviluppi lineari di un inconfondibile disegno di per sè artisticamente concluso, ma anche parametro puntuale di riferimento di ogni successiva concreta materializzazione.

Le tante ceramiche di La Pietra che questa mostra raccoglie hanno un equivalente grafico che ne è il prototipo immaginativo e l'autentica matrice generativa. La costanza ricorsivante dell'andamento grafico dei disegni e il confronto sempre serrato, per qualche verso inquisitivo, con i moduli ornamentali e le fogge funzionali dei diversi habitat ceramici in cui La Pietra interviene sono dati che connotano il lavoro di La Pietra. Da qui derivano alcuni elementi che ne contraddistinguono le ceramiche. Il primo, l'adesione a una declinazione dell'ornamentazione che si pone oltre ogni compiacenza vernacolare in una aperta prospettiva, non condizionata ma neppure inconsapevole dell'''avventura postmodernista"; il secondo, il confronto che l'originale lavoro creativo di La Pietra è ogni volta obbligato a stabilire con situazioni, materiali e culturali, diverse. L'operatività di La Pietra, come è noto, si sposta di frequente dalla ceramica alla cultura di altri materiali naturali considerati nelle loro metamorfosi tecnicostoriche: si pensi all'attenzione dedicata alla pietra negli ultimi anni, ai numerosi oggetti anticonvenzionali realizzati in legno.

La Pietra si differenzia dagli altri, non numerosi, artisti-designer operanti in Italia proprio per non aver scelto una sola cultura regionale come area di intervento e ridisegno. Egli muovendosi dalla propria originale posizione creativa delinea tipologie di manufatti che rivelano insieme inedite configurazioni artistiche e riconoscibili espressioni della cultura fattuale locale. Ugo La Pietra ha sempre esaltato l'''oggetto naturale" senza tuttavia mitizzarlo o restarne prigioniero. La sua intelligenza del mondo contemporaneo lo fa, nella stessa ardita misura, dialogare con le tecnologie più sofisticate del cui impiego in campo artistico, anche se spesso sotto forma dell'ingegnoso esorcismo, è stato un pioniere e resta uno dei ricercatori più assidui. Anche in quest'area l'ironia è chiave di incantesimi e liberatori disinganni. La Pietra appartiene senza dubbio a quella categoria di nuove figure creative riconducibili alla dimensione del "multiartista" in grado di utilizzare per intero strumenti e tecniche della comunicazione visuale del nostro tempo. Non può sorprendere che al complesso della sua opera, tanto variegata quanto produttivamente azzardata, oggi vengano attribuiti ruolo e rilevanza singolari.

Catalogo a cura di Vittorio Fagone
Italiano / Inglese, Edizioni Mudima

Immagine: “Il sistema disequilibrante. Immersione, colpo di vento”, microambiente, 1969

Ufficio Stampa: Cristina Pariset
e-mail: cristina.pariset@libero.it - tel. 02/4812584 – fax 02/4812486

Inaugurazione giovedì 10 gennaio, ore 18.30

Fondazione Mudima
via Tadino, 26 - Milano
Orario: lunedì - venerdì 11.00 / 13.00 e 16.00 / 19,30 – sabato e festivi chiuso
Ingresso libero

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Berty Skuber
dal 18/11/2015 al 18/12/2015

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