Galleria Giraldi
Livorno
piazza della Repubblica, 59
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Elio Marchegiani
dal 11/4/2008 al 13/5/2008
Feriali 10-13 17-20

Segnalato da

Galleria Giraldi




 
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11/4/2008

Elio Marchegiani

Galleria Giraldi, Livorno

"Sul bianco del muro, sul grigio scuro della lavagna, l'artista torna a tracciare le aste, e impara a combinare i colori invece dei simboli, e tutto appare fragile, passibile di essere cancellato con un soffio, come se il pigmento appena passato sulla superficie potesse cadere a terra, refrattario ad ogni osmosi col suo supporto." (M. Meneguzzo)


comunicato stampa

a cura di Marco Meneguzzo

In un percorso eclettico come quello di Elio Marchegiani, le “Grammature di colore” determinano un momento e ricoprono un ruolo assolutamente centrale, non solo perché sono realizzate nel cuore della sua produzione, che gli auguriamo ancora lunghissima e fertile, ma perché rappresentano una fase del suo pensiero operativo - in Marchegiani il pensiero non è mai disgiunto da una sua qualche immediata trasposizione in oggetto… - che in grande misura raccoglie ciò che era stato fatto prima, lo analizza e lo rilancia con una nuova consapevolezza nel futuro degli anni ottanta e novanta, sino ad oggi.

Le “grammature” per Marchegiani sono la definizione linguistica di un alfabeto, cioè degli elementi basilari su cui costruire prima una grammatica e poi una sintassi, e non deve stupire che la definizione del proprio alfabeto avvenga in fondo dopo lunghi anni in cui questo alfabeto era stato usato (dopo tutto, Marchegiani approda alla “grammature” dopo almeno venti anni di lavoro maturo): spesso gli artisti scelgono d’istinto i propri strumenti, e solo in un secondo tempo si chiedono il perché l’hanno fatto (e alcuni non se lo chiedono mai…).

Per Marchegiani questo percorso di autoconsapevolezza avviene dopo un vorticoso periodo ideativo, e prima di un altrettanto vertiginoso momento creativo, e poco importa che non si riconosca nelle forme del “prima” un qualche avvicinamento progressivo al concetto di “grammatura”, mentre nel “dopo” la memoria di questo momento riaffiora come un fiume carsico, secondo movimenti e situazioni geologiche sotterranee ed invisibili: ogni lavoro di Marchegiani sembra infatti sempre “unico”, scaturito adulto in quel momento, come Atena dalla testa di Zeus.

Tuttavia, per le “grammature”, la prima delle quali risale al 1973, si riconoscono derivazioni, uno sviluppo, una durata, una proiezione nel futuro: ennesimo aspetto paradossale – pratica, quella del paradosso, spesso adottata dall’artista – se si pensa che tutto questo viene attribuito a ciò che dovrebbe essere solo l’inizio, il big bang del linguaggio, e che invece arriva a metà dell’opera, e “dura” per qualche anno – continuativamente almeno sino al 1977 -, un tempo infinito se si considera l’ansia di cambiamento di Marchegiani, e lo statuto di “alfabeto”, cioè di definizione elementare, irriducibile, del linguaggio.

Prima di queste, dunque, sono le “gomme”, superfici di caucciù tese su telaio, che invecchiano e muoiono palesemente, come gli individui, secondo un ciclo vitale di qualche anno; poi una breve fase di negazione delle gomme, ricoperte di intonaco a simulare un muro, e infine il muro ad intonaco vero e proprio o la lavagna, materiale ironicamente allusivo dell’inizio di ogni apprendimento di linguaggio – la lavagna della scuola, il gesso che vi scorre sopra, il feltro che lo cancella con un gesto che, se lo si pensa attentamente, è come quello del mandala che si costruisce per poi essere distrutto, cancellato - : il supporto diventa così fondamentale, nel senso etimologico del termine, crea cioè le fondamenta su cui costruire, su cui reinventare il linguaggio.

Sul bianco del muro, sul grigio scuro della lavagna, Marchegiani torna a tracciare le aste, e poiché è artista, impara a combinare i colori invece dei simboli, e tutto appare fragile, passibile di essere cancellato con un soffio, come se il pigmento appena passato sulla superficie, e che crea un infinitesimo spessore sufficiente a restituire la fisicità del colore, potesse cadere a terra, refrattario ad ogni osmosi col suo supporto.

Supporto, superficie, colore: il raggiungimento consapevole del grado-zero della pittura, in quegli anni, non è solo di Marchegiani, ma di tutti coloro che pensano la pittura in modo analitico, e il nostro artista partecipa a quelle mostre, vuole esserci perché coscientemente sa che quello che sta facendo va in quella direzione, e poco importa se sa altrettanto bene che di lì a poco lascerà questa verifica essenziale per costruire storie, a partire da quell’alfabeto, o anche soltanto avendo conosciuto quell’alfabeto insieme a molti altri: per Marchegiani non è tanto la coerenza formale – cioè di superficie - a costituire il punto essenziale del lavoro, quanto piuttosto la sua “verificabilità”( tracce anche letterarie di questo intento l’artista le ha lasciate nelle molteplici dichiarazioni sul proprio lavoro, tanto di moda negli anni settanta, e tanto ideologicamente determinate nel linguaggio e nei modi dell’esposizione, mutuati da un’impossibile oggettività, oppure improntati all’oggettività relativa, se così si può dire, autodefinita dall’artista, come quando calcola le combinazioni possibili – 6.227.020.800 – ottenibili dalla combinazione di tredici segni di colore diverso).

La passione di Marchegiani per la scienza (ha realizzato molti lavori in collaborazione con matematici, ed è un appassionato di tecnologia che, appena può, utilizza nelle sue opere) si manifesta proprio in questo, in una sorta di analogia con l’assunto principale della scienza che è la “dimostrabilità”: per l’artista, per Marchegiani, si tratta invece della “verificabilità”, attitudine che ha sempre a che vedere con la “verità”, ma in maniera più intrinseca, più tautologica e autoreferente, rispetto al dogma scientifico della dimostrabilità. Se, infatti, nella scienza la dimostrabilità – anche solo teorica – è il preludio, quasi il sinonimo della verità, la verificabilità dell’opera si limita alla verità interna all’opera: azione meno collettiva, ma più duratura, anzi, eterna rispetto alla continua evoluzione della scienza.

Al contrario, l’opera d’arte necessita di una verificabilità che viene posta e accettata una volta per tutte, e viene definita in maniera arbitraria dall’artista stesso: E’ l’artista che si dà il linguaggio, che pone i limiti della sua azione, che stabilisce le relazioni tra gli elementi costituivi del lavoro, ma è questo insieme di regole – arbitrarie fin che si vuole, ma regole, come quelle ferree dei giochi dei bambini – che deve resistere alla verifica, che deve essere verificabile, che non deve mostrare falle linguistiche, che deve essere assolutamente coerente con se stesso. Per certi versi, fallire in questo senso è ancor più doloroso che fallire nel dimostrare scientificamente una tesi: qui si può attribuire il fallimento ai fattori esterni, alla natura, alla mancata interpretazione degli indizi offerti dal reale, là – nell’opera d’arte – poiché tutto promana dalla volontà dell’artista, fallire sarebbe una catastrofe immane. Catastrofe individuale, che non tocca nessuno se non il suo unico demiurgo, ma immane, perché senza scampo, senza giustificazioni. E’ una vita che Marchegiani gioca con la verificabilità delle sue opere

Inaugurazione: Sabato 12 Aprile ore 18.00

Galleria Giraldi
Piazza Repubblica, 59 - Livorno
Orario Galleria: Feriali 10-13 17-20
ingresso libero

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