Galleria Bianca Maria Rizzi
Milano
via Molino delle Armi, 3
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Mario Garcia Sasia
dal 14/4/2008 al 13/5/2008

Segnalato da

Bianca Maria Rizzi



approfondimenti

Mario Garcia Sasia



 
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14/4/2008

Mario Garcia Sasia

Galleria Bianca Maria Rizzi, Milano

Constant Stranger. "Garcia Sasia offre con i suoi lavori una lezione sul saper-vedere che e' anche una forma di conoscenza... La sua pittura e' una riflessione sulla citta' e i suoi abitanti: un modello il cui valore archetipico si esemplifica di volta in volta attraverso scorci particolari" (Emanuele Beluffi).


comunicato stampa

Mario Garcia Sasia, o del consueto sacralizzato

Da tempo la riflessione estetica si accompagna al riconoscimento di una società dell’immagine, in cui molte, forse troppe immagini si impongono alla visione conculcando la capacità stessa di vedere. Mario Garcia Sasia (Buenos Aires, 1968; vive e lavora a Barcellona) offre con i suoi lavori una lezione sul saper-vedere che è anche una forma di conoscenza. Sasia vede la bellezza in luoghi inusuali. E non casualmente usiamo qui il verbo “vedere”, dal momento che il contesto attuale sembra aver misconosciuto il valore estetico - e oseremmo dire anche morale – di questa azione attenta dell’occhio. «Puoi trovare vita ovunque, se apri abbastanza gli occhi», dice Sasia. L’occhio e lo spirito era del resto il titolo di un fortunato libretto sull’estetica della visione del fenomenologo francese Maurice Merleau-Ponty, dove si tematizzava il radicamento del pensiero nella percezione attraverso una sorta di abdicazione del pensare al vedere. L’occhio ci apre un mondo. E Sasia sa vedere il bello in spazi insospettabili e ambienti a tutta prima desolati – le zone industriali di Londra o di Barcellona, la metropolitana di Parigi –, magnificandone ex novo i dettagli e restituendoli trasfigurati alla visione. Ordinari e forse anche sgradevoli tessuti urbani che si sublimano come luoghi sacri, chiese, templi. Confessa l’artista: «Congelo il tempo di questi luoghi e ne trasformo il paesaggio. Cammino nella metropolitana di Parigi, vedo volti, luci, colori e per un momento magico mi sento come situato dal giusto punto di vista. All’improvviso tutto quel rumore, tutta quella sporcizia si purificano e il mondo mi appare in senso potenziato, vedo la realtà in modo amplificato». Uno sguardo da nessun luogo. Un rinnovare sé stessi che passa attraverso il mettere alla prova la propria capacità di guardare, preclara opposizione agli autodafé introspettivi, redimendo la crudezza di contesti svincolati dalla contingenza legata alla storia e alla memoria - «Se fossi Buddha mi sentirei in questo stato per tutto il tempo. L’unico modo di stare in questi santuari per me è dipingerli». Dipingere è un riorientamento dello sguardo, ciò su cui non poco influisce l’esperienza fisica del viaggio - «Muovermi lungo l’Europa è stato per me più di un “crash” culturale, ha cambiato il mio modo di vedere la realtà».

Ma è un viaggio la pittura stessa, una ricerca costante in cui provare differenti possibilità espressive: la tela bianca di fronte alla quale sta per esser presa una decisione è nello stesso tempo lo scenario su cui esercitare la vita. La pittura di Sasia è una riflessione sulla città e i suoi abitanti: città che è un modello, un paradigma il cui valore archetipico si esemplifica di volta in volta attraverso scorci particolari – l’architettura del paesaggio urbano, le persone che compiono azioni del tutto normali, conducendo la vita con i suoi segreti nascosti. “People of the background”, le definisce Sasia con espressione icastica che vogliamo lasciare così: soggetti colti per un attimo di splendore, fermati come in un fotogramma per poi non rivederli più, quando con le loro azioni stanno per abbandonare il dipinto che li immortala. Una pittura fotografica non nel senso della restituzione mimetica aderente al vero, ma nel senso della cattura di millisecondi di esistenza. Dario Argento volle girare la sequenza di un suo celebre film in un modo che ricordasse molto da vicino Nighthawks di Edward Hopper: la raffigurazione di certi spazi silenti ben si prestava alla realizzazione di scenografie improntate a una melanconia quasi metafisica.

I paesaggi urbani e gli interni di Mario Garcia Sasia risulterebbero con ogni probabilità decontestualizzati in un girato di Profondo Rosso: possono ricordare Hopper, ma se ne discostano intensamente per via negativa – cosa essi non sono – grazie a uno stile personalissimo che li fissa in posizione altra rispetto a eventuali referenti pittorici. Dei quali ammira ciò che egli stesso non fa, risultando dunque - per un paradosso che è tale solo in apparenza - lontani dal suo stile. Dialogando con Sasia, viene fuori la sua convinzione che anche Edward Hopper amasse passeggiare come lui lungo le strade di New York, con i muri di mattoni rossi all’ora del tramonto o della siesta; ma Sasia preferisce non ritrarre la realtà così come si presenta ai suoi occhi, né la sente come circonfusa della stimmung della melanconia. Ciò che vale sia per il medium espressivo che per il retroterra concettuale delle opere, dove l’arredo costitutivo di ambienti cittadini di per sé anonimi è vivificato da timbri vibranti di colore che bagnano la superficie come un lago di luce, conferendovi una luminosità limpida e piana attraverso campiture piatte e antinaturalistiche. Qualità intrinsecamente connesse alla tecnica acrilica, che rende la superficie pittorica omogenea e regolare per varietà e brillantezza dei colori e medium espressivo prediletto per una ragione ben precisa: il tempo. Asciugandosi l’acrilico più in fretta dell’olio, l’esecuzione pittorica si sincronizza con lo sviluppo dell’idea attraverso una contemporanea preservazione del colore nella sua purezza. Prelevando il termine dall’usuale senso riferito alle relazioni umane, possiamo dire che Sasia instauri un rapporto empatico coi soggetti raffigurati, siano essi una lavanderia, un autolavaggio, una piazza affollata o una zona desolata, relazione che prende la forma di un vedere-oltre che rinnova la luce rendendo uniche le sue tele.
Emanuele Beluffi

Viaggiare mi par essere un utile esercizio. Lo spirito è continuamente costretto a notare cose nuove e sconosciute.

Michel de Montaigne

1) Argentino di nascita e subito trasferito in Europa, quali sono le influenze delle esperienze nella tua terra natale e quali invece quelle che hai acquisito durante la tua permanenza fissa in Europa?

Presso la Scuola Nazionale delle Belle Arti si apprendevano tecniche del disegno basate su un’impronta molto classica. Ho poi cominciato ad interessarmi alla regia studiando presso l’istituto SARCU di Buenos Aires e, nel 2001, presso il South Thames College di Londra. Mi sono poi trasferito in Germania trascorrendovi più di sette anni, molto combattuti, alla ricerca di uno stile solido con cui esprimermi. Due anni e mezzo fa mi sono trasferito a Barcellona. Dopo mesi ho cominciato a trovare una simbiosi con la città, avvicinandomi a lei in modo fresco e innovativo. È qui che i miei lavori hanno iniziato a prendere l’aspetto che hanno oggi. In fin dei conti, penso che la più grande influenza io l’abbia avuta dalla solitudine che deriva dal continuo viaggiare. Sono divenuto un eterno straniero, un filtro mai appartenente ad un luogo preciso. La percezione che uno straniero ha della realtà diventa, quindi, necessariamente diversa rispetto a quella di coloro che la vivono quotidianamente.

2) Il tuo periodo di permanenza a Londra è caratterizzato da una predilezione verso soggetti come mani e gambe, che usi come metonimie dell’essere umano: qui è iniziato il periodo di “Body suite”. Che significato riveste, nella tua poetica, l’uso di queste precise parti del corpo?

Sì, il mio periodo di lavoro a Londra fu decisamente caratterizzato da un forte rifiuto verso la rappresentazione dei volti. Allora avevo la sensazione che questi fossero troppo comunicativi, che vi fosse un eccesso di informazioni nella gestualità come nello sguardo di un personaggio. Quando crei qualcosa, rifiuti automaticamente il concetto di infinito, dire qualcosa non significa necessariamente dire tutto. Ho prodotto centinaia di dipinti in cui le mani assumevano atteggiamenti umani, e molte gambe vi fluttuavano attorno. Ho ritenuto le mani estremamente semplici ed espressive, simbolo delle gesta umane, sia positive che negative. Le gambe simboleggiano invece la sensualità, l’incessante motore del mondo.

3) La figurazione delle tue opere odierne è esplicitamente diversa da quelle del periodo londinese. Come è avvenuto il passaggio da “Body suite” all’aderenza alla realtà delle opere attuali?

La mia evoluzione pittorica è sempre stata molto lenta. La mia riflessione su questo tipo di figurazione è durata diversi anni, anche a causa di una sorta di approccio cinematografico nei confronti della realtà. Nei lavori del periodo londinese non esistono direzioni lineari, tutti gli elementi fluttuano nello spazio, senza direzione. In Germania ho iniziato ad avvicinarmi ad una comunicazione ancora più simbolica: volevo comunicare mediante allegorie. Ho quindi deciso di utilizzare tipiche immagini di vecchie pubblicità per creare una sorta di “prodotti metafisici per bisogni metafisici”. Ho poi progressivamente cominciato a semplificare il mio linguaggio, a decidere di non cercare più immagini in vecchi giornali e riviste, per trovarne altre che mi facessero sentire più parte del presente. Ho quindi iniziato a dipingere all’esterno trasponendo queste idee sulla tela: dai paesaggi urbani, alla periferia industriale di Barcellona, Londra, Parigi e Monaco. Qui i tratti hanno iniziato ad essere meno descrittivi e le forme ad essere presentate in una sorta di “fuori fuoco”. Provo sempre una sorta di sentimento religioso verso le aree industriali, ed avverto un senso di solitudine nelle architetture esteticamente “sgradevoli”. In questi contesti ho poi iniziato a introdurre personaggi sognanti, semplificando la gamma cromatica. Questo è il punto di partenza della collezione che presento oggi.

4) Col tempo, la figurazione nei tuoi lavori è molto cambiata, ma, anche se in maniera meno accentuata, si nota ancora una certa tendenza a distaccarsi dalla realtà, il fuori fuoco può esserne da esempio..

Nei dipinti esistono diversi modi di concepire la realtà, tanto quanto sono diverse le persone che la contemplano. Io cerco semplicemente di documentarne la mia personale interpretazione. Mi piace camminare ad una certa distanza dal quadro e riuscire, quando le forme non sono più riconoscibili, ad instaurare comunque un legame con i colori e le pennellate. Ho sempre combattuto per trovare il giusto grado di realtà in un’immagine, e raggiungere l’esatto equilibrio non è mai stato semplice. Ci sono voluti molti anni prima di trovare il mio linguaggio personale, ed ora, con esso, posso finalmente dire di riuscire ad esprimermi totalmente.

Claudia Bernareggi

Inaugurazione Martedì 15 aprile dalle 18 alle 22

Galleria Bianca Maria Rizzi
via Molino delle Armi, 3 - Milano
Ingresso libero

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