Rocca Centro per l'Arte Contemporanea
Umbertide (PG)
piazza Fortebraccio
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Maestri italiani del XX secolo
dal 23/5/2008 al 4/10/2008
tutti i giorni 10,30-12,30 e 16,30-19, lunedi' chiuso, Ferragosto aperto

Segnalato da

Roberto Begnini




 
calendario eventi  :: 




23/5/2008

Maestri italiani del XX secolo

Rocca Centro per l'Arte Contemporanea, Umbertide (PG)

Oltre 100 opere, provenienti da prestigiose collezioni, in un percorso attraverso le diverse tendenze e stili soprattutto della prima meta' del 900. Per restituire una panoramica completa e coerente dei movimenti artistici non si puo' prescindere da un confronto con gli eventi storici che hanno influito sui percorsi formali e tematici di quanti hanno usato l'arte anche come arma culturale per contrastare o glorificare il regime fascista. Opere di Balla, Boccioni, De Chirico, Rosai, Sironi, Turcato, Vedova e molti altri; a cura di Angelo Calabrese.


comunicato stampa

Sabato 24 maggio 2008 alle ore 17.30, si inaugurerà, presso la Rocca – Centro per l’Arte Contemporanea di Umbertide, la grande mostra MAESTRI ITALIANI DEL XX SECOLO. L’esposizione è promossa e organizzata dal Comune di Umbertide, con il contributo di Regione Umbria, Provincia di Perugia, Camera di Commercio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia.

La mostra, curata dal professor Angelo Calabrese, presenta un percorso di oltre cento opere, provenienti da prestigiose collezioni tra le quali l’Archivio Cagli.
Attraverso le singole personalità dei più rappresentativi e importanti Maestri, che meglio hanno reso protagonista l’Italia nella storia dell’arte soprattutto della prima metà del Novecento, attraverso le diverse tendenze e stili di poetica e linguaggio, la mostra Maestri italiani del XX secolo offrirà al visitatore un’occasione straordinaria per cogliere l’originalità e la qualità del contributo degli artisti del nostro Paese alla grande avventura dell’arte occidentale del secolo da poco concluso.
Ogni opera sarà affiancata da un breve testo, in modo da creare un percorso didattico che ripercorra la storia dell’arte di un secolo: la rivoluzione operata in campo artistico e ideologico da Balla e Boccioni, interpreti geniali di quello slancio futurista che ha aperto la strada alle avanguardie italiane, improntando con la sua carica innovativa anche le successive esperienze internazionali; il mito della velocità, del dinamismo, che si lega ad un nuovo concetto di arte, che i Futuristi intendono non più come semplice rappresentazione, ma come azione concreta sul mondo, che nei temi affrontati si traduce in un inno alla modernità, al progresso ed incarna la visione ottimista e progressista di inizio secolo; il movimento della Metafisica, rappresentato in mostra da importanti opere di De Chirico, che ne fu l’interprete principale, Carrà e De Pisis e da un nucleo di lavori di Casorati, che evidenziano la declinazione in senso classico della corrente metafisica. Certamente per restituire una panoramica completa e coerente dei movimenti artistici del XX secolo non si può prescindere da un confronto con gli eventi storici, in particolare con l’ascesa e declino del Fascismo in Italia, che certamente molto hanno influito sui percorsi formali, tematici e ideologici di quanti hanno usato l’arte anche come arma culturale per contrastare oppure glorificare il Regime. E’ questo il caso di Mario Sironi, ampiamente rappresentato in mostra, che scelse di interpretare il trionfalismo del regime attraverso robuste figure dalla spiccata componente plastica per approdare infine ad una visione eroicamente tragica della realtà.
Una sezione molto ampia è dedicata alle tendenze “anticlassiche” espresse dalla cosiddetta “Scuola Romana” che attraverso il lavoro di artisti quali Guttuso, Mafai, Scipione, Pirandello, si impone come voce dissonante, interprete dei segni di crisi e profondo turbamento che accompagnarono l’Italia negli anni Trenta e nella delicata fase del dopoguerra. Su questo gruppo di artisti spicca la figura di Corrado Cagli, a cui è dedicato ampio spazio all’interno della mostra, artista raffinato ed eclettico e maestro indiscusso del Novecento.

IL DIVENIRE DELL’ARTE NEL TEMPO DELL’INCERTEZZA
di Angelo Calabrese

In una delle sue straordinarie lettere mensili, precisamente quella datata febbraio 1994, che Janus indirizzava agli addetti ai lavori dall’ufficio mostre della Valle d’Aosta, si affrontavano le ragioni dell’arte, ostinata da migliaia di anni a battersi contro, e per la società, cercando di addomesticarla come se fosse “un’indocile belva”. L’intento di sempre è quello di dominarla, per costringerla a diventare più umana. Argutamente il critico tiene a precisare che l’arte a sua volta non è “innocua” ed evidenzia la scaltrezza con cui, affascinando i suoi interlocutori con le meraviglie delle forme e dei colori, trasferendo nell’immaginario interrogativi, sospiri, sentimenti, pensieri, sogni, metafore di forte valenza, investiga la società persistendo decisamente a liberarla dal suo “primordiale e rozzo” egoismo. L’aspirazione all’armonia, alla spiritualità, secondo un condivisibile punto di vista, contribuisce a conciliare valori e reale auspicato progresso, motivando la necessità di non separare mai scienza e coscienza in un mondo, per necessità vitale, metamorfico in divenire. L’etica dell’arte si configura pertanto come impegno a rendere “meno ignobile e sanguinario” il mondo che celebra i suoi trionfi nel costante degrado, dove si immensificano le distanze tra natura e cultura. Di conseguenza solo gli “assassini” sparsi per tutte le latitudini rifiutano l’arte e la reputano inutile, ma solo perché “impedisce alla brutaglia di perpetrare indisturbata gli abituali massacri cui si dedica”. E sappiamo bene che è abile a farlo con la ferocia inesorabile, che cresce mentre il progresso tecnologico autonomamente segue il suo corso inarrestabile, costi quel che costi. Al colmo della misura l’arte però perde la pazienza: “diventa a sua volta violenta, capovolge i canoni tradizionali della bellezza, prende un volto pauroso, digrigna, imita gli aspetti più mostruosi della vita”. L’arte aggredisce con la sua azione incruenta la società, che all’immediato, reagendo, la condanna, la giudica sgradevole, irriconoscibile, ermetica, degenerata, folle… Ma l’arte è mimesi e la società non si rende subito conto di trovarsi di fronte allo specchio in cui proprio lei è riflessa con tutte le sue forme di mistificazioni, di ipocrisie, di scompensi. La società si ostina a non riconoscersi nello specchio dell’arte che è veritiero e implacabile. Allora biasima, grida anatemi, assale con le sue crociate gli eretici e non demorde dal perseverare nei suoi misfatti orrendi e nei suoi furori distruttivi. Basterebbe uno sguardo al passato, non tanto lontano, anzi addirittura recente, dall’ultimo Ottocento a tutto il Novecento, per averne conferma. Janus considera il furore autodistruttivo che investe il degrado sociale come conseguenza dell’orrore di pensieri e azioni da cancellare; afferma inoltre che l’arte è l’anima indifesa della società. Può infatti essere, nonostante tutto, manomessa, violentata, sfregiata, distrutta, data alle fiamme, “perché cessi di tormentare con le sue immagini e con la sua immaginazione la cattiva coscienza degli uomini, i quali pretendono di essere liberi di fare tutto quello che vogliono nei lunghi gironi del male”. L’arte paga un conto salatissimo; sconta sulla sua viva carne l’aver osato, opponendo ostinazione ad ostinazione. Viene invasa dagli inclementi virus della corruzione che mirano a farle perdere di credibilità. Parliamo di infiltrati, “guastatori” che si confondono con gli autentici artisti, critici, mercanti; si mimetizzano per confondere e mistificare le ragioni vere dell’arte impegnata con i suoi strumenti sempre etici, a tutelare il valore, cioè la vita. Del resto nel termine est-etica già è all’evidenza connotata l’eticità che vale a migliorare la società. Gli artisti quindi, come artefici d’umanità sono facilmente identificabili, non solo per esserci, qui ed ora, ma anche per la chiaroveggenza che rivelano perfino nel nostro tempo multimediale, espertissimo di soprusi emarginanti e di degradi irreversibili. Sulla scorta di quanto già accennato, ci accingiamo a ritrovare il nostro Novecento, partendo però da un rapido sguardo rivolto alla complessa scena dell’arte attuale che, con i suoi accumuli indistinti, declina in sensi plurali e transita nelle incertezze del postmoderno. Rivela infatti come scrive Lyotard “la sua doppiezza di rivoluzione senza futuro e di restaurazione senza passato”, mentre affiorano qua e là misteriosi reperti dell’archeologia del sapere, ignoti alle masse e cari agli specialisti che ne sono, ma chissà con quali esiti, giusti eredi e custodi. Vedere disegnando figure, appare una persistenza inattuale, tuttavia chi non rinuncia e ricorre alla figurazione, potrebbe essere giudicato come un ostinato che va ritrovando l’umana lingua madre in una globalizzazione plurilingue, dominata dall’economia che si è sostituita alla filosofia. L’evoluzione dei progressi tecnologici ci ha abituato alla pratica del Tecnolaser, del Plotter-Painting, della Pittura Digitale, della Tecnopittura, della Pixel Art, all’Internet come strumento per capire il presente e ad avvalerci di formidabili strumenti di precisione. C’è inoltre un vantaggio nel virtuale-internet che estende la comunicazione e la rende pubblica senza dover ricorrere ai luoghi deputati, musei, gallerie, fiere e mercati. L’artista che lavora a computer sa di poter modificare in fieri l’opera che va organizzando e ripensarla in tempi rapidissimi, inconcepibili per le soluzioni tecniche del recente passato. Gli strumenti tecnologici dei quali facciamo uso, avrebbero fatto la felicità dei cultori del barocco con i loro sogni di poter giostrare nelle esorbitanze più stupefacenti e raggiungere il fine dell’arte: la meraviglia. Come però quell’enfasi, di cui più non si ragiona, anche se, dati i tempi, fu devastante per tanti sublimi affreschi sommersi di calce, così le giostre dell’immaginario, rese possibili dalle tecnologie avanzate e già prodighe di doni ulteriori, rivelano l’assenza del sentire intimo e poetico che va comunque ricercato e investigato per altre strade di consapevole umanità. È comunque importante che alla dovizia di cucine, pentole, utensili d’avanguardia, corrisponda un cuoco sapiente e creativo per dosare i giusti ingredienti e soddisfare palati esigenti. Intanto resta il dubbio: il nuovo, ch’è buono, sarà sempre prerogativa di pochi? Anche per l’arte e la cultura, come per l’economia, nostra signora assoluta, la forbice si allarga sempre di più per il godimento di sparuti eletti e la sofferenza di tantissimi esclusi. L’arte che transita è intanto acefala: vive un presente che non vanta miti originari. Opera senza identità e tra differenze non aggregabili, tra discrimini non colmabili, perché si confrontano come ossimori. Si tratta di scelte che investono sulla contaminazione, che aggiustano reperti promiscui, giostrano con anacronismi e fanno invidia a Proteo con i loro mutabilissimi aspetti. Intanto dove la giostra appare più caotica, dati i fermenti che in quella si surclassano, prenderanno vita nuovi contesti culturali. Proprio in un’area di ricerca complessa e impredicibile, com’è il mondo in cui macrocosmo e microcosmo sono esposti alle medesime possibilità di tracollo, prima o poi verrà fuori un’arte di forte valenza, che sicuramente dovrà provare e riprovare, nei giusti termini già un tempo proposti dall’Accademia del Cimento. Dovrà togliere di mezzo il ciarpame che riecheggia, imita e si compiace della sua vanità tautologica, e riaffermare la necessità di un giudizio che attualmente è sospeso. Proponendo una forte selezione di maestri del XX secolo intendiamo ritrovare il discorso sull’arte italiana siglata da una sua fisionomia, con un’autonoma autenticità, proprio nell’ineludibile scenario transnazionale che s’infutura. In quello è necessario identificarsi con un apporto culturalmente significativo, perché, nonostante tutto, il nostro tempo deve riconoscere i primati. Potrebbe, come qualcuno ha scritto, negare gli eroi, ma intanto continua a celebrarli, specie dove la ricerca scientifica non rinuncia alla storia; inoltre si ricomincia a ritrovare il senso delle gerarchie. Occorre uscire dalla palude delle avanguardie di massa, già denunciata da Maurizio Calvesi, anche perchè il declino economico ha reso ancora più ricchi i ricchissimi e poverissimi i poveri, perciò s’impone un nuovo modo di vivere la quotidianità, tenendo conto del consumismo nel post-industriale. La necessità di soddisfare i globalizzati bisogni primari non deve consentire sprechi per fuochi fatui che, prima ancora della giusta consacrazione, continuano ad invadere i Musei. Quest’osservazione l’aveva già proposta Duccio Trombadori nel saggio Dogmi pluralisti e fantasia italiana, per la XIII Quadriennale, 1999. “L’arte visiva dissolta in una rete discorsiva senza canoni, è diventata un genere di consumo rarefatto nell’ambito di eventi spettacolari in cui l’autorappresentazione del pubblico presume di sostituire la identità stessa dell’opera. Si assiste alla ripetizione di interventi effimeri, di allestimenti spaziali temporanei, alla febbricitante gara delle esposizioni dove il silenzio della contemplazione sembra definitivamente scomparso assieme alla forza irradiante propria dell’oggetto d’arte”. Nel Novecento il contributo del Genio italiano all’arte internazionale è stato impareggiabile, soprattutto tenendo conto delle proposte più celebrate. A distanza di pochissimi anni dalla recente svolta millenaria tutto appare irrimediabilmente perduto. Anche la dignità umana è desiderio irrealizzabile, dove si galleggia sull’inquinamento ed è lo strapotere economico ad esaltare i “valori” dell’individualismo che distinguono appunto gli eccessi del benessere da quelli del malessere sempre più generalizzato nel trionfo dell’ignoranza, della supponenza, della ferocia superstiziosa. La riscontriamo nelle cronache delle recenti guerre guerreggiate che, in ostinazione distruttiva possono ben competere con quelle che continuiamo ad esecrare e che avevamo ripudiato nell’Art. 11 della nostra Costituzione. L’arte dei nostri giorni travagliati si propone talvolta come clown dell’ultima spiaggia tra virtuali suggestioni memoriali, rischi d’unanimismo, oppressione e oscurantismo. Siamo in verità nomadi in un mondo che pure nella sua complessità e impredicibilità avrebbe dovuto offrire migliori prospettive agli uomini di ragione e sentimento, liberati, è questo il grande merito del Novecento, dall’incubo del determinismo e dai riferimenti d’obbligo all’oggettività, alla certezza, alla casualità e alla completezza. Nessun perimetro, quindi, e nessun centro. C’erano i presupposti per una valida conquista di libertà, consapevole, nel nome di un’umanità veramente nuova. Invece tutto è degenerato e si è ridotto pure il numero degli spiriti liberi che sacralizzano l’uomo nella natura e la investigano deprecando la falsa civiltà ostile alla cultura che alimenta la vita. Forse se si riparte da un contesto non umano, rispettando la pietra, il filo d’erba, l’albero, si potrà meglio ragionare anche del cosmo, verso il quale ci siamo attivati a viaggiare. La salvezza potrebbe venire da un rinnovato amore per la natura, prendendo atto anche dell’altro immondezzaio ben più visibile che ci sommerge, mentre ci affanniamo ad esercitarci tra manipolazioni genetiche, robotizzazioni, accelerazioni di metamorfosi, voglia di cocktail di droghe e di eccitazioni estreme che degenerano fino all’ebetismo smemorato. Intanto i prodotti eccellenti, destinati a pochissimi eletti, ricorrono alle arti per essere pubblicizzati, tra danze, canti e slogan martellanti. Lo splendore delle virtuali promesse si specchia nella brutalità reale, sanguinaria, che esaspera anche chi ha fatto scuola di tolleranza. Al nostro presente manca il silenzio del pensiero, manca lo spazio della contemplazione, che apre le vie alla meditazione. Manca la poesia dell’arte per l’uomo che, nella comune insensatezza, vuole vivere, dando un senso al suo pensiero, alle sue azioni, ai suoi passi di viandante che, non sopporta il peso della libertà del nulla, che equivale a stringere un pugno d’aria.

NOVECENTO: L’ULTIMA FIGURA DEL MODERNO NELL’ARTE

Se partiamo dal concetto che la disaffezione alla memoria rende le giovani generazioni mal conciliate con la storia dei loro nonni e dei loro padri, appare evidente che diventa sempre più difficile orientarsi tra le vicende del nostro Novecento e dei suoi protagonisti. È questa la ragione che motiva tante riletture del secolo che si è concluso con il primo millennio: sicuramente se ne gioveranno i figli dell’Europa dei popoli.
“Un secolo è il risultato di quelli che lo hanno preceduto. Un secolo non può essere che ciò che è”: ce lo ricorda Benjamin Constant, quindi né giudizi, né elogi, ma la memoria non può perdere i sentieri percorsi da Tzvetan Todorov nel suo volume Memoria del male e del bene -inchiesta su un secolo tragico-, indicando l’eredità del XX secolo in cui sono evidenti gli aspetti peggiori dell’essere umano. Trionfa il totalitarismo nelle sue deprecabili varianti e nelle degenerazioni tra lager e gulag. La bomba atomica decreta il trionfo della fabbrica del nulla; la democrazia richiama all’impegno, ma il risultato deludente è nella fuga dalla libertà, tanto per ricordare quello che scrive Eric Fromm. Intanto, proprio gli artisti vanno ricordati per il loro impegno nella difesa dell’uomo. Li ritroviamo difensori della tradizione culturale, paladini della libertà, testimoni della dignità e dell’eguaglianza, attenti a coniugare pensiero raziocinante e simbolico. Conta per noi suggerire spunti per la didattica e intanto mettere in evidenza il ruolo della nostra nazione nell’ambito delle correnti artistiche che hanno caratterizzato un secolo intero, transitato nel nostro tempo dell’incertezza.
Nel 1989, Pontus Hulten, direttore artistico a Palazzo Grassi e curatore, con Germano Celant, della mostra Arte Italiana – Presenze (1900-1945), s’interrogava: “Dal punto di vista culturale il XIX secolo è stato indubbiamente un secolo Francese. Il XX secolo, una volta ristabilita la prospettiva, risulterà forse appartenere all’Italia?”.
Era una domanda alla quale l’impegno e l’onestà critica stavano coerentemente rispondendo, a cominciare dagli anni Settanta, ponendo in giusta luce i meriti di quei movimenti artistici, autonomamente italiani, ai quali era debitrice l’Europa. Era un riscatto dall’estromissione dalla storia dell’arte internazionale cui eravamo stati condannati, per miopia ideologica ed esaltazione xenofila, dopo che le ragioni dei vincitori, non tenendone affatto conto, o svalutandoli, avevano sancito che la nostra nazione fosse, per la prima metà del secolo, tributaria all’arte francese e, per l’altra metà, dal dopoguerra in poi, a quella degli Stati Uniti.
Nulla di più falso, ma intanto non è stato facile debellare del tutto questo “giudizio” occhiuto e miope, le cui resistenze ostinate perdurano anche dopo il crollo delle ideologie, allorché, all’evidenza, si sono palesate le imposture spesso celate dietro i vapori oppiacei di reclamizzate vernici.
Le svolte epocali impongono le riletture e tornano legittimati, in giusta luce, i meriti delle avanguardie italiane.
Scrive Celant: “Dopo la sconfitta del fascismo e del nazismo, quanto artisticamente prodotto all’epoca di tali dittature subisce un rigetto e viene sconfessato, perché al servizio della loro comunicazione totalitaria. Dimenticando che l’arte rifugge in generale dall’assoggettamento perché, quando accetta di collaborare con il dominio politico, cade in un monumentalismo realista, la si colloca fuori dalla storia. Tuttavia le richieste di condanna dei caratteri reazionari dell’arte italiana e tedesca, sottende un attacco più greve. Quanto spaventa e va rimosso nell’arte dei vinti, è l’osmosi tra arte globale e cultura totalizzante sia essa di matrice reazionaria, come in Italia o in Germania, che rivoluzionaria, come in Russia. Al rapporto tra arte e società in negativo o positivo, a seconda delle angolazioni ideologiche, si preferisce su forte richiesta della società d’oltre oceano un’arte pura, impregnata di fede formalista e apolitica che comporterà negli anni futuri (il nostro oggi) una graduale neutralizzazione ed esteticizzazione con successiva commercializzazione delle avanguardie”.
Verrebbe da dire: poveri gli artisti invisi ai regimi totalitari, poveri i testimoni del disappunto comunque espresso, poveri anche i geni dell’arte che non fanno i rivoluzionari, perché chi vince li accomuna tutti in una vicenda da dimenticare, senza andare per il sottile. In questi casi si corre il rischio che un “rivoluzionario”, mediocre artista, possa giovarsi della sua passione politica per fare alata testimonianza senza consistenza creativa.
È un discorso crediamo, per fortuna, superato: ormai è ben documentata la nostra identità artistica che per un secolo ha dato il suo prezioso contributo alla storia dell’arte nel mondo.
Un dato essenziale e inconfutabile: tutte le altre nazioni, per secoli, hanno attinto al nostro patrimonio e in quello c’erano disseminati i presupposti per procedere al futuro, ritrovarvi quella dimensione etica che tanti artisti “solitari” ebbero cara.
Intanto proprio per uscire di polemica, fermo restando che l’arte ritrova sempre i tempi giusti per motivare le sue ragioni (la storia dell’umanità in questo è sempre prodiga nei confronti della genialità, specie quando non è profeta nel suo spazio, in una patria ostile per pregiudizio o interessi da tutelare), proviamo a ipotizzare, quod deus avertat, una vittoria dei totalitarismi sulle ragioni della libertà.
Cosa sarebbe accaduto? Non ne parliamo più.
Partiamo dall’eredità del XIX secolo e rendiamoci conto che il divisionismo, che fu scuola per diversi Maestri che incontriamo in questa rassegna, altro non significò che istanze ideali coniugate a istanze sociali: voglia di comunicare i disagi di un tempo attraverso idee, processi psicologici, stati di coscienza, accumuli dell’immaginario.
Divisionismo e simbolismo avviarono un processo di revisione della realtà visibile. Da questo humus prende l’avvio “la raffinata arte del bianco e nero” come definì Vittorio Pica i pastelli divisionisti da cui derivarono i notturni di Balla, i carboncini di Boccioni, le sintesi che ritroviamo lungo tutto il secolo fino all’avanguardia romana, fino al discorso della spersonalizzazione, delle solitudini convulse, delle traduzioni abbreviate, dovunque insomma tracciati e aree di chiaroscuro, nella vaporosa emozione di soglia, facessero percepire assilli, desideri, disperazioni. Nel tempo “proprio”, quello d’appartenenza, i segni vitali del bianco e nero fecero testimonianza di antiufficialità.
È stato ben sottolineato che questo filone grafico che coinvolge i futuristi e gli interpreti della stilizzazione astratta è una risposta al disegno francese e secessionista, oltre ad essere una “…alternativa al vacuo gigantismo e allo storicismo dell’arte monumentale” (Anna Maria Damigella). È importante precisare che la paternità di un movimento resta, specie quando si propone con violenza dirompente e con tanta voglia di legittimazione, proprio dove c’è minor rischio di affrontare la reazione dell’acquiescenza. Il futurismo non poteva che essere presentato a Parigi, ma della sua originalità non si discute e neppure del coraggio di proporre il nuovo assoluto proprio dove c’era il vanto del primato della modernità.
In Italia c’era da affrontare una sfida corpo a corpo; a Parigi era l’idea nuova a sconvolgere il clima delle proposte d’avanguardia, esigendo un riconoscimento di primo piano. Il Manifesto pubblicato (a pagamento) sul Figaro il 20 febbraio del 1909, diede l’avvio ad un’autentica rivoluzione. I principi erano chiari: identificazione dell’arte con la vita, coscienza del tempo, rottura con il passato seguendo il processo della civiltà industriale, dinamismo che rappresenta un corpo in tutte le fasi del moto, bellezza della velocità, della lotta. Il Movimento rinnova tutte le arti, pittura, scultura, architettura, teatro, letteratura, nella simultaneità spaziale, nella dirompente anarchia, nelle parole accostate per associazioni meccaniche, nell’eversione della sintassi, il rumore tecnologico coniugato all’onomatopea naturale, valeva anche a significare la continuità tra natura e tecnologia.
È stato fatto notare che il futurismo nel suo impeto eversivo, nella sua pratica d’avanguardia, aveva il limite nella celebrazione messianica della tecnologia: il furore eroico esaltava il militarismo e l’imperialismo politico-economico. Intanto va sottolineato che fu il Futurismo, avanguardia italiana, ad influenzare Apollinaire, autore dei Calligrammi, ardente poeta modernista che esalta la vita in tutte le sue forme ed è animato da un misticismo progressista.
Intanto Majakovskij, in Russia, proprio dal Movimento italiano prese le mosse per il suo cubofuturismo in cui si ribadisce che l’affermazione “arte come vita” poteva essere verificata come proposta antiborghese e anarchica. È indiscutibile che proprio i movimenti d’avanguardia del Novecento italiano abbiano influenzato il surrealismo, il dadaismo, il tachismo. Andrè Breton, promotore del Manifesto del Surrealismo (1924) e della rivista La rivoluzione surrealista (1924-1929), riconosce nella celebre Antologie de l’humor noir (1940) i meriti di De Chirico e Savinio come innovatori dell’arte del Novecento.
Citiamo dal saggio di Maurizio Fagiolo dell’Arco “De Chirico e Savinio dalla Metafisica al Surrealismo”, il passo di Breton e la relativa risposta di Savinio che si trova nell’introduzione al libro Tutta la vita.
Attribuendo ai due fratelli una funzione di fonte mitica, ma anche una spinta come presque indiscernable, Breton scrive: “Tutta la mitologia moderna ancora in formazione ha le sue fonti nelle due opere di Alberto Savinio e di Giorgio De Chirico, opere che raggiunsero il loro punto più alto alla vigilia della guerra del 1914. Essi sfruttarono simultaneamente le risorse visive e auditive ai fini della creazione di un linguaggio simbolico, concreto, universalmente intelligibile in quanto tende a testimoniare con massimo rigore la realtà specifica dell’epoca, (l’artista che si offre come vittima del suo tempo) e l’interrogativo metafisico proprio di quell’epoca (il rapporto con gli oggetti nuovi di cui essa è portata a servirsi e quelli vecchi, abbandonati o meno, è tra i più inquietanti, nella sua esasperazione del senso della fatalità)”.
Ecco la risposta di Savinio: “Iniziatori dunque per quanto inconsapevoli del surrealismo siamo noi due fratelli, figli della stessa madre e dello stesso padre, e fratelli nello spirito non che nella carne. In materia di surrealismo come contestare le affermazioni del suo teorico più riconosciuto?”.
La pittura metafisica superava la visione normale desunta dall’esperienza e trasferiva nell’immaginario sensazioni e stati d’animo in cui oggetti e figure si rivelavano come epifanie inquietanti, magiche, coniugate fra loro fuori da ogni logica. L’enigma metafisico si celava nelle cose a portata di mano: la veduta doveva trasformarsi in visione e il visionario in veggente. Viste da angolature diverse le cose si “rivelano”, l’arte si avvicina al sogno, allo spirito dell’infanzia; coglie visioni senza tempo, in cui convergono passato e futuro. Non dimentichiamo che l’ufficialità dell’arte parigina lesse le intuizioni dechirichiane come ricerche scenografiche, avvertendo, solo dopo le chiarificazioni di Apollinaire, le illuminazioni liriche di un sognatore malinconico che, di fronte ad ogni meditazione sulla realtà, diventava Edipo di fronte alla Sfinge, il visionario di fronte all’enigma. Era stato Nietzsche ad ispirargli quel ritrovato fascino dei giochi cari all’infanzia: la sua arte rivelava il mondo come “immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli curiosi, variopinti, che mutano d’aspetto”. Giocattoli che deludono chi li rompe per capirne i meccanismi, giocattoli che ripropongono misteri inconoscibili ed alimentano i pensieri cari alla malinconia. Se ti coglie, pur avendo tutto, pur appagato nei desideri, ti accorgerai di voler qualcosa che non conosci, qualcosa di vago e misterioso che ti farà soffrire anche non sapendo perché.
Dalla memoria dell’infanzia De Chirico e Savinio prenderanno le mosse e, ciascuno per la sua strada, saranno fari per l’arte del Novecento. La scuola pittorica che prende l’avvio a Ferrara nel 1917 aveva in De Chirico un Maestro che già la praticava dal 1910. I metafisici Carrà e Morandi daranno, come vedremo, svolte personali alle loro esplorazioni nei recessi dell’interiorità. Carrà via via recupererà la poetica delle cose ordinarie con le quali aveva da sempre avuto rapporti di naturale confidenza. Morandi ricava da se stesso le modalità metafisiche: c’era una logica interna alla sua arte che gli consentiva di coniugare le sue geometrie compositive alle lezioni dei primitivi, alle conquiste di Giotto, Masaccio, Piero della Francesca. Contano alla fine per lui la severa tavolozza, l’atmosfera assorta.
Il dibattito artistico italiano, veramente da re-investigare, perché vi figurano intuizioni illuminanti anche dove la passione si accende nel contraddittorio, trova il suo campo aperto, tra il 1918 e il 1922, nelle riviste alle quali critici ed artisti eminenti affidarono i loro motivati pensieri. Non dimentichiamo che il clima di ritorno all’ordine s’avvertiva fortemente in tutta l’Europa.
Valori Plastici, la rivista fondata da Mario Broglio, edita dal 1918 al 1921, si distingueva, ed eminenti critici lo hanno fatto notare, per le riflessioni sul carattere dell’arte, per le motivazioni critiche, per ri-trovare un’arte improntata al libero spirito formale italiano.
Vi collaborarono Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Ardengo Soffici, Filippo De Pisis, Emilio Cecchi e tanti altri artisti di forte temperamento e di varia formazione. Bisogna guardare più alla voglia di produrre informazione e al sorprendente fermento di idee (che rivelavano altrettante interpretazioni del nuovo da proporre), che ad una non sempre ben interpretata attenzione al ritorno all’ordine.
Era un ordine non conformista, era un bisogno di ritrovarsi in un’arte che rispondesse, riflettendo sulle tradizioni italiane, ad un bisogno di “Libertà”, che solo l’arte consentiva di respirare. Gli scritti dei maestri spesso fanno avvertire l’esigenza di un ritorno all’ordine, ma non era un richiamo direttamente politico. C’era la necessità di ritrovare il mestiere, il rigore linguistico; i “fatti” contingenti erano altra cosa; quali che fossero gli sconvolgimenti, le conclusioni belliche avrebbero fatto ritrovare gli artisti sulle magnifiche trincee di sempre: quelle dell’arte per cui vale la pena di vivere.
Lo confermava lo stesso Boccioni in una lettera del 1916: “… da questa esistenza uscirò con un disprezzo per tutto ciò che non è arte. Nulla è più terribile dell’arte. Tutto ciò che vedo al presente è un gioco di fronte a una buona pennellata, a un verso armonioso, a un giusto accordo. Tutto in confronto a ciò è questione di meccanica, di abitudine di pazienza, di memoria. C’è solo l’arte”. E non possono essere negate le sue conquiste da cui dopo lunga o breve sospensione si dovrà ripartire per affermare l’autonomia di una ricerca che, in virtù delle preesistenze, motiverà il progetto per nuovi percorsi.
Il pensiero e l’arte ricercano in quel clima, in primis, centralità e autonomia e, anche se questa non è la sede opportuna, è giusto far notare che, proprio nel fermento di riflessioni variamente motivate, emersero le vere personalità dei grandi pittori italiani della prima metà del secolo. Non è semplice “seguire” le motivazioni che determinano variazioni di scelte acclamate per l’immediato, con successiva perdita di credito. Sarebbe da riscoprire, tanto per citare un esempio di celere mobilità di innamoramenti, Ardengo Soffici, che vive molteplici esperienze, passando dalla macchia al divisionismo simbolista, dai fauves al cubismo; conosce Derain, Braque, Picasso; fonda con Papini e Prezzolini la rivista La Voce; attacca il Futurismo, ma quando futuristi e vociani si alleano, diventa futurista. Esalta la simultaneità, la giostra dei sensi e i chimismi della parola e la pone sulla pagina proprio come il pittore rende dinamici i suoi colori sulla tela. Collabora poi con Lacerba, esige il futurismo ridotto al cubismo, è fautore del ritorno all’ordine conservatore, esalta la tradizione del Quattrocento toscano, partecipa a Valori Plastici, è nel vivo del movimento Novecento, né rinuncia alla Ronda e a Strapaese. Uno sguardo al movimento artistico Novecento, che si sviluppa nel terzo e quarto decennio del secolo, ci consente di seguire l’evoluzione di quella ricerca di realtà che, nel clima del ritorno all’ordine, diede vita al realismo magico: la resa di uno stupore lucido, affiancata peraltro dalla concretizzazione di un’idea o da una voglia di sintesi.
Giotto e i rinascimentali furono ripresi con tutto l’amore per la forma-volume, per la resa poetica del quotidiano.
Novecento è anche in questo un movimento da approfondire per una coerente rilettura proprio delle sostanziali differenze che distinguevano i protagonisti da una partecipazione fortemente composita. Nelle mostre di Novecento c’erano infatti i tosco emiliani di Strapaese con Maccari, Soffici, Rosai, Conti; i fautori di una modernità europea, come De Pisis, Morandi, Casorati; i pittori dell’intimismo naturalistico come Semeghini, Tosi, De Grada, Guidi.
Già era di per sé composito il primo gruppo dei novecentisti, che muovevano da diverse posizioni, si aggregavano per proporre una soluzione all’arte italiana; mai venne, perché neppure il movimento ebbe mai una definizione generale.
Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, furono i novecentisti della prima ora cui seguirono vari astri, comete, meteore dell’arte italiana di un momento importante della ricerca. C’erano i sostenitori dei valori dell’arte antica e delle tecniche artigianali, Funi, Campigli, Sironi, Martini; c’era l’imbrigliabile Licini, il poeta ribelle che, con una toccata e fuga, aderisce e procede per la sua strada. Respinsero Novecento Scipione e il gruppo della Scuola Romana. Lo respinse Guttuso e ne presero le distanze Birolli e il gruppo di Milano: negli anni Trenta si dovevano fare i conti con l’estetica del regime, con le utilizzazioni della cultura dell’immaginario per esaltare valori epico-popolari e quel monumentalismo caro alla dittatura alla stessa stregua del muralismo. Il fascismo esigeva i suoi monumenti celebrativi; tornava il mito dell’eroe e della mediterraneità, ma oltre il pretesto prevalse la libera forza ispirativa. Nel caso di Sironi anche il momento laudativo si ammantò di malinconia e di grigiore nella coscienza delle periferie. Intanto a Torino i “Sei” Chessa, Galante, Levi, Mencio, Paulucci e Boswell erano più apertamente europei attraverso la lezione francese. Erano in netto contrasto con Novecento e la spinta al rinnovamento veniva da Lionello Venturi, Edoardo Persico e dal mecenate Riccardo Gualino.
Abbiamo detto che a Roma la più forte testimonianza anti Novecento è rappresentata dalla Scuola Romana di via Cavour. Roberto Longhi la definì scuola, ma non lo fu certo nell’accezione comune. Fu scuola di Vita e Pensiero, questo è certo: sfidarono l’arte di regime, oltre a Scipione, Mafai, Antonietta Raphael, Mazzacurati, Cagli, Fazzini, Pirandello, Mirko, tutti aggiornatissimi e fortemente critici anche nei loro programmi.
Nel 1930 Milano apre la strada all’astrattismo con la galleria Il Milione. Vi si riuniscono gli artisti sensibili alle avanguardie europee e le ricerche astratte vivono due momenti. Il primo è legato all’espressività del colore: Munari, Licini, Reggiani, Soldati, Veronesi. Il secondo è sensibile al rigore formale con il gruppo di Como: Badiali, Radice Rho, fedeli alle conquiste di Mondrian. L’arte impegnata all’etica della vita ha il suo sbocco in Corrente, il movimento che con la rivista Corrente di vita giovanile, diretta da Ernesto Treccani, raggruppa artisti della levatura di Birolli, Sassu, Cassinari, Guttuso, Migneco, Morlotti: l’arte qualifica la vita e alimenta la cultura politica e sociale. Le scelte aggiornate partono dall’espressionismo, ma è Picasso che viene particolarmente sentito: Guernica è il modello d’impegno politico; la realtà è il campo ottimale di confronto. A Corrente partecipano dei veri antifascisti; Levi aveva subito il confino politico, Sassu era stato punito con il carcere, avendo dipinto Fucilazione nelle Asturie.
Corrente gridava l’ingiustizia di ogni guerra, “anche se vinta”, come aveva sostenuto Cattaneo, e l’impegno civile venne sostenuto dai Italo Valenti, Arnaldo Badodi, Emilio Vedova, Giacomo Manzù, tutti decisi a gridare l’orrore della violenza e della ferocia bellica, anche attraverso la metafora di temi sacri, deposizioni, crocifissioni. Guttuso dipingerà il martirio del Cristo come scena attuale tra forche, fucilazioni, massacri. Nel secondo dopoguerra, l’arte s’impegnerà a testimoniare per non far dimenticare: lo confermano, come vedremo, Guttuso con Got mit uns, Memoria delle Fosse Ardeatine e Cagli con i Disegni per la Libertà.
C’è inoltre un momento d’aggregazione che non può assolutamente essere ignorato. Gli artisti che reagirono alle violenze dei regimi totalitaristi si ritrovarono, ognuno con il proprio bagaglio, a far parte dell’arte della Resistenza. Fu un momento unificante nella ricerca di una dimensione umana. L’arte si pose al servizio dell’uomo e si ritrovarono fratelli d’ideali Renato Guttuso, Mafai, Antonietta Raphael, Morlotti, Treccani, Kodra, Becchi, Birolli, Tassinari, Berti, Biasion, Bergonzoni, Vedova, Mirko, Leoncillo, e tanti altri che più tardi avrebbero ripreso ciascuno il proprio cammino. Fu il tempo della coscienza della realtà e dell’impegno sociale e fu concorde il grido di libertà e d’orrore per tutti gli scompensi mortali che separano l’umanità dalla sua crescita e l’individuo dalle vere ragioni della vita. Dopo l’esperienza della II Guerra mondiale i Maestri che avevano improntato il secolo trassero da soli, autonomamente, le conclusioni. I grandi difficilmente sono tributari a qualcuno: offrono i propri doni per un monito che vale per il tempo che s’infutura. La nostra indagine interessa un orizzonte ben individuato fino al realismo post bellico e poi nel tempo di nuovi progetti. Abbiamo voluto far precedere questo breve excursus sul Novecento da una panoramica altrettanto sintetica del presente dell’Arte, per meglio verificare come il rapporto arte società si sia andato perdendo con il disimpegno, con la rinuncia al ruolo civico che esige perfettamente conciliate la conoscenza e la partecipazione. Sempre per ampliare i suggerimenti didattici abbiamo tracciato in ordine alfabetico i profili degli artisti che figurano in mostra nella splendida Rocca di Umbertide, dove il giovanissimo Corrado Cagli diede prova del suo genio creativo. Va precisato che i profili degli artisti fanno parte del nostro repertorio d’archivio e che i commenti alle opere in mostra sono sempre funzionali alla didattica: suggeriscono infatti una prima modalità d’approccio interpretativo.
Angelo Calabrese

La mostra sarà accompagnata da un catalogo edito da Skira.

Immagine: Giorgio De Chirico, Canto d’amore. Arazzo alto liccio, lana, 179 x 217 cm

Ufficio Stampa
Roberto Begnini tel. 06 69190880 fax 06 69925790 studiobegnini@gmail.com

Ufficio Stampa Skira
Lucia Crespi tel. 02 89415532-89401645 fax 89410051 lucia@luciacrespi.it

Inaugurazione Sabato 24 maggio 2008 alle ore 17.30

Rocca – Centro per l’Arte Contemporanea - Piazza Fortebraccio Umbertide (PG)
Orario
tutti i giorni 10,30 – 12,30 e 16,30 - 19. Lunedì chiuso. Ferragosto aperto.
Biglietto d'ingresso € 5. Ridotto € 3 (adulti oltre i 65 anni e gruppi superiori a 10 persone)
Ingresso gratuito per bambini fino a 11 anni

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Max Marra
dal 24/7/2015 al 29/8/2015

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