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il morir e' il morir della morte...
dal 20/1/2009 al 27/2/2009
lun - sab 10-14 e 16-20 durante Artefiera aperto anche la domenica
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Giovanni Blanco




 
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20/1/2009

il morir e' il morir della morte...

Campo, Bologna

Da una frase di Carmelo Bene 5 artisti contemporanei riflettono sul tema della morte in dialettica con opere antiche. Espongono Margherita Abbozzo, Giovanni Blanco, Ives Broda, Francesco Falciani, Luigi leonidi.


comunicato stampa

Da una frase di Carmelo Bene cinque artisti contemporanei riflettono sul tema della morte in dialettica con opere antiche. Con una presentazione di Elisabetta Longari.

Opere di Margherita Abbozzo, Giovanni Blanco, Ives Broda, Francesco Falciani, Luigi leonidi.

Elisabetta Longari
Impermanente

La morte è senza dubbio in ogni epoca sempre attuale. Forza incessantemente al lavoro, responsabile di ogni cambiamento (non si vive forse il tempo come l’avanzare inesorabile del suo passo?), la morte è quindi la più autentica protagonista di ogni vivere. La culla e la tomba sono i termini tra cui si dipana l’umana vicenda; la vita, come sa visualizzare in modo istantaneo Boltanski, si riduce a un trattino di separazione fra due date. Nonostante la grandezza invincibile della morte, o anzi, proprio per questo, nella cultura occidentale contemporanea le è riservato il ruolo di principale tabù sociale (1).

La società del benessere, anche se attraversata da crisi economiche di diverse entità, in modo da garantire che la macchina del consumo “giri” appieno, continua a incitare a una sorta di selvaggio epicureismo (declinato in forma degenerativa, come una sorta di esagerazione del proverbiale “edonismo reganiano” di cui parlava con ironia D’Agostino durante gli anni Ottanta). Due sembrano essere i principali prezzi da pagare. Parallelamente alla continua messa a morte degli oggetti, che cagiona la trasformazione del pianeta in un immenso cimitero di rifiuti, vi è una ricaduta sociale e antropologica devastante: si formano intere generazioni di “soldatini” asserviti, manovrati, giocati da desideri indotti, completamente impreparate ad affrontare le questioni più importanti che riguardano tutti, il declino, la malattia, il congedo, la morte.

E proprio perché questi temi, legati all’impermanenza, alla deperibilità, al dissolvimento, sono tutti in ultima analisi riconducibili alla morte e costituiscono “il grande rimosso”, non deve stupire la capillare diffusione, l’invadenza perfino compiaciuta, d’immagini che “mettono il dito nella piaga”, facendo spesso leva sul sensazionale nel quadro di una strategia della provocazione.
La pervasività nel mondo dell’arte delle tematiche inerenti alla morte è ben testimoniata dalla passata edizione della Biennale di Venezia, tanto che avrebbe facilmente potuto portare il titolo La morte a Venezia, come il romanzo di Thomas Mann. Per non citare che uno dei numerosi lavori inerenti al tema tra quelli presentati, si ricordi il video Impossibile immortalare la morte, girato da Sophie Calle al capezzale della propria madre e che ne documenta gli ultimi giorni di vita. Eccessivo? Impudico? E se sì, rispetto a quali criteri? (Il sesso, che per molti secoli è stato osceno, sconveniente, innominabile, abbonda oggi nella quotidianità, sotto gli occhi e sulla bocca di tutti, mentre il suo posto è stato preso dalla morte) (2).

A testimonianza della presenza di una forte pulsione voyeristica nei confronti della morte, un recente episodio “mediatico”che ha coinvolto il mondo dell’arte, indipendentemente dalla veridicità del suo contenuto, risulta ancora più esplicito. Una catena mediatica, che ha continuato a circolare per diversi mesi diffondendosi a macchia di leopardo, consisteva in un appello che richiedeva una presa di posizione rispetto alla terribile storia che veniva racconta: un artista latinoamericano, tale Guillermo Habacuc [!] Vargas, avrebbe fatto morire di fame un cane all'interno di un museo e quest’agonia, per lui, sarebbe stata una forma d'arte. In allegato, le fotografie del povero smilzo cane affamato, poco più di uno scheletro, esibito all’”alternativo” pubblico dell’arte, certificavano della crudeltà dell’azione, muovendo gli animi al giusto sdegno.

In questa sede è d’interesse secondario ciò che invece è centrale dal punto di vista etico, ovvero stabilire se il fatto denunciato è avvenuto o meno: la constatazione di una forte componente necrofila/necrofoba nell’humus sociale, che ha creato le condizioni favorevoli perché l’invenzione e la diffusione informatica del “caso” attecchissero con successo, non è infatti alterabile in alcun modo né dalla verifica né dalla smentita della notizia stessa.
Senza arrivare a questi esempi estremi in cui la morte, reale o simulata, è letteralmente esposta “in diretta”, un grande numero di artisti sente la necessità di corteggiare, insieme alla difformità, altra grande musa del contemporaneo, proprio la morte, quasi i due termini costituissero un duetto di fanciulle irresistibilmente attraenti, da rincorrere e spiare, e da cui è impossibile togliere gli occhi di dosso.

Ognuno a suo modo, chi mettendo in luce gli aspetti più macabri (come Peter Witkin), chi perfino con ironia, chi con lo spirito di un inviato speciale in missione per un esorcismo, gli artisti avvicinano la morte, i suoi oggetti, i suoi corpi e i suoi luoghi, a volte con modalità dirette (si pensi al ciclo della Morgue di Serrano e ai funerali, ospedali, alle camere mortuarie a cui ha dato accesso l’occhio indiscreto di Nan Goldin), altre volte invece evocando il tema in senso lato, in modo metaforico, con immagini che sprigionano una luce dolente, rilasciando un amaro retrogusto che rimanda alla tradizione della vanitas, alla drammatica e poeticissima coincidenza tra splendore e caduta, bellezza e corruzione.

I lavori di Margherita Abozzo, Giovanni Blanco, Ives Broda, Francesco Falciani e Luigi Leonidi, riuniti in questa mostra intorno ad una frase di Carmelo Bene, testimoniano di una vasta gamma d’approcci allo stesso tema su cui, come si è visto, insiste lo spirito del tempo, quasi come se oggi più che mai si avvertisse il bisogno di imparare a guardare all’unico orizzonte certo e comune a tutti. E che non può che restare un mistero.

'D’altronde, sono sempre gli altri che muoiono' (3)

Note
1-Nella ricca bibliografia sulla morte a questo proposito si veda Philippe Ariès, Essais sur l’histoire de la mort ed occident du Moyen Âge à nos jours, Éditions du Seuil, Paris 1975 (trad. it. Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano 1978).

2-Non è un caso se tra le serie televisive americane che hanno riscosso maggior successo di audience mondiale figurano Sex and the City e Six Feet Under , basate, ed è subito chiaro già a partire dal titolo, su i grandi temi di Eros e Thanatos. Six Feet Under è ambientato in una casa di esequie funebri; ogni episodio incomincia con la morte di qualcuno, che funziona come motore narrativo della vicenda e ne costituisce l’ossatura dello svolgimento che ha come filo rosso proprio le problematiche inerenti a quel caso specifico di morte e di sepoltura. Grande è l’insistenza visiva su particolari macabri, come del resto C.S.I. e Gray’s Anatomy.

3 -Nota epigrafe sulla tomba di Marcel Duchamp, bellissimo esempio di epitaffio autografo che lo conferma campione in leggerezza.

Inaugurazione mercoledì 21 gennaio dalle ore 18 alle 21

Campo
via Belvedere 2b, Bologna
orari di apertura lunedì-sabato ore 10-14/16-20
durante Artefiera aperto anche la domenica.
ingresso libero

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