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Trieste
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Gian Butturini
dal 2/2/2009 al 27/2/2009
lun - ven 8.30-18.30, sab 8.30-13.30

Segnalato da

Biblioteca Statale




 
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2/2/2009

Gian Butturini

Biblioteca Statale, Trieste

Gli amori di Marco Cavallo. Immagini del cambiamento 1975/2006. La mostra propone fotografie di Gian Butturini che si dedico' a reportages e film su tematiche politiche e sociali lavorando anche a Trieste con Franco Basaglia; fu tra i primi fotoreporter a riprendere la dura battaglia per riaffermare la dignita' dei "matti".


comunicato stampa

A cura di Annamaria Castellan

La mostra fotografica propone immagini di Gian Butturini (Brescia 1935-2006), formatosi all’Accademia di Brera. Dedicandosi inizialmente alla grafica pubblitaria, la abbandona per dedicarsi a reportages fotografici e film su tematiche politiche e sociali, che gli valsero numerosi riconoscimenti.

Dal 1974 al 1976, lavora a Trieste con Franco Basaglia per documentare i grandi cambiamenti del mondo psichiatrico, pubblicando - tra i suoi quaranta titoli - il libro "Tu interni... io libero".

Molte le mostre personali e collettive, sia in Italia che all’estero.
Il suo ultimo lavoro lo vide nuovamente impegnato a Trieste, per documentare i servizi del Dipartimento di Salute Mentale a quasi trent’anni dalla Legge 180.

Gian Butturini

Su invito di Peppe Dell’Acqua, nel giugno del 2006, per quindici giorni, Gian Butturini fece ritorno a Trieste.
Come le volte precedenti, furono giorni vissuti a stretto contatto con le persone che frequentano e lavorano nei centri di salute mentale, nelle residenze, nella clinica psichiatrica. Il suo obiettivo era documentare il lavoro delle cooperative, le riunioni, le assemblee, le prove degli attori dell’Accademia della Follia, il laboratorio di pittura, di sartoria, la festa con i bambini ed il falò nella notte di San Giovanni.
Da Domio ad Aurisina, da Barcola ad Androna degli Orti, da San Giovanni a Valmaura, dall’Ospedale Maggiore, presso il reparto Diagnosi e Cura all’ edificio “M”, sede di Radio Fragola e di alcune Cooperative Sociali, instancabile ed entusiasta, fece più di tremila “scatti” cercando di cogliere, tra i gesti, i visi delle persone la realizzazione dell’utopia di Franco Basaglia.
Per Gian tornare a Trieste era sempre una gioia. Qui ritrovava le persone con le quali aveva vissuto le fasi della chiusura del manicomio.
Fu tra i primi fotoreporter a riprendere la dura battaglia per riaffermare la dignità dei matti. Un giorno a Venezia Franco Basaglia, gli disse “Perché non vieni a Trieste? Potresti fare un buon lavoro” e poi aggiunse “Tutto il paese deve sapere cosa sta succedendo a Trieste... prendi la macchina fotografica, la cinepresa e vivi con noi!”.
Così fece, ebbe come lui stesso scrisse nel libro “C’era una volta l’ospedale psichiatrico”, una “forte esperienza formativa”.
Fare da assistente a Gian è stato impegnativo ma altamente formativo.
Per quindici giorni gli programmai le giornata standogli sempre vicino, procurandogli migliaia di fotogrammi, per lui prosciugai le scorte di più di un laboratorio fotografico, finito il bianco e nero attaccammo anche i colori, le pellicole non bastavano mai.
Contrattai le colazioni e lo accompagnai a cena, ai vari appuntamenti e se non potevo trovavo persone che lo facessero al posto mio.
Quando, poi, gli comunicai che il titolare del bed and breakfast, dove dormiva, mi consigliò di cambiargli sistemazione in quanto aveva fatto un gran casino, mi aveva urlato al telefono, spaventandomi, che si sarebbe occupato direttamente di quei “piccoli borghesi di merda”, lui, “il rivoluzionario combattente”. Ma poi, quando lasciò la stanza, strinse la mano al proprietario scherzandoci su.
Mi spiegò che nei suoi numerosi viaggi aveva vissuto in condizioni terribili, dormito in baracche ed anche sulla nuda terra, disse che non si era mai risparmiato e forse anche questo fu il motivo dei suoi ultimi acciacchi e dolori.
Avevamo parlato tanto di fotografia, di Franco Basaglia, delle sue donne, dell’incontro a Berlino con Manuela, la sua seconda moglie, della figlia Marta per la quale nutriva il suo più grande amore, si preoccupava dei suoi affetti e mi parlava orgoglioso dei 30 e lode degli ultimi esami universitari.
Mi raccontò della ragazza di Cuba a cui acquistò una casa per toglierla dalla strada e di una giovane psicologa che aveva incontrato proprio in quei giorni, a lei inviava degli sms molto teneri, ed ancora di Regina una giovane e bella istriana madre di tre figli che un parto andato male aveva irrimediabilmente segnato. Il marito aveva firmato per l’internamento e Regina era diventata una “cronica” del reparto agitati, era il 1975. Mi disse: “Regina mi chiamava “Castro” proprio perché gli assomiglio, sai un giorno mi chiese di fare l’amore, la sua richiesta mi imbarazzò e me ne andai. Regina fece una brutta fine, si buttò in mare perché, quando finalmente ritrovò se stessa, capì che la famiglia la rifiutava quindi preferì togliersi la vita”.
Aveva voglia di parlare mi rese partecipe della sua visione dell’amore, della vita e della morte e di Dio.
Con gioia aveva ritrovato Franco Rotelli, Peppe Dell’Acqua, Mario Reali, Angela Pianca, Claudio Ernè, Giovanna Butti, Ardea Cescutti, Renato Davì ed incontrato nuovi amici, Livio Struia, Claudio Misculin, gli artisti ”squatters” francesi, Ugo Pierri, Licia Oretti, Carmelo Vranich, Mario Colucci, Pino Rosati, Don Simeone, Mariuccia del laboratorio di sartoria, Anna Maria e Angelo del bar “Il posto delle fragole” ed ancora tanti altri. Aveva girato come un trottola per tutta la città non smettendo mai di scattare fotografie.
Fotografò “Il festival delle diversità”, dove conobbe Licia Oretti e le donne dell’Associazione Cagipota, poi sul lungomare di Barcola fece dei ritratti alle ragazze che prendevano il sole in topless, si avvicinava trotterellando, scattava e poi iniziava la conversazione, nei giardinetti di San Michele regalò una rosa alla ballerina di flamenco e ballò ritmi celtici sotto le stelle alla festa di Liberazione.
Partecipò al laboratorio di pittura ad Aurisina, chi passa di la può vedere l’impronta della sua mano impressa su di una pietra del sentiero dipinto dagli artisti, utenti, infermieri ed operatori del centro diurno.
Seguì la semifinale dei mondiali di calcio al centro di salute mentale della Maddalena, incontrò Ugo Pierri all’Antico Caffè San Marco e pranzò con Marta e Manuela in un tipico agriturismo del carso triestino.
Sarebbe rimasto ancora qualche giorno per completare il reportage tuttavia tornò a Brescia per preparare le bozze del nuovo libro al quale aveva già trovato il titolo: “Gli amori di Marco Cavallo”. Diceva: “lo divido in tanti capitoli e all’inizio di ogni capitolo ci metto una foto di Franco”.
Ci sentimmo al telefono, era molto contento, mi aveva comunicato di aver perso ben 10 chili. Poi volò verso Cuba senza, prima della partenza, spedire agli amici dei ritratti ed un’anteprima del reportage.
Dovevamo incontrarci a Brescia invece il 29 settembre 2006 un improvviso e inaspettato malore interrompeva la sua rincorsa.
Gian era sempre in movimento, curioso, pronto a schierarsi dalla parte dei paria, e di assumere il punto di vista degli esclusi dalla società. Aveva camminato tra una vasta umanità sciagurata e dolente sotto il livello della povertà.
Ciò che lo muoveva era la passione per quell’ideologia in cui, tra gli anni ’60 e ’70, si mischiarono spezzoni di anarchismo e marxismo rivoluzionari, di individualismo romantico e di lotte di liberazione dei popoli, la passione per qualsiasi forma di vita, la passione per le donne, per il cibo e per l’arte.
Lontano dal mordi e fuggi di tanto reportage pur significativo iconograficamente ma d’ambiguo cinismo, Gian è stato capace di partecipare al disagio di coloro che fotografava diventando loro amico, nel caso operatore e poi fotografo. Diceva “fotografare e raccontare le ingiustizie è un modo per combatterle”.
Disordinato, distratto, schietto fino alla scortesia aveva però una gran dote, quella di cogliere in ogni persona incontrata un particolare che a prima vista pare insignificante ma che invece caratterizza il soggetto fotografato e parla della sua storia sconosciuta. Se poi si considera la fotografia, sia come un documento, seppure manipolabile, sia, e al contempo, un oggetto artistico, un qualcosa in cui etica ed estetica sono in costante conflitto, Gian non aveva dubbi: l’estetica stava tutta nell’etica, nel calarsi della foto dalla parte dell’umanità.
Fino all’ultimo Gian aveva lavorato utilizzando la fotografia tradizionale, consumando chilometri di pellicola, fedele e a difesa del bianco e nero come segno di aderenza alla matrice stessa del linguaggio fotografico nella sua passione di verità cercata anzitutto dentro di sé, in una misura di onestà.
Annamaria Castellan

La mostra è organizzata da Acquamarina Associazione Culturale e da Cooperativa Confini Impresa Sociale nell'ambito della Fabbrica del cambiamento, cantiere multimediale di spettacoli, arti e cultura, scienza e ricerca promosso dal Dipartimento di Salute Mentale dell'Azienda Sanitaria n. 1 Triestina.

Inaugurazione 3 Febbraio 2009

Biblioteca Statale
Largo papa Giovanni XXIII 6 Trieste
Orario: lun.-ven. 8.30-18.30; sab. 8.30-13.30
Ingresso gratuito

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