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Mousse Anno 1 Numero 2 giugno 2006



Intervista a Martin Creed

Chiara Costa



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n. 30 settembre-ottobre 2011

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Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011


Work No. 567, 2006
courtesy: Fondazione Nicola Trussardi

Martin Creed & Work No.564, 2006
courtesy: Fondazione Nicola Trussardi

Martin Creed è nato a Wakefield, nello Yorkshire (sì, proprio quello del pudding e della razza canina) nel 1968. Vive a Glasgow fino al 1986, quando si trasferisce a Londra per frequentare i corsi alla Slade School of Fine Arts. Fa parte della seconda generazione della Young British Art e nel 2001 ha vinto il prestigioso Turner Prize. Da allora vive tra Londra e Alicudi, la più remota (e meno frequentata) tra le isole Eolie. Gli hanno dedicato mostre personali la Tate Britain, la Kunsthalle di Berna, Hauser & Wirth a Zurigo, e a marzo lo abbiamo visto alla Biennale di Berlino curata dal trio Gioni-Cattelan-Subotnick. Lo abbiamo incontrato a Milano in occasione della mostra I like Things organizzata dalla Fondazione Trussardi negli spazi monumentali dell’Arengario. Qui Creed espone lavori vecchi e nuovi, realizzati con l’utilizzo di diversi media: l’enorme scritta al neon Small Things e il video in cui dei ragazzi si infilano un dito in gola e vomitano; l’installazione composta da luci a intermittenza e il pianoforte “posseduto” che non produce musica ma rumore. La sua è una ricerca dettata dalla pura necessità di esprimersi, prescinde dal mezzo: tanto ovvio quanto disarmante. Creed è rigoroso anche nel rifuggire le definizioni: per questo motivo, messa da parte la terminologia propria della critica d’arte, abbiamo cercato di farlo chiacchierare il più liberamente possibile…ecco cosa ne è venuto fuori. Peccato che non possiate godervi il suo accento scozzese, uscito indenne dagli ultimi inverni ad Alicudi…


Ci racconti qualcosa di “I like things”, il tuo nuovo progetto per la Fondazione Trussardi all’Arengario?
In mostra ci saranno sia lavori nuovi che vecchi. Come sempre, ho cercato di mettere in piedi una bella mostra. La location è spettacolare e vorrei che la mostra lo fosse altrettanto. O perlomeno vorrei che la mostra fosse abbastanza spettacolare in relazione allo spazio…

Facciamo un passo indietro. Come descriveresti l’esperienza alla Biennale di Berlino?
Mi è piaciuta moltissimo! Credo che sia stata curata in modo molto attento e sensibile, con grande rispetto per le opere. Ho partecipato a molte collettive ma devo dire che questa volta sono decisamente soddisfatto di come è stato presentato il mio lavoro; ho avuto l’impressione che per ogni opera fosse stato creato uno spazio (e non l’opposto): questo secondo me è il giusto approccio curatoriale.

Questa volta facciamo un bel po’ di passi indietro… com’è stato per te crescere in una famiglia quacchera nella Scozia degli anni Settanta?
Negli anni settanta?! Come per tutti: pantaloni a zampa e capelli lunghi…per il resto, in effetti sì, i miei genitori sono quaccheri. In realtà in Scozia i quaccheri si chiamano “Society of Friends”. La loro è una religione molto intensa e poco dogmatica. Per farti un esempio, le funzioni consistono il più nelle volte nello stare seduti in cerchio in completo silenzio; se qualcuno ha qualcosa da dire, si alza in piedi e lo fa, senza il bisogno di un ministro che celebri la messa. Loro non credono nelle gerarchie e tra l’altro non sono nemmeno particolarmente fissati con la Bibbia…in effetti è una religione cristiana ma somiglia più che altro a una filosofia orientale. A dire il vero, sospetto che la maggior parte dei quaccheri che conosco non credano nemmeno in Dio. In definitiva io non mi sento un quacchero, però devo ammettere che la trovo una religione molto interessante.

Ho letto che quando eri studente avevi l’abitudine di puntare tre sveglie perché non riuscivi mai a svegliarti, o comunque non avevi nessun buon motivo per farlo. Lo fai ancora adesso che sei un artista affermato?
È vero, allora non riuscivo proprio a svegliarmi. I lavori che facevo, tipo consegnare i giornali a domicilio, non mi stimolavano abbastanza… in effetti adesso che mi ci fai pensare non ho più quel problema, credo voglia dire che mi piace quello che faccio…

Hai detto che desideri stare da solo, ma senza sentirti solo. È per questo che sei andato a vivere ad Alicudi? E quando stai a Londra come te la passi?
Dunque, in verità è un po’ l’opposto… a Londra abito in un punto trafficatissimo, a Brick Lane. Credo che la scelta sia caduta su Alicudi proprio perché non ho mai vissuto in un luogo remoto, o in campagna. Ho sempre vissuto in città e sentivo il bisogno di un cambiamento. Volevo proprio starmene un po’ per i fatti miei, avere del tempo per me senza troppa gente intorno, e ad Alicudi praticamente di gente non ce n’è del tutto… Certo, a volte è un po’ dura. Per esempio in inverno, se il mare è grosso non passano le navi per tre giorni. Questa cosa per me è una novità assoluta; pensa che a Londra mi innervosisco se aspetto la metro e il taxi per più di tre minuti! Aspettare per tre giorni è un altro discorso! Dipendere dai tempi dettati dalla natura ti fa sentire così impotente. Però credo che sia un’esperienza utile. Il contrasto con la città è enorme, ma mi piace.

Nel tuo lavoro la musica ha un ruolo fondamentale e sul tuo sito (www.martincreed.com) si possono ascoltare alcuni brani. La prima volta che le ho sentite mi sembrava di ascoltare David Byrne: ti piacciono i Talking Heads? Quale altra musica ti piace?

Davvero?! Io adoro David Byrne, però non credo di cantare proprio come lui… Per me è un grande, è sicuramente uno dei miei eroi e sono un fan accanito dei Talking Heads. Per il resto, da piccolo ascoltavo soprattutto musica classica: Mozart, Beethoven, Chopin. Poi ho scoperto Bob Dylan, Leonard Cohen, Johnny Cash. Fino a tutto il punk rock, soprattutto i Ramones e i Sex Pistols.

Non sei l’unico artista inglese della tua generazione ad avere una sua band: penso a Georgina Starr, Cerith Wyn Evans e altri. Tu suoni con gli Owada, che hai anche fondato. Che ne pensi?

Sì, Cerith Wyn Evans in realtà suona con una band, ma non è la sua band. Per quanto riguarda gli Owada, abbiamo cambiato nome: cioè, adesso uso il mio nome perché la musica è parte del mio lavoro. Avevo l’impressione che il nome Owada fosse in qualche modo fuorviante. Comunque secondo me il fatto che gli artisti facciano anche musica non dovrebbe stupire: anche i musicisti sono artisti, anche la musica è arte. La musica semplicemente è un altro mezzo per esprimersi. Il fatto che io faccia musica non dovrebbe essere più interessante del fatto che dipinga dei quadri o crei una scultura. Forse siccome gli artisti che operano nel campo delle arti visive raramente fanno musica, allora i casi come il mio fanno notizia…io penso che questi confini dovrebbero essere abbattuti. Tutti possono fare tutto. È solo una questione di mezzi. Tra l’altro, ci sono artisti mediocri che fanno ottima musica…e viceversa.

Facciamo un po’ di pubblicità. Dove si trova il tuo primo disco, Nothing?

In Inghilterra è distribuito da Voiceprint, che però non è proprio un ottimo canale… Forse si può ordinare nei negozi. La casa discografica si chiama Piano e il numero di catalogo è Piano 508. Forse si trova anche su Itunes: lì c’è un po’ tutto. Se non ci sono, beh, in fondo non ci sono neanche i Beatles!

E come mai le tue opere hanno come titolo un numero? È vero che non esiste un’opera numero uno?
Sì è vero, la numero uno non esiste. Ho iniziato a numerare i miei lavori perché non volevo dargli dei titoli. È semplicemente un altro tipo di catalogazione. Quando poi ho numerato i pezzi vecchi, non me la sono sentita di avere il numero uno perché non mi andava di creare delle gerarchie.

Sembri spaventato dall’idea di mettere in mostra più opere contemporaneamente a causa del loro potere narrativo. Come farai in futuro se ti proporranno una grande retrospettiva?
Mi verrebbe un po’ d’ansia, credo, anche se oggi sono più rilassato all’idea di esporre molti lavori insieme. Penso però che le mie opere, così come quelle della maggior parte degli artisti, siano concepite in quanto entità autonome e indipendenti, perciò mi sembra in qualche modo innaturale esporre vari lavori tutti insieme. Sono ideati affinché tra essi e il pubblico si crei qualcosa, un dialogo. Dunque mettere insieme troppe cose sarebbe un po’ come andare a un festival e cercare di ascoltare 10 gruppi contemporaneamente. Secondo me confonde le idee. Finisce che il pubblico si concentra sulle differenze tra gli oggetti esposti, il tutto a svantaggio di quell’alchimia che invece dovrebbe crearsi con le opere. Quando espongo molti pezzi, cerco di far sì che ognuno abbia il suo spazio vitale, e che l’effetto finale sia armonico. Non è facile. Infatti spesso ne allestisco uno solo….

Nelle interviste ti chiedono tutti se la tua arte è minimalista, concettuale, iper-realista… io non lo faccio, promesso. Però mi chiedo se questa cosa delle definizioni ti innervosisca.
Mi viene quasi voglia di darti il permesso di chiedermelo! Scherzi a parte, io non definirei il mio lavoro minimalista, ma mi rendo conto che possa sembrare tale. Io lo vedo come semplice espressione. Anzi, penso che sia così per tutti i tipi di creazione. Per me la questione è semplice. La gente cerca di esprimersi nei modi e con i mezzi più variegati. Tutto qui.

Quando hai vinto il Turner Prize nel 2001, Adrian Searle, critico del Guardian, disse che fondamentalmente tu sei bravo a tirar fuori le cose dal nulla. Madonna invece, che presentava il premio, disse che ricevere premi è una cosa sciocca. Insomma, ognuno diceva la sua in quei giorni: tu cos’hai da dire? Ti è piaciuto stare sotto le luci della ribalta?
In effetti c’è stata molta attenzione da parte dei media, ma infondo devo ammettere che non mi è dispiaciuto. Magari non mi aspettavo tutto quel casino, anche se in realtà i giornali inglesi si erano già occupati di me nel passato; la differenza è che il Turner ha un’eco internazionale. Forse non mi è dispiacituto perché tento spesso di fare dei lavori con le parole, mi piace parlare. Per me anche rilasciare interviste è un’opportunità di lavoro. Si tratta dello stesso processo creativo, come quando sono nel mio studio al lavoro su una scultura. Per me non c’è grande divario tra queste attività. Io vedo i giornali e la stampa in generale semplicemente come un diverso tipo di galleria o di spazio espositivo. Alcuni artisti trovano che dialogare con i media sia una sorta di “distrazione”. Io proprio no: direi esattamente il contrario.

“Per molto tempo fumare ha reso la mia vita più sopportabile; ho smesso perché mi sembrava di non fumare abbastanza”. Questa ce la devi spiegare… hai smesso davvero?
Certo che ho smesso davvero! Quando l’ho deciso non l’ho detto a nessuno, pensavo che era importante avere il pieno controllo della faccenda. La sensazione di non riuscire a fumare abbastanza è stata fondamentale per smettere definitivamente. Ho pensato: ok, fumare mi piace davvero un sacco, ma non è mai abbastanza, allora fumo sempre di più, però poi mi sento male… era come cercare sempre più di raggiungere il piacere senza riuscirci mai completamente. Quindi in un certo senso smettere era l’unica possibilità, l’unico gesto “assoluto” che non fosse fumare ininterrottamente. E ha funzionato.

Per concludere: hai in mente altri fioretti per il futuro?!
Ho voglia di fare cose sempre più stimolanti, di produrre lavori sempre migliori. Ma soprattutto, che abbiano un significato sia per me sia per gli altri.