L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Mousse Anno 1 Numero 3 Settembre 2006



Produci Consuma Crepa

Massimiliano Gioni

Vita breve e arte grande di Jason Rhoades





INTERVISTE
Carlos Amorales
Ugo Rondinone
John Bock
FOCUS Simone Menegoi su Bas Jan Ader
PRODUCI CONSUMA CREPA
Massimiliano Gioni su Jason Rhoades

UN AFFRESCO EPICO A MILANO Bruno Corà su Jannis Kounellis
DANCING: DUMBO E’ PARTITO di Andrea Lissoni
IMMAGINE VS IMMAGINAZIONE Una conversazione tra Paola Manfrin e Alberto Garutti
SPECIAL GUEST: AVAF
ENRIQUE METINIDES: EL NINO di Alessio Ascari
MEXICO: MARTIN PARR
LITTLE LADIES OF THE NIGHT di Luca Martinazzoli
NEW YORK CALLING di Cecilia Alemani
NEWS / START / BREVI INTERVISTE AI GALLERISTI MILANESI
BOOKSHOPPING
SHAMAN SHOWMAN: ALIGHIERO E BOETTI
L’ASSESSORE RAMPANTE Francesco Bonami su Sgarbi
NEUE KUNSTHALLE ST.GALLEN: ANNIVERSARIO
INTRODUCING MICHAEL FLIRI di Roberta Tenconi
NUOVI MOSTRI: BIENNALE DI VENEZIA di Lucia Tozzi
MILANO FILM FESTIVAL
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Dora Budor
Kathy Noble
n. 49 estate 2015

We don't need a dislike function: post-internet, social media, and net optimism
Andrew Durbin
n. 43 aprile-maggio 2014

The Screen as the Body
Elisabeth Lebovici
n. 32 febbraio-marzo 2012

Chantal Akerman
Elisabeth Lebovici
n. 31 dicembre 2011-gennaio 2012

Geoffrey Farmer
Monika Szewczyk
n. 30 settembre-ottobre 2011

Art Society Feedback
Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011


Jason Rhoades, My Madinah, 2004
courtesy: Hauser & Wirth

Jason Rhoades, The Black Pussy and the Pagan Idol Workshop, 2005
courtesy: Hauser & Wirth

Jason Rhoades, The Black Pussy and the Pagan Idol Workshop, 2005
courtesy: Hauser & Wirth

La scultura per Rhoades era una questione di volume, non solo nel senso di spazio da occupare, e da occupare alla grande con scatole, tubi, putrelle, elettrodomestici, scaffali, persino videogiochi da bar e chi più ne ha più ne metta, ma proprio volume come suono, del tipo ALZA IL VOLUME CAZZO!
Era scultura da spaccare le orecchie, una scultura rozza, rumorosa, coloratissima e incasinata, veramente da autoradio a palla, da corsia di sorpasso e quindi da cimitero delle macchine, ma un cimitero in technicolor, straripante di roba e cianfrusaglie e paccottiglia, spesso anche nuova, non arrugginita, anzi fiammante. Scultura da garage forse, o da scantinato, da discarica – immondezzaio da società dell’affluenza, dove si buttano via le cose ancora nuove.
Scultura riciclata, opera come ecosistema pulsante, vivo, per quanto artificiale. Rosso, giallo, bianco, blu, quei colori lì, roba da ferramenta e grande magazzino, ma anche da bandiera americana. Scultura, ammasso, giungla metropolitana che si estende all’infinito, come si estende all’infinito Los Angeles, dove Rhoades è vissuto ed è morto, o scultura come Canal Street, junk space di New York, strada di China Town di baracchini a centinaia di migliaia di oggetti ammassati e comprati e venduti e collegati quasi per caso o da leggi segrete, ma comunque una scultura che in un certo senso si sarebbe vista al meglio dalla macchina, in macchina, come fuori da un finestrino, anche perché poi l’auto è al centro di tutta l’opera di Rhoades.
La sua prima mostra a New York, nel 1993, da Zwirner, era un vero garage, con tanto di motore Chevrolet e una marea di altri oggetti da meccanico, e il motore funzionava e faceva girare una specie di trapano. E non è un caso che gli americani l’energia, la forza, quella fisica ma anche quella spirituale – quell’energia che riempiva tutto il lavoro di Rhoades e che il fatto che sia morto di infarto dà a quell’energia lì una carica anche distruttiva, che toglie il fiato – ecco gli americani non è un caso che l’energia la chiamino anche Drive, sì, proprio come Guidare, quasi che energia e automobili fossero sinonimi intercambiabili, che è poi come dire che Rhoades faceva scultura come Kerouac scriveva – non lineare, logorroico, bulimico. Rhoades era davvero pantagruelico, persino SUPERSIZE ME. Eccolo lì ad accumulare di tutto, a tenere in equilibrio – come diceva lui – l’impossibile, a fare il giocoliere – è ancora lui che parla – con una sega elettrica, una palla di gomma e un elefante africano vivo, perché – sempre lui che parla nel suo modo di parlare per iperboli – il mio lavoro parla di queste macchine sputtanate, sempre in movimento che sembrano funzionare da sole.

Macchine più o meno celibi, macchine che non producono ma celebrano allo stesso tempo la forza e lo spreco, l’energia e l’entropia, macchine mascoline, ma tanto maschie quanto stupide, onanistiche che poi vuol dire pugnettare e quindi Fai Da Te – nel lavoro di Rhoades di macchine così ce ne sono a decine. A Venezia, alla biennale, magari te lo ricordi nel 1999 con due opere giganti, perché naturalmente all’appetito di Rhoades – era anche grassoccio, naturalmente, un consumatore ideale, pingue – perché naturalmente all’appetito di Rhoades non bastava partecipare con una sola opera, e così era sia al padiglione Danese – sì, da bravo americano se ne andava in casa d’altri a fare le sue porcherie, con un’opera installazione collaborazione che era una celebrazione della velocità con go kart e barbecue, hot dog e casse di Bud – sia con Paul McCarthy all’Arsenale con Propposition, un vero inferno di bric a brac e ciambelle da Homer Simpson e tori meccanici con dildo giganti e una catena di montaggio sulla quale giravano montagne di lievito e impasto. Il mondo per Rhoades era questo accumulo apparentemente senza senso, giocoso, liberatorio nelle sue infinite possibilità, ma anche soffocante nella sua patina di novità, come se i prodotti si fossero animati, fossero impazziti e avessero conquistato il mondo intero, mettendoci una volta per tutte in disparte, noi altri sotto vuoto, mi manca l’aria.

Con Paul McCarthy, che era stato anche suo maestro, Rhoades ne ha fatte letteralmente di tutti i colori, fino a collezionare la merda dei cessi di Documenta per impacchettarla in strani container a forma di supposta. C’è da dire che a volte Rhoades esagerava e nella foga si lasciava anche andare e non tutte le sue opere sono capolavori e forse di capolavori non ne ha fatti manco uno, magari non li ha neanche inseguiti, più che al capolavoro forse pensava all’opus magnum perché cercava nella quantità e nella scala ciclopica la sua cifra stilistica. Ma anche senza capolavori Rhoades resta un artista cruciale, davvero importante per gli ultimi dieci anni o giù di lì, e c’è chi dice che in fondo deve tutto a McCarthy, ma in realtà ha preso quanto ha dato, e se McCarthy oggi è riconosciuto come il maestro che è, è anche grazie a Rhoades che ha rilanciato un mondo dionisiaco, caotico, informe. Che è poi lo stesso mondo che sognano o abitano, ciascuno a suo modo, gente come John Bock, Mike Kelley o Thomas Hirschhorn e, ancora prima, il grande Dieter Roth. Un mondo se vuoi anche troppo testosteronico, più che altro maschile e muscoloso, ma che pure ha esempi importanti in altri grandi artisti assai femminei come la ruvida Cady Noland e l’arzigogolato Matthew Barney. Perché in fondo è nella loro scia che Rhoades esordisce all’inizio degli anni Novanta: con loro Rhoades è tra i primi a imporre un’idea di mostra e di opera come immersione. Quelle di Rhoades e dei suoi compagni di viaggio, infatti, sono mostre in cui devi entrare come si entra in un film, in un centro commerciale o in un luna park: non si va a vedere delle opere o delle cose, si va a vivere un’esperienza totale.

Per Rhoades questa totalità aveva sempre anche qualcosa di sgangherato, improvvisato, e a volte affondava nel ridicolo o nell’ossessivo, per non dire nel volgare. Tutto doveva essere collegato, ammassato, compresso, anche a costo di apparire assurdo, senza senso. Tra le ossessioni che lo avevano accompagnato negli ultimi anni c’era la compilazione di un gigantesco elenco di sinonimi scurrili per dire Vagina. Pare ne avesse raccolti quasi settemila, solo in inglese, e in un paio di mostre ne aveva snocciolati fino a seicento, trasformandoli in insegne al neon e installazioni intricate. Certo, queste operazioni non gli attiravano simpatie di gruppi femministi e politically correct. E anche se non parlava forbito e a vederlo sembrava un ragazzotto americano da birra allo stadio per il Super Bowl, Rhoades non era certo un macho: il suo era piuttosto il bisogno di imitare e replicare all’infinito anche gli elementi più bassi e disgustosi dell’America e soprattutto dell’America bianca e maschia e un po’ ottusa, l’America che lavora anche a vuoto, senza capire, come una macchina celibe appunto. Quella sua immersione nel mondo dell’americano medio era forse più che altro una forma di esorcismo.

La prima volta che ho incontrato Rhoades, non che fossimo amici o altro, ma comunque la prima volta in cui l’ho incontrato, dopo aver scoperto che ero italiano, mi ha mostrato orgoglioso le sue scarpe Valleverde – proprio quelle là di come è bello camminare in una Valle Verde con Kevin Costner che sorride nello spot. Le aveva acquistate le sue Valleverde per un’incomprensibile mania di emulazione nei confronti proprio di Kevin Costner, per il quale Rhoades nutriva una bizzarra fissazione, forse perché Costner incarnava l’icona, un po’ offuscata ma pur sempre intramontabile, dell’ultimo eroe americano, dell’ultimo sceriffo, del buono a tutti costi – la faccia dell’America pulita e acqua e sapone che con la sua opera Rhoades imitava, per poterla al contempo celebrare, distruggere, attaccare, corrodere e incasinare.
La sua più grande installazione, anzi grandissima – all’epoca a sentir lui in effetti la più GRANDE SCULTURA AL MONDO, roba da guinness dei primati – Rhoades l’aveva creata ad Amburgo e l’aveva intitolata Perfect World, un mondo perfetto, proprio come il film di Clint Eastwood con Costner nel ruolo di protagonista, ladro in fuga ma eterno gentiluomo, Costner sempre lui che oltre a camminare nelle Valli Verdi del sogno americano era pure capace di ballare con i lupi e di schierarsi con gli indiani, chissà agli arabi che gli avrebbe fatto oggi come oggi.

Con gli arabi e coi musulmani Rhoades si era fissato di recente, sempre alla ricerca dei nervi scoperti e delle paure dell’America media. E così Rhoades si era messo a costruire per la sua installazione Meccatuna una replica della Mecca, realizzata però con circa un milione di mattoncini lego che venivano assemblati direttamente nel corso della mostra. Idea solo a prima vista assurda e magari persino offensiva, ma poi a ben vedere neanche tanto peregrina perché da qualche parte Rhoades aveva letto che la forma cubica della Mecca, così silente e austera, si dice che intrappoli divinità e idoli risalenti all’età preislamica, rinchiusi e imprigionati per sempre dall’avvento del monoteismo. Insomma la Mecca, nella sua perfezione minimalista, sarebbe una roccaforte contro la proliferazione di immagini, surrogati e prodotti che invece ancora affollano, inquinano e soffocano il nostro mondo così clamorosamente politeista, di cui Rhoades è stato il più delirante cantore.

Jason Rhoades è morto il primo agosto del 2006 a 41 anni.