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Mousse Anno 3 Numero 12 gennaio-febbraio 2008



Paul Mccarthy

Michele Robecchi

Bossy Paul





FOCUS
CLAUDE CAHUN

PORTFOLIO
ELAD LASSRY

CITY FOCUS
ATHENS

GIANNI COLOMBO RESTLESS SPACE

BRUNO MUNARI EXACT FANTASY

PAUL MCCARTHY Bossy Paul

FISCHLI/WEISS THE FISCHLI/WEISS PRACTICE

LORNA MACINTYRE INTERVISTA

SPECIAL GUEST JONATHAN HERNÁNDEZ

ALBERTO GIACOMETTI THINKING OF SCULPTURE AS SHAPED BY SPACE

FLORIAN PUMHÖSL INTERVIEW

LEONOR ANTUNES & RENATA LUCAS MANIPULATING ARCHITECTURE

CATHRINE SULLIVAN I’M NOT THERE

FRANZ WEST GO WEST!

NICOLA PECORARO INTERVISTA

INTRODUCING INVERNOMUTO

LOST IN THE SUPERMARKET NEWS & BOOKS

CORRISPONDENZE
BERLIN STUDIO VISITS
PARIS-MILANO
LONDRA - MILANO
NEW YORK - MILANO
LOS ANGELES - MILANO
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Dice bene Michele Robecchi: con McCarthy non ci sono mezze misure. O lo si ama o lo si odia. Il suo esagitato mix di pop e violenza, sesso e trash food, farsa demenziale e angoscia esistenziale non è un cocktail per tutti i palati. Noi, che siamo sempre salomonici (???), ricordiamo ai detrattori dell’artista che le sue trucide performance, Disneyland + Azionismo viennese, raccontano la cultura americana, le sue ossessioni e i suoi lati oscuri, meglio di cento articoli e saggi. E ai fan, quelli che non si sono persi la sua mostra natalizia da Maccarone a New York e che stanno per mettersi in viaggio alla volta della sua retrospettiva allo SMAK di Ghent (chiude il 17 febbraio), chiediamo uno sforzo di obiettività: siete proprio sicuri che il vostro eroe non stia esagerando con il marketing, ultimamente? Che stiate da una parte o dall’altra, buona lettura.

Paul McCarthy è uno di quegli artisti che dividono il mondo in due. Il suo lavoro si abbatte sul pubblico senza mezze misure, separandolo in fedeli seguaci e accaniti detrattori. Nel corso degli anni non è arretrato di un centimetro, attraversando impermeabile tre decadi segnate da stravolgimenti formali e non. Ancora oggi, in un’epoca dominata dall’immagine e arricchita di artisti più o meno indebitati al suo lavoro (Gelitin, Jason Rhoades, Christoph Büchel, Mike Nelson), questo mix esplosivo di simbologie freudiane, azionismo viennese, traumi infantili, cultura popolare americana, demenza, sesso e cibo, continua a colpire e a disturbare anche un pubblico a prova di bomba come quello dell’arte contemporanea. Un percorso, quello di McCarthy, che trova le sue origini in un posto improbabile come Salt Lake City, dove nacque nel 1945. Proprio sulle rive del lago che bagna la cittadina dello Utah, venticinque anni dopo Robert Smithson realizzò la sua Spiral Jetty, opera seminale della Land Art. Nessuno ha mai indagato a fondo la questione, ma viene spontaneo chiedersi se McCarthy, che in quegli anni stava muovendo i primi passi nel mondo dell’arte, non abbia inconsapevolmente individuato in quella scultura macroscopica e monumentale l’ingrediente mancante per diventare una delle voci più originali dell’arte americana. Fino a quel momento, infatti, l’arte di McCarthy non si differenziava troppo da quella di molti artisti della sua generazione. Forse la documentazione scarna e rigorosamente in bianco e nero dei tempi contribuisce a questo senso di appiattimento, ma è innegabile che le sue prime azioni (ai tempi il vocabolo ‘performance’ non era ancora stato inventato), per quanto rilevanti all’interno di un percorso personale, non avevano ancora quelle tinte forti e dissacratorie che avrebbe acquisito in seguito. In un periodo in cui Bruce Nauman misurava a grandi passi lo studio e Lawrence Weiner creava dei fori nei parchi nazionali con una serie di microesplosioni, McCarthy sembrava solo uno dei tanti artisti americani intenti ad esplorare quella nuova possibilità di fare arte indicata da Allan Kaprow anni prima. Eppure a ben vedere già nei primi esperimenti documentati su nastro, collettivamente chiamati Basement Tapes, si intravedono degli elementi che poi diventeranno una costante nel lavoro dell’artista, come ad esempio la totale assenza di una struttura narrativa, la pressione claustrofobica dello spazio e una persistente ripetitività. Soffermandosi nel dettaglio, in Ma Bell fa la sua prima apparizione il liquido, sotto forma di olio da motore; in Face Painting - Floor, White Line (1972) il corpo diventa protagonista, prendendo il posto del pennello e lasciando una traccia di vernice sul pavimento. Ma è probabilmente in Whipping A Wall And A Window With Paint (1974), dove i passanti vedevano McCarthy ‘ingabbiato’ in una vetrina spargere vernice sui muri, che ci si rende conto della violenza e del ruolo dello spazio nell’universo dell’artista. La battaglia spirituale tra vuoto e realtà, che per ammissione stessa di McCarthy fu il fulcro di una seria crisi psicologica a inizio anni Settanta, si manifestava in modo scontato ma pregnante, tracciando un solco che arriverà ad ospitare i semi di creazioni future come Hot Dog (1974), Death Ship (1981) e Bossy Burger (1991). In netto contrasto col rigore formale dei tempi, i set delle azioni di McCarthy diventavano dei veri campi di battaglia. L’importanza dell’oggetto non era negata, anzi, una strana forma di feticismo si faceva strada investendo giocattoli, bottiglie e macchie di ketchup di un valore aggiunto intenso quanto fastidioso. Bossy Burger si è guadagnato un posto importante nella produzione di McCarthy, ed è facile capirne il perché. Mad Magazine oggi è poco più che un esercizio di satira fumettistica, ma in quegli anni era una bibbia della controcultura. La decisione di utilizzare il simbolo della rivista – Alfred E. Neuman – come personaggio centrale, associata alla scelta del set di Tre Nipoti E Un Maggiordomo, forse la più rassicurante serie televisiva mai esistita, garantisce già le premesse per un contrasto drammatico. McCarthy/Neuman si aggira per lo spazio senza una logica precisa, prigioniero di un mondo sospeso nell’oscurità del vuoto, dove la realtà, osservata dall’esterno, diventa un gioco assurdo e inutile. Bossy Burger sta all’arte come Aspettando Godot di Beckett sta al teatro. Difficile restare indifferenti davanti ad un’allegoria così sinistra della condizione umana. Le singole immagini o un’osservazione parziale possono trarre in inganno e far sorridere, ma attraversare per intero i 50 minuti di Bossy Burger è un’esperienza angosciante. McCarthy ha individuato nell’uso della maschera una delle ragioni per cui la differenza tra oggetto e performance è minima. I fori della maschera gli permettono una visibilità limitata, creando una specie di cornice naturale intorno all’azione, come quando si usa una telecamera. Si tratta di una giustificazione tecnica poco illuminante, che però serve per soffermarsi su un altro punto: la maschera non ha solo una funzione scenografica o di protezione, diventa anche un processo di impersonificazione fisica e spaziale. Al’interno della maschera diventa difficile respirare, la voce cambia. Vista dalla prospettiva dell’artista, diventa una componente architettonica restrittiva, come le pareti e i mobili che lo circondano. La diffidenza e il disperato cinismo di McCarthy verso il mondo e la sua cultura non devono far pensare che sia privo di umorismo. Painter (1995) prende di mira il ruolo dell’artista e il blocco della creatività. McCarthy/pittore cerca di dipingere ma non ci riesce. Inveisce contro de Kooning ed esprime tutta la sua frustrazione contro l’opera incompiuta e il mondo che la aspetta. È un’azione corrosiva che trova spazio e integrità anche perché McCarthy, al contrario del suo alter ego in Painter, non sembra malato di narcisismo. La sua presenza è continua ma confusa, irriconoscibile e intercambiabile, nascondendosi con estrema naturalezza anche nei lavori a quattro mani realizzati con Mike Kelley e Jason Rhoades, come Fresh Acconci (1995) e Proposition (1999). Rhoades, che conobbe McCarthy da studente, viene spesso considerato una versione ibrida del maestro, ma in effetti il suo lavoro nasce da premesse completamente diverse. Il caos di Rhoades è freddo, frutto di una meticolosa ricerca dove niente è considerato irrilevante. Quello di McCarthy nasce dal caso. Gli oggetti vengono acquistati il giorno stesso della performance o poco prima e la loro presenza trova spesso una logica solo dopo esser stata assoggettata alle cure splatter dell’artista. I critici di McCarthy hanno sempre sostenuto che l’uso del ketchup al posto del sangue sia la prova che la sua arte non sia altro che una versione spettacolarizzata e surrogata di Herman Nitsch e soci, ma è un’osservazione superficiale. McCarthy è cresciuto negli Stati Uniti, non nella Vienna post-bellica. Le origini della sua filosofia (o delle sue ossessioni) non vanno ricercate nel grigio clima di ricostruzione di una città europea torturata dalla guerra, ma nel gigantismo, nella televisione, nell’intensità cromatica, nell’estetica di una nazione in cui spesso la sobrietà viene sacrificata nel nome dell’entusiasmo. Le recenti uscite europee di McCarthy, dalla doppia mostra londinese da Hauser & Wirth e Whitechapel nel 2005 fino alla retrospettiva allo SMAK di Gent tutt’ora in corso, confermano invece come il pubblico europeo sia probabilmente più disposto a cogliere l’essenza del suo lavoro.
Non è un segreto che quando McCarthy si trasferì in California nel 1969, incarnò insieme a Mike Kelley il ruolo di artista anti-New York per eccellenza, una posizione che secondo alcuni gli è costata il successo nella grande mela. Anche nel febbraio del 2001, quando ci fu una vera e propria invasione a Manhattan con la retrospettiva al New Museum, l’installazione di The Garden da Deitch Projects, la ricreazione del suo studio in Madison Avenue sponsorizzata dal Public Art Fund e Santa Chocolate Shop da Luhring Augustine, l’accoglienza fu rispettosa ma non particolarmente esaltata. Grady Turner, che ai tempi lo intervistò per Flash Art, descrisse McCarthy come “un misto tra un biker e Babbo Natale”. E Babbo Natale, sei anni dopo, si prende la sua rivincita. La recente mostra da Maccarone Inc., è la cattedrale in cui il consumismo criticato da McCarthy e la sua arte viscerale convolano a nozze. L’artista ha costruito il sequel di Santa Chocolate Shop. Il cottage, presentato per la prima volta alla Biennale del Whitney nel 1997, cristallizzava l’incubo di un consumatore di cioccolato. Tolti gli attori rimangono i loro frutti: la galleria è stata mutata in una fabbrica che produce quotidianamente circa 1,000 statuette fallico/natalizie di cioccolato. Mentre i pezzi difettosi sono disponibili per un assaggio gratuito, quelli buoni sono venduti come strenna d’autore a poco più di 70 euro. Fonti della galleria dicono che le vendite si aggirano mediamente sui 100 pezzi al giorno. Considerando che la mostra è destinata a durare fino alla vigilia di Natale, cosa accadrà ai circa 3,000 pezzi residui? Sicuramente McCarthy ha già in serbo la risposta.