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Urban Anno 8 Numero 66 marzo 2008



L'esatto contrario

Francesca Bonazzoli

Una non intervista a Maurizio Cattelan





URBAN 66 MARZO

sommario

13 Editoriale

15 Icon
di Matteo Ragni

16 Interurbana
al telefono con Manuela Parrino
di Maurizio Marsico · illustrazione Massimo Basili

18 Trip
di Fabio Sironi

21 Portfolio
GreenWashing

27 China Rock
di Ciro Cacciola · foto Nicola Longobardi

30 Arte
a cura di Floriana Cavallo

33 Design
in collaborazione con design-italia.it

34 L’Esatto Contrario
di Francesca Bonazzoli · foto Cesare Cicardini

40 Musica
di Paolo Madeddu

43 Contemporary Witch
foto Pablo Arroyo

53 Body
di Irene Sandri

55 Details
di Claudia Gasparini

57 Lab
di Irene Sandri

59 Bianchi + Bianchi
di Roberto Croci

62 Attore per ossessione
di Raffaella Oliva · foto Massimo Berruti

67 Libri
di Marta Topis

68 Autostop
di Paolo Madeddu · foto Doug Biggert

71 Film
di Sasha Carnevali

73 Nightlife
di Lorenzo Tiezzi

77 Fuori

86 Ultima fermata
di Enrico Brizzi
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Foto: Cesare Cicardini

Foto: Cesare Cicardini
Cover Urban 66
Foto: Cesare Cicardini

Una non intervista. Per questo lo abbiamo inseguito fino a Bregenz, dove ha inaugurato la sua ultima mostra.
Quando inizia a parlare è un fiume in piena, tutto un susseguirsi di battute, nonsense, trappole. Ma è bastato estrarre un taccuino per farlo scomparire


Dunque, vediamo.
Cerco di ricapitolare per l’ennesima volta, guardo e riguardo, ma niente da fare: davanti a me lo schermo del computer, sotto le icone colorate, è vuoto; sul tavolo il taccuino degli appunti è immacolato e il registratore tace, muto e ostinato. Ecco il bilancio fallimentare del mio incontro con Maurizio Cattelan nella Kunsthaus di Bregenz in occasione della sua personale che si concluderà il 24 marzo.
L’ho inseguito fino in Austria, anche se lui mi aveva avvertita: le foto sì, però niente intervista. Un mantra ripetuto da mesi a tutti i giornalisti simile a quello, “non te la do l’intervista”, recitato da Nanni Moretti. Eppure mi ero illusa che, chissà, forse all’ultimo momento, avrebbe ceduto come Moretti crollato davanti al domandone impertinente sul “fattore C”, il suo lato più privato esposto senza pudore in Caos Calmo.
E invece niente: primo perché Cattelan non si è ancora spogliato; poi perché il suo mutismo, contrariamente a quello teorizzato dall’autore di Palombella Rossa – “La vita di un uomo viene sporcata per sempre se qualcuno ne parla su un settimanale” – non ha nulla a che fare con la reputazione, la strategia d’immagine o la posa intellettuale.
Il mutismo di Cattelan ha a che fare con il suo personale divertimento perché lui, in realtà, parla, parla tantissimo, mi parla persino delle opere esposte. Risponde anche alle domande, ma a modo suo, ovvero strampalato, con battute, nonsense, trappole, e appena tiro fuori foglio e penna per fissarne qualcuna, si allontana per interpretare la sua parte di guitto sotto l’obiettivo del fotografo dove sguazza felice e rilassato come nelle piscine che ama frequentare dovunque si trovi, a Milano e a New York (le città dove vive), a Bregenz come a Monaco.
Così eccomi qua a sospirare: magari fossi Cattelan e potessi fare come lui! Non consegnare il pezzo e lasciare le pagine bianche. Nella mia situazione, senza un’idea di come riempire le stanze del centro per l’arte contemporanea del Castello di Rivara, nel 1996 lui fece proprio così: le lasciò vuote. Il pubblico comprava il biglietto, entrava e rimaneva interdetto. Chi invece era rimasto fuori, fregandosene di pagare il tributo al suo geniaccio sregolato, vedeva l’opera: una corda di lenzuola bianche annodate che pendeva da una finestra del museo, ovvero quello che era rimasto della fuga dell’artista ribellatosi al suo compito.
Potrei anche andare su internet e copiare altre interviste: tutta roba vecchia, certo, di quando ancora parlava; ma con un po’ di taglia e incolla, bene o male il pezzo lo tirerei fuori. In fondo è ancora lui a suggerirlo: era ad Amsterdam, era l’ultimo giorno utile per allestire la mostra in programma al centro per l’arte contemporanea De Appel, ma idee proprio non ne aveva. Allora, di notte, è entrato in un’altra galleria, ha rubato tutto, compreso i telefoni, i fax, i tavoli, e ha traslocato l’intero malloppo al De Appel. La mostra finalmente c’era, ma con essa arrivò anche la polizia.
Magari fossi Cattelan! Ma a parte che a lui tutto è permesso perché è un artista, e anche il più pazzo, ironico e istrionico, io nemmeno potrei rubarla una sua intervista. Andate a leggerle, se volete farvi del male: in una asserisce “Il mio lavoro ha sempre avuto una componente narrativa”, in un’altra “Non mi interessa la narrazione: mi piace arrivare dritto alla fine”; a un povero giornalista rivela che “l’arte è una questione di coincidenze e ritmi lenti, come la vita”, a un altro “l’arte funziona da acceleratore: concentra la vita in un’immagine”. Altre volte ha risposto rubando le parole di un altro intervistato, le ha letteralmente copiate e lo sprovveduto giornalista ha fatto la figura dello scemo.
Insomma Maurizio Cattelan è un impertinente Giamburrasca che ha come filosofia artistica lo spiazzamento del pubblico. È un Arlecchino che serve due padroni: la verità e il suo contrario. Scompigliare tutto è il suo imperativo. Sconcertare e scappare lasciando il cerino acceso in mano a chi ci è cascato. Per esempio l’intera città di Milano che ha rimosso una sua opera dalla piazza in cui era esposta. Ve li ricordate i tre bambini impiccati che penzolavano dalla quercia di piazza XXIV Maggio? Fu un grande scandalo, con tanto di vandalo che finì in ospedale nel tentativo di tirare giù i bambini e i leghisti che protestarono davanti al palazzo del Comune con bambole gonfiabili. Ebbene, Cattelan stava a godersi lo spettacolo mentre Milano, ex città del Futurismo ed ex città di Piero Manzoni e della sua “merda d’artista”, passava per la città provinciale che nel giro di 24 ore rimuoveva l’opera d’arte di uno degli artisti più quotati al mondo. Complimenti!

Anche alla Biennale di Venezia del 2001, dove tutti sgomitavano per avere un posto al sole della tre giorni di vernissage, lui spiazzò tutti e spostò il vero evento vip da un’altra parte: prese una trentina dei collezionisti più danarosi e snob del mondo, li caricò su un jet privato e li portò a scalare la discarica di Palermo, tra gabbiani in picchiata e odori che avrebbero fatto svenire un marinaio, per raggiungere l’enorme scritta “Hollywood” fatta installare sulla cima. Anche il jet set ha preso per i fondelli, altro che “fattore C” di Moretti!
A Bregenz, invece, Cattelan ha messo in mostra il lato più malinconico del suo lavoro perché, come tutti i guitti, anche lui ha un versante blue. Forse (ribadisco forse) la sua vera personalità è addirittura timida, schiva, impaurita dal suo stesso successo, spaventata dal fatto che il suo geniale divertimento possa valere milioni di euro.
La Kunsthaus della linda e raggelante cittadina di Bregenz (con passati nazisti liquidati in una minuscola targa nella chiesetta della piazza) si presenta come un cubo di cemento, una specie di bunker claustrofobico: ogni piano è un solo enorme stanzone, lindo, vuoto, senza alcuna divisione interna.
All’ingresso Cattelan ha piazzato tre manifesti di Bregenz in fiamme sovrastata da un enorme pollice rivolto in basso come quello dell’imperatore quando condannava il gladiatore a morte. Salendo al primo piano, al centro dell’immenso stanzone, il visitatore trova due cani labrador accucciati, gli occhi e il muso dolcissimi e, in mezzo a loro, un pulcino. Una scena intima, da focolare domestico. Se ci si avvicina, però, si vedono le cuciture dell’artigiano che li ha tassidermizzati: un magnifico orrore.
Salendo ancora di un piano ecco nove morti coperti da un lenzuolo, tutti scolpiti nel marmo e allineati sul pavimento come nell’obitorio dopo un massacro. Le membra di alcuni sono scomposte, in un ultimo movimento appena avvenuto.
Ma non è ancora finita: in fondo al salone si apre una porta. Varcata la soglia, al culmine di una ripida gradinata di cemento che ricorda la salita a un calvario, una ragazza bionda pende dallo stipite di una porta, la testa reclinata e le braccia aperte come in croce. Il colpo è da maestro.
Cattelan sostiene che “la loro fine è solo biologica e più che morti sono un’immagine della vita che continua”. Ma l’effetto è ancora più forte di quello suscitato nel 1999 alla Royal Academy di Londra da La nona ora, la statua a grandezza naturale di papa Giovanni Paolo II colpita da una meteorite, o da Him, altra statua di un bambino inginocchiato in preghiera di spalle e che nasconde all’osservatore la faccia di Hitler.
È il lato malinconico del lavoro di Cattelan, una vena oscura che arriva direttamente dall’infanzia: lo scoiattolo suicida (Bidibibodibiboo del 1996) su un tavolo di formica gialla di una cucina, versione miniaturizzata di quella della casa dove abitava da bambino, è il suo alter ego. Vulnerabile e fragile. Come tutti gli spiriti beffardi.