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Urban Anno 8 Numero 68 maggio 2008



Vado a Berlino e torno

Francesca Bonazzoli

Intervista a Patrick Tuttofuoco





URBAN 68 MAGGIO
SOMMARIO

9 Editoriale

10 Icon
di Renzo Rosso

12 Interurbana
al telefono con Michele Robecchi
di Francesca Bonazzoli • illustrazione Massimo Basili

14 Trip
di Fabio Sironi

17 Portfolio
Creative city

23 Vado a Berlino e torno
di Francesca Bonazzoli

27 Film
di Alessio Guzzano

28 La Versione di Scarlett
di Paolo Madeddu

31 Design
in collaborazione con design-italia.it

33 Soccer Is Art
di Raffaella Oliva

36 Arte
a cura di Floriana Cavallo

38 Overnight
foto Marco Piana • styling Sonia Cabiaglia

46 Details
foto Max Novaresi • styling Ludovica Codecasa

48 Body
foto Max Novaresi • styling Ludovica Codecasa

50 Febbre da Fieno
foto Paolo Nobile • styling Ornella Rota

54 Cannes a modo mio
di Roberto Croci • Francesca Felletti

58 Scusate se è poco
di Maurizio Baruffaldi • foto Cesare Cicardini

61 Libri
di Marta Topis

62 Shanghai overview
di Maurizio Marsico • immagini Isidro Blasco

67 Musica
di Paolo Madeddu

71 Nightlife
di Lorenzo Tiezzi

73 Fuori

82 Ultima Fermata
di Andrea Carlo Cappi
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Berlino, New York, Los Angeles. Gli stimoli vanno colti dove emergono, ma i legami con Milano non si troncano. Parola di Patrick Tuttofuoco, artista della nuova generazione

Trentaquattro anni, che sembrano dieci di meno; uno studio nella ex sede del gallerista milanese più in, Massimo De Carlo, invaso dai giocattoli del figlio di un anno e mezzo; moglie e alcuni amici coetanei come modelli di riferimento; una felpa sempre indosso, fedele all’abbigliamento di quand’era ragazzino. Patrick Tuttofuoco, fra gli artisti italiani emergenti più riconosciuti internazionalmente, è il prototipo di una nuova generazione di artisti nata fra gli anni Settanta e Ottanta. Per loro, niente bohème, ma una vita normale e ordinata.
Se Raffaello moriva a trentasette anni stroncato, testimonia il Vasari, dal troppo sesso e Caravaggio crepava a 37 anni da assassino; se Guido Reni tirava le cuoia dopo essersi rovinato col gioco d’azzardo e Modigliani in una stamberga lasciando in giro due figli illegittimi e una compagna suicida; se nel 1968 Pino Pascali, irriverente talento dell’Arte Povera, si schiantava a 33 anni con la moto a Roma, la stessa città della Dolce Vita dove Mario Schifano sniffava droga con tale impudenza da finire in galera, le storie delle nuove generazioni di artisti sono molto meno avventurose. Prevedono moglie, figli, carriera programmata, lap top, cibo biologico, soggiorno nella linda e prussiana Berlino, giuste frequentazioni, una devozione verso il lavoro quasi religiosa. Niente vita spericolata, ma a letto presto e sveglia al mattino in tempo per portare i figli all’asilo.
Chissà, forse anche questo è un microindicatore di come la società sia cambiata: se anche il più trasgressivo dei mestieri si è “domesticato”, dobbiamo concludere che l’audacia non sia esattamente la caratteristica del nostro tempo. La paura, rumore di fondo dominante del nuovo millennio, ha contagiato e normalizzato persino quelli che per secoli sono stati gli interstizi inespugnabili di eccentricità.
Nel 2000, a 26 anni, Tuttofuoco veniva già “prescelto” dalla modaiola pubblicazione Espresso, edita da Electa. Da allora, la sua carriera è stato un tranquillo cammino verso le tappe giuste della consacrazione artistica contemporanea: adottato da Francesco Bonami, ha realizzato performance, video, scritte al neon ed enormi totem/scultura colorati partecipando alla Prima Quadriennale di Arte Contemporanea presso lo Stedelijk Museum voor Actuele Kunst di Gent, esponendo al Centre d’Art Contemporain di Ginevra o alla Biennale di Venezia del 2003. I suoi prossimi impegni prevedono un intervento a Berlino (nel nuovo quartiere della creatività che Mariano Pichler, inventore di via Ventura a Milano, sta realizzando nell’area di Wedding) e la partecipazione alla Folkestone Triennial, collettiva internazionale che aprirà il 14 giugno nella cittadina sulla costa del Kent, e che vedrà Tuttofuoco partecipare accanto a nomi celebri come Christian Boltanski, Tracey Emin, Jeremy Deller, Tacita Dean, Mark Wallinger.

C’è chi dice che per fare l’artista oggi sia necessaria soprattutto tenacia. È così?
“Io studiavo architettura a Milano e la mia vita andava bene così. Seguivo le mostre, ero interessato all’arte e non pensavo certo di essere io a poter produrre le cose che vedevo. Poi ho lasciato architettura, mi sono iscritto all’Accademia e non ho finito neanche quella, ma ho iniziato a fare dei lavori e la cosa è andata avanti da sé. Dopo, certo, quando entri nel sistema, per resistere ci dev’essere una tenacia maledetta”.

Per esempio?
“Devi dedicare tempo a rimanere in contatto con quello che sta succedendo intorno, in un dibattito artistico che si è molto allargato: dieci anni fa venivano fuori cento artisti importanti all’anno, adesso 100mila. Devi usare tanta energia per rimanere aperto e nello stesso tempo mantenere fresco e cristallino il tuo desiderio di lavorare. Insomma non ti puoi chiudere in studio, ma devi tenere assieme tutti i pezzi che compongono il sistema in cui sei dentro”.

La cosa più faticosa? Telefonare ai galleristi?
“Mai fatto una telefonata. Io lotto affinché le cose vadano bene, come ogni persona, ma a volte tenere troppo i contatti non serve. D’altra parte non so gestire più di tanto le dinamiche di relazione, mentre c’è chi costruisce il proprio lavoro su di esse e allora ha senso fare le telefonate. Nel mio caso ha più senso organizzarmi un viaggio”.

Ecco, spiegaci questa storia del viaggio: nel 2005 sei riuscito a farti pagare dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo un viaggio di 80 giorni, con degli amici, attraverso dieci paesi del mondo e 17 megalopoli (compreso il Capodanno a Rio de Janeiro) e poi a confezionarlo come mostra sotto il titolo di Revolving. Sei furbo o sei bravo?
“Negli ultimi anni ho iniziato a usare il viaggio come materiale di ricerca da trasformare in forme, una scultura o un video. L’idea di Revolving era quella di restare nelle megalopoli un tempo molto breve, solo cinque giorni per ognuna, per vedere quante informazioni si riuscivano a trattenere. Mi interessano le dinamiche di interpretazione della realtà: il senso dell’opera sta nel risultato di questo percorso. Quando costruisco una forma mi preoccupo che abbia dei contenuti, non solo un’estetica”.

Sembra un concetto molto più difficile rispetto ai tuoi primi lavori, per esempio quando nel 1999 giravi come un criceto su una ruota montata in corso Vittorio Emanuele, a Milano, o quando giravi con lo scooter lungo una pista umana a forma di otto nella piazza della stazione centrale.
“Quei lavori avevano un tono ironico, mi interessava generare una reazione spontanea nel pubblico, andare anche lì a toccare con mano la realtà. Se avessi fatto quelle stesse performance in un luogo chiuso e protetto come una galleria o in un museo avrebbero avuto tutto un altro senso. Volevo invece inserirmi nel flusso di un contesto normale e verificare l’energia che si generava. In fondo c’è un legame con il mio lavoro attuale”.

Come si svolge la tua giornata?
“Mi sveglio alle 9. Alle 9.30 porto mio figlio all’asilo, dopo controllo le mail, faccio ricerca su nuove idee e poi ci sono i periodi in cui produco i lavori veri e propri”.

Non ti perdi mai?
“Come no! Ci sono giornate intere in cui non combino nulla e giornate di depressione. Magari passo un mese dietro un’idea e poi mi rendo conto che è meglio buttare tutto”.

Hai paura del futuro?
“Da matti! E non c’è bisogno di avere un figlio per essere spaventati dal futuro. Però non è coraggioso chi non ha paura, ma chi reagisce alla paura”.

Dunque ti definisci un coraggioso?
“Come lo sono tutti quelli che si svegliano alla mattina, vanno al lavoro e cercano di farlo con serietà e onestà, tentando di fare il minor male possibile”.

Adesso i giovani artisti sono tutti regolari. La bohème è passata di moda?
“In effetti tutti i miei amici artisti parlano di bambini, anche se non ne hanno. Non so il perché. Forse è questione di cicli e ricicli. È forse una risposta alla grinta tutta puntata in avanti degli anni Ottanta o magari il motivo è che l’arte contemporanea ha allargato la sua base ed è diventata un’occupazione come le altre”.

C’è tanta invidia nel piccolo mondo dell’arte?
“L’invidia è normale, dipende da come la gestisci o se arriva lei a gestire te. Può essere uno stimolo a tenere le antenne alzate. Piuttosto, il difetto maggiore del sistema dell’arte è la sua chiusura: capisco che possa succedere per non confondersi con l’esubero di informazioni, ma in alcuni casi si trasforma in snobismo, in un luogo dove ci diciamo quanto siamo bravi tra noi, mentre l’arte dovrebbe diventare un luogo aperto a tutti”.

Adesso andrai a Berlino: scommetto che prendi casa a Prenzlauerberg o a Mitte.
“Sì, e allora? Lo so, è un posto fighetto, ma me ne frego: per i bambini è perfetto”.

Prevedi di tornare in Italia, prima o poi?
“Dopo la Germania nel mio futuro vedo New York e Los Angeles, la città che trovo più stimolante in questo momento per un giovane artista. Vado all’estero per rubare idee ed energie, da riportarmi però a casa. Prima o poi a Milano torno, non potrei farne a meno”.